LA SCIENZA PRIMA DELLA SCIENZA: LE SUE TRACCE E I SUOI POSSIBILI FONDAMENTI TEOLOGICO-ASTRONOMICI NEL MONDO PREISTORICO A PARTIRE DALLA SCOPERTA DI UN CODICE AUREO DELLO SPAZIO-TEMPO NELLA GRANDE PIRAMIDE E NELLE STELI ANTICO EGIZIE

Alla parte quarta de « Une saison en enfer » : L’IMPOSSIBLE

Dans un grenier, où je fus enfermé à douze ans, j’ai connu le monde, j’ai illustré la comédie humaine. Dans un cellier j’ai appris l’histoire. A quelque fête de nuit, dans une cité du Nord, j’ai rencontré toutes les femmes des anciens peintres. Dans un vieux passage à Paris on m’a enseigné les sciences classiques. Dans une magnifique demeure cernée par l’Orient entier, j’ai accompli mon immense œuvre et passé mon illustre retraite. J’ai brassé mon sang. Mon devoir m’est remis. Il ne faut même plus songer à cela. Je suis réellement d’outre-tombe, et pas de commissions. A. Rimbaud

parte prima: LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ NELLO SPAZIO ARCHITETTONICO E FIGURATIVO ANTICO EGIZIO

1) Prima di entrare del vivo delle nostre argomentazioni, è utile e forse anche doveroso premettere una breve sintesi del risultati che abbiamo raggiunto nel corso di questa ricerca intorno al significato profondo dell’arte e dell’architettura sacra Antico Egizia, ricerca che abbiamo battezzato “The Snefru Code” non perché il codice oggetto della nostra indagine riguardasse esclusivamente il pur celebre Faraone Snefru, ma perché, del tutto incidentalmente, la prima stele oggetto dell’analisi è stata quella a lui attribuita, rinvenuta in una cava di pietra del Sinai, che adesso si trova al Museo Egizio del Cairo. Facendo ricerche sulla geometria delle Piramidi in connessione con quella dei geroglifici e delle steli, ci siamo trovati di fronte a quel che possiamo definire uno stranissimo genere di scoperta archeologica, i cui contenuti sono apparsi fin da principio veramente straordinari. Nelle prime tre parti di questo lavoro (corrispondenti nel sito a The Snefru Code part. 1, 2, 3) in base a prove geometrico-visive che nel loro insieme paiono davvero difficilmente questionabili, avevamo dapprima posto il problema e poi scoperto l’effettiva esistenza di un codice geometrico – derivato da una versione “aurea” dello spazio tempo – che sembra stare a fondamento delle proporzioni e del disegno di tutta l’arte e l’architettura sacra Antico Egizie. Per dimostrare questa tesi abbiamo presentato molte immagini di diverso tipo, che il lettore potrà trovare facilmente scorrendo gli articoli precedenti oppure, diciamo così, scartabellando un po’ fra le due gallery. In tali immagini si mostravano un gran numero di fenomeni geometrici, straordinariamente complessi e a volte anche esteticamente molto pregevoli, che si possono ricavare dal disegno figurativo e architettonico Antico Egizio. Tutto quel che si è dovuto fare è stato sovrapporre le diverse forme appoggiandosi a dei punti di riferimento che per diverse ragioni si potevano immaginare come geometricamente e/o simbolicamente significativi. Uno di questi punti, per esempio, è stato l’occhio del Faraone, perché tutti sappiamo che il Faraone era creduto l’avatar umano di Horus, e uno dei simboli più importanti di questa divinità era proprio l’occhio, inteso a quanto sembra come una trasfigurazione del disco solare. Nella prima delle immagini sottostanti, seguita da altre che il lettore potrà analizzare senza bisogno di ulteriore commento, possiamo vedere uno dei giochi geometrici più complessi che abbiamo ricavato dall’arte sacra Antico Egizia: la Grande Piramide con la cuspide poggiata sull’occhio di Snefru, a sua volta appoggiato sul punto di intersezione fra l’ala e il dorso del Falco della stele nota con il nome di Djoser Running. Facendo in questo modo il profilo della Piramide traversa anche l’occhio del personaggio che Snefru si appresta a colpire mentre la proiezione del pozzo Sud della Camera del Re va a traversare proprio l’occhio di Djoser. Invece, la proiezione del lato Nord del profilo della Piramide va a toccare il centro di quello che sembra una sorta di mirino, di quelli che al tempo si usavano per osservare le stelle, e che più di una volta sono stati rappresentati nell’ambito dell’arte sacra Antico Egizia. Ciò sembra indicare in modo inequivocabile che le parti di queste steli che hanno a che fare con l’occhio umano intrattengano fra di loro un rapporto geometrico particolare, generato attraverso un codice che rende possibile tutto questo straordinario sistema di sovrapposizioni. Per quanto poco consona in relazione a quel che di solito si pensa della cultura matematica Antico Egizia, questa è un’ipotesi che viene spontanea guardando l’immagine sottostante, assieme a un’altra, di tipo astronomico: cioè, che il punto d’intersezione fra l’ala e il dorso del Falco nella stele di Djoser sia la stella di una costellazione (probabilmente Orione) cui si deve guardare con il mirino su cui si trovano appoggiati, come su una specie di barca, un cane e un cobra, che potrebbero essere interpretati a loro volta come entità celesti. Sirio, uno degli avatar astronomici di Iside, è stata spesso definita nell’antichità come la “Stella Cane”: e questo potrebbe significare per esempio che il cane che vediamo sopra il mirino è proprio questa divinità. Un altro avatar astronomico di Iside era la Luna e in The Snefru Code part. 4 abbiamo condotto un’analisi che ci ha portato a considerare proprio il cobra come un simbolo lunare. Dunque questo complesso simbolico potrebbe alludere a certe osservazioni astronomiche che si possono fare tenendo Sirio (e forse anche la Luna) come punto di riferimento. Osservazioni che forse riguardano i mutamenti del cielo durante il ciclo precessionale, dato che i tre uccelli sulla sinistra del rilievo paiono senz’altro un’allusione alle tre stelle polari. Thuban, la stella polare al tempo in cui si pensa che venne scolpito questo rilievo, è la stella che si trova fra Vega e Polaris: e osservando il rilievo si nota che l’uccello che tocca con il becco l’asta su cui è fissato il mirino (asta che potrebbe essere interpretata come l’asse polare) è proprio l’uccello che sta in mezzo agli altri due.

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2) Ma, a parte questo e altri casi particolari, che sembrano anche presi per sé soli molto significativi, tutto l’insieme del lavoro ha dato dei risultati e portato a delle ipotesi che, alla luce della visione per così dire “ufficiale” che abbiamo del mondo Antico Egizio, appaiono senz’altro disorientanti. Solo un codice geometrico comune molto complesso può essere all’origine di fenomeni geometrici come questo, ma quale? Dopo qualche tentativo andato a vuoto, è parso che questo codice coincidesse con quello del diagramma dello spazio-tempo, elaborato da Vincenzo Fappalà e pubblicato su ASTRONOMIA.com, fondato sulla serie di Fibonacci. Appoggiato al centro del rilievo di Ramses e sull’asse centrale della Grande Piramide – all’altezza del punto di uscita dei pozzi di aereazione della Camera del Re – quello che possiamo chiamare il suo “ritmo geometrico” è parso coincidere perfettamente con quello dei manufatti Antico Egizi. È forse bene rinfrescarci un po’ la memoria e osservare di nuovo queste immagini, assieme ad altre che fino ad ora non avevamo mostrato; il tutto costituisce anche una buona sintesi del lavoro finora svolto.
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Se il lettore vuole vedere in dettaglio la nostra ipotesi di spiegazione del funzionamento di questo strano genere di spazio spiraliforme può andare a leggere la parte terza di questo lavoro ( The Snefru Code part. 3: “Lo Spazio Aureo nell’Arte Figurativa e nell’Architettura Antico Egizie: un’Ipotesi di Soluzione a partire dalla Struttura dell’Inflorescenza del Girasole”). Qui, per motivi di spazio ci limitiamo a riassumere la proposta di interpretazione che abbiamo dato in quella sede in 6 punti fondamentali:
1- ogni singola parte di ogni forma e figura – iconografica o architettonica che sia – si trova in un rapporto aureo con la totalità di cui è parte e con tutte le altre parti
2- questo accade perché i punti non vengono generati da coordinate ricavate da un sistema di assi cartesiani, ma da un sistema di cerchi e spirali logaritmiche come quello che abbiamo visto nelle immagini sopra
3- per ottenere uno spazio in cui i punti siano fra di loro ravvicinati in modo sufficiente per ottenere immagini complesse, occorre ipotizzare che i punti vengano generati a partire da una molteplicità di poli
4- dunque i poli di espansione di questi vortici di cerchi e spirali logaritmiche devono essere distribuiti in modo tale che in tutto lo spazio si trovi un’equa distribuzione di punti equamente ravvicinati – punti le cui coordinate risultano sempre e comunque dall’incrociarsi di almeno due spirali o da un cerchio e da una spirale
5- dobbiamo però immaginare che nel procedere della suddivisione e dunque del moltiplicarsi dei poli il numero di cerchi e spirali che per ciascun punto si sovrappongono possa crescere in modo anche vertiginoso: la cosa più probabile è che ogni punto di questo strano genere di spazio – che viene spontaneo definire come un vortice di vortici – sia da pensarsi infine come un polo di espansione di cerchi e spirali logaritmiche, e che le linee che vengono tracciate siano a loro volta dei segmenti di cerchi e di logaritmi
6- ciò fa sì che spostando il diagramma in punti diversi della figura generata si ritrovano comunque altri sistemi di rapporti aurei; in particolare, appoggiando un segmento di diagramma a un segmento di linea del disegno ove questi coincidano, si dovrebbe ritrovare il centro da cui il segmento è stato tracciato: dunque anche tutti i punti individuati dalle linee del disegno si trovano in rapporto aureo con gli altri punti, anche se in modo molto complicato
Occorre riconoscere che quest’ultima affermazione non risulta provata dalle immagini che abbiamo visto fino ad adesso, ma altre ne vedremo ben presto in cui si potrà riconoscere in modo (speriamo) abbastanza chiaro il fenomeno in questione.

3)Prima di continuare oltre nella nostra argomentazione è però giusto avvertire il lettore che da più di un secolo è in corso una polemica fra chi attribuisce agli Antichi Egizi una civiltà scientificamente e tecnologicamente molto evoluta (si tratta di egittologi che di solito vengono definiti e si autodefiniscono “indipendenti”) e chi invece pensa si trattasse di un popolo arretrato, magari artisticamente dotato, ma con una matematica di poco superiore a quella che si insegna nelle nostre scuole elementari: si tratta di professionisti che appartengono alla cultura ufficiale, docenti di università pubbliche, esperti di musei o di istituti comunque sia molto importanti. Questi ultimi, di fronte ai fenomeni geometrici che abbiamo visto e alle ipotesi che ne sono scaturite, obbietterebbero che tutto quel che si vede nelle immagini non è altro che frutto di un caso. Si prendano per esempio gli oltre trenta punti di intersezione significativi che si possono facilmente individuare nell’immagine in cui il diagramma dello spazio tempo è stato sovrapposto alla sezione della Grande Piramide: non c’è esperto ortodosso che non dirà che tutto questo non sia l’esito per quanto stupefacente di un bel po’ di accidenti fortuiti, di inesattezze di misurazione o di rappresentazione, e cose del genere. Eppure, se osserviamo attentamente l’immagine vediamo che il codice geometrico sulla base del quale la Grande Piramide fu progettata pare svelarsi, dato che a partire dal diagramma di Fappalà possiamo ricostruire il suo angolo di base, la posizione della Camera del Re e della Regina, l’inizio e la fine della Grande Galleria e la sua inclinazione, il punto di intersezione fra il Corridoio Ascendente e quello Discendente, l’altezza della collinetta di pietra inglobata nella struttura, la posizione e l’inclinazione dei due pozzi della Camera del Re e ancora altri dettagli architettonici della struttura. Tutto questo dovrebbe bastare a escludere che il sistema di “sovrapposizioni significanti” che possiamo individuare fra la Grande Piramide e il diagramma di Fappalà sia il frutto di qualcosa di diverso da ciò che potremmo definire “un progetto intelligente”. Per dare al lettore un’idea chiara e distinta di ciò che significa spiegare con il caso gli effetti geometrici del codice con cui abbiamo a che fare, nelle immagini sottostanti cambiamo la scala della sovrapposizione e spostiamo il diagramma dello spazio-tempo in altri punti più o meno caratteristici della Grande Piramide. Così facendo ci renderemo immediatamente conto che – come abbiamo affermato sopra al punto 6 – il sistema delle sovrapposizioni, lungi dall’aver a che fare con un avvenimento fortuito di qualsiasi genere, si ricrea invece inesorabilmente, proprio come avevano visto accadere nel caso del rilievo di Ramses (il lettore può trovare le immagini in questione nell’appendice fotografica a The Snefru Code part. 4), testimoniando in un modo che pare inequivocabile la presenza di una matrice geometrica da cui il disegno della Piramide è stato derivato.

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4) Queste immagini sono di per sé abbastanza impressionanti. Ma ancor più impressionante risulta quello che scopriamo approfondendo la nostra indagine e avvicinandoci ai dettagli più minuti dell’edificio. Se sovrapponiamo il diagramma dello spazio-tempo alla Camera del Re ci rendiamo conto che anche questa struttura interna importantissima è stata disegnata a partire dalla stessa matrice geometrica con cui sembra esser stato progettato il complesso della Piramide, fino al punto che anche le dimensioni di ogni singola pietra paiono rispondere a un disegno tracciato a partire dal medesimo genere di spazio. E questo non è ancora tutto. Per quanto possa sembrare incredibile, osservando attentamente le immagini sembra di poter dire che perfino quelli che sempre si erano creduti come dei sorprendenti difetti di finitura in un edificio tanto perfetto (il pavimento di tutte le Camere Superiori che risulta a prima vista totalmente grezzo e sconnesso, l’angolo del sarcofago che sembra danneggiato, il contorno del complesso della struttura della Camera del Re che sembra lasciato appunto al caso e i cinque centimetri di dislivello del pavimento che sempre hanno riempito di meraviglia archeologi e architetti, considerando che si tratta di un dettaglio che per altri versi mostra una precisione quasi inumana etc.), risultano anche quelli, diciamo così, deducibili a partire dal sistema di cerchi e spirali logaritmiche elaborato da Vincenzo Fappalà. Tutte le immagini che seguono, ma in particolare le prime due, paiono testimoniarcelo inequivocabilmente.

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Davvero si rimane turbati di fronte ai fenomeni a cui ci si trova di fronte, perché sembra del tutto chiaro che uno spazio del genere non possa essere stato progettato, diciamo così, facendo i conti a carta e penna. Già inglobare in un singolo edificio un sistema di allineamenti astronomici come quello che di fatto si riscontra nella Grande Piramide pare di per sé un’impresa straordinaria. Ma a ciò si deve aggiungere il fatto che tali allineamenti sono connessi con la sezione aurea del ciclo precessionale e che vi si arriva utilizzando sempre e comunque gli angoli di Orione. Un insieme di difficoltà che trasforma il progetto in qualcosa che pare quasi inumano (per vedere questi problemi nei dettagli rimandiamo il lettore a The Snefru Code part. 5: “Gli Angoli Sacri di Orione e il Numero d’Oro nell’Architettura della IV Dinastia: alcuni Possibili Sviluppi della Ricostruzione Archeoastronomica di Robert Bauval”). Adesso, dopo aver visto queste immagini, siamo quasi a costretti a concludere che, oltre a tutto questo, un codice tanto complicato come quello dello spazio-tempo venne utilizzato in modo estensivo, fino ai minimi dettagli della struttura. E a questo punto siamo costretti ad aggiungere anche l’ipotesi che il progetto debba aver richiesto qualcosa come un computer, magari di concezione totalmente diversa dai nostri, dato che un compito di questo genere sembra travalicare senz’altro le possibilità di calcolo degli esseri umani, almeno così come li conosciamo oggi, in specie se consideriamo che il sistema delle sovrapposizioni continua a ripetersi anche a livello della Camera della Regina.

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Dopo aver analizzato con attenzione queste immagini difficilmente si possono ancora conservare dei dubbi quanto a uno degli scopi fondamentali per cui fu costruita la Grande Piramide. Come ci racconta la tradizione coopta, essa rappresentò per i suoi costruttori una sorta di gigantesco libro di pietra, in cui attraverso le misure complessive (ma quasi certamente anche attraverso quelle delle pietre che formano il rivestimento delle strutture interne e di quelle che un tempo formavano il rivestimento esterno del complesso della struttura, distrutto da un terremoto e riutilizzato per costruire Il Cairo), si sono codificati una gran massa di dati scientifici e matematici. Purtroppo però l’indagine è ancora all’inizio e verosimilmente occorreranno decenni per decriptare fino in fondo questo strano manuale che, a tutta prima, sembra trattare di fisica e di astronomia usando il linguaggio dell’alta geometria. Né è detto che anche lunghi o lunghissimi sforzi – fosse pure di tutta la comunità scientifica – potranno mai arrivare a comprendere fino in fondo tutto quello che vi è stato scritto.

5) Ma, dopo tutta questa profusione di matematica e geometria, scienze che nel nostro mondo vengono considerate laiche quasi per definizione, conviene senz’altro sottolineare ancora una volta come tutta questa smisurata impresa intellettuale, artistica e architettonica ebbe un significato sacro profondissimo. Lo testimoniano gli allineamenti astronomici con entità celesti considerate quali dèi e l’inglobamento sistematico nella struttura degli angoli caratteristici di Orione, la costellazione che rappresentava Osiride, la divinità Antico Egizia della morte e della resurrezione che era anche considerata il padre divino del Faraone-Horus. Oltre a questi riferimenti a immagini mitico-astronomiche, nel corso del nostro lavoro abbiamo visto che tanto a Giza come a Nabta Playa compaiono orientamenti caratteristici che, oltre che con le entità celesti in sé e per sé, appaiono evidentemente connessi con il numero d’oro: da ciò abbiamo dedotto che anch’essi debbono avere un profondo significato religioso e proprio come entità matematiche. Diciamo questo perché in The Snefru Code part. 4 abbiamo scoperto che il numero d’oro caratterizza in un modo che pare indubitabile tanto il ciclo annuale che quello precessionale del Sole, non meno che il ciclo di retrogradazione dei nodi della Luna. In quello stesso lavoro abbiamo portato anche indizi molto importanti di come questo ciclo lunare fosse stato rappresentato in un diagramma di orizzonte del tutto simile al nostro, che però nell’ambito di quella cultura serviva a dare forma a uno dei copricapo faraonici più comuni e tipici. Questo ci ha fatto pensare che il numero d’oro (e proprio in quanto entità matematica) fosse visto dagli Antichi Egizi come una parte della mente di Dio, in quanto proporzione nascosta di tutti i cicli fondamentali attraverso i quali la vita viene continuamente generata e rigenerata attraverso un percorso di nascita, morte e resurrezione. A partire da ciò, avevamo notato che la proporzione aurea si può di fatto ritrovare in molti allineamenti caratteristici di circoli megalitici o altri tipi di strutture sacre presenti in tutto il mondo, oltre che in quello che abbiamo analizzato più accuratamente e che è stato alla base di tutta la ricerca, vale a dire il Circolo di Nabta Playa: fra le strutture megalitiche più famose abbiamo indicato quelle del Sud della Gran Bretagna, in particolare Stonehenge e Castlerigg. Successivamente, andando avanti nell’analisi delle strutture della Grande Piramide, ci siamo resi conto di un fatto che pare anch’esso piuttosto notevole, ovvero che il tetto della Camera della Regina ha un’inclinazione che pare coincidere esattamente con il sistema di allineamenti che si diparte dall’Irlanda meridionale in direzione Sud-Est, seguendo un asse che passa attraverso due cattedrali famosissime, Mont Saint Michel e San Michele Arcangelo, spingendosi fino in Palestina: questo allineamento è costituito da strutture relativamente moderne, chiese e cattedrali, connesse appunto con l’Arcangelo San Michele, che avrebbe richiesto la costruzione di tali edifici con apparizioni ed eventi miracolosi. L’inclinazione è pari a circa 29°, un’inclinazione praticamente identica a quella della sezione aurea dell’angolo percorso dalla Terra durante la metà di un ciclo precessionale, che equivale a circa 47°. Si noti anche che la distanza fra il punto di inizio di quest’allineamento e San Michele Arcangelo corrisponde a una buona approssimazione della sezione aurea della sua lunghezza complessiva (circa 1,7 contro 1,618033).

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6) Dunque, pare che per comprendere il significato astronomico e probabilmente anche scientifico degli orientamenti di alcune strutture costruite in Occidente in epoca cristiana dobbiamo volgerci alle rive del Nilo, verso epoche che sprofondano nell’oscurità impenetrabile dei millenni. Attribuire una cosa del genere a una banale coincidenza sembra piuttosto difficile, in specie se consideriamo che da più fonti siamo a conoscenza di contatti avvenuti in epoche diverse fra la cultura Ebraico-Veterotestamentaria, da cui poi sono sorti il Cristianesimo e i costruttori delle cattedrali, e quella Antico Egizia. Avevamo già visto in The Snefru Code part. 6 come tanto il Circolo di Nabta Playa che la Camera della Regina condividessero una struttura archeoastronomica che pare alludere a un ciclo di morte e resurrezione di Osiride, ciclo che presenta alcune caratteristiche somiglianze con quello che alla Pasqua cristiana si celebra in riferimento alla morte e alla resurrezione di Gesù. Pur fra le enormi differenze teologiche che si possono in vario modo riscontrare, in entrambi i casi abbiamo che la resurrezione della divinità è connessa con quella del Sole e dunque anche con quella della vita naturale. A questo possiamo aggiungere adesso che anche la Camera del Re sembra presentare delle indubitabili allusioni a un episodio raccontato dai Vangeli. Quando le pie donne si recano al sepolcro per ungere il corpo del Maestro, nella versione di Matteo si racconta di come al momento del loro arrivo vi fu un gran terremoto, quindi un angelo sopraggiunse e dopo aver scoperchiato il sepolcro annunciò alle donne che Gesù era risorto: esse infatti guardano e vedono che il sepolcro è vuoto. Il modo in cui l’apparizione dell’angelo si verifica ci suggerisce che il sepolcro possa essere rimasto danneggiato, dato che un terremoto è senz’altro in grado di spaccare e di staccare parti di un edificio di pietra: il testo di Matteo lascia anche un po’ di spazio ermeneutico per supporre che il terremoto possa essere stato il modo con cui l’angelo ha rotolato via la pietra che copriva il sepolcro. Ma se ora immaginiamo di entrare nella Camera del Re, ecco che ci troviamo di fronte a un sarcofago che, proprio come nel caso di quello di Gesù, appare scoperchiato, vuoto e danneggiato (pare che fino al secolo diciannovesimo il suo coperchio rotto vi fosse stato lasciato accanto, poi è stato trafugato in circostanze non chiare). La somiglianza di questa “scena sacro-architettonica” con quella Evangelica è tale che spinge a supporre che il suo significato possa essere proprio quello dell’avvenuta resurrezione di Osiride, che vi era stato rinchiuso da Seth (ricordiamo che nel mito Antico Egizio a resuscitare Osiride è la sorella e moglie Iside, che lo resuscita battendo le ali: di fatto in molte rappresentazioni Iside ricorda da vicino la figura di un angelo così come molto spesso rappresentato nella tradizione iconografica cristiana). Si svelerebbe così l’enigma delle cosiddette camere funerarie e dei sarcofaghi che sono stati regolarmente trovati vuoti: seguendo questa linea interpretativa le camere funerarie sarebbero in realtà simboli di resurrezione, e i sarcofaghi vuoti che sono stati ritrovati a più riprese nell’Antico Egitto possono essere senz’altro considerati anche quelli come allegorie della vita eterna cui è destinato Osiride, dato che un sepolcro vuoto può ben rappresentare la vittoria del divino sulla morte. È un’ipotesi questa che si rafforza ulteriormente se teniamo conto di tutto quel che abbiamo scoperto quanto al ciclo annuale di morte e resurrezione di questo dio (in specie per quanto riguarda gli eventi astronomici connessi con l’equinozio e il solstizio a Nabta Playa).

7) Dunque sembra che possiamo individuare nelle Piramidi un archetipo architettonico-astronomico della scena della resurrezione del Cristo, le cui prime origini risalgono probabilmente a decine di migliaia di anni fa, se teniamo conto delle connessioni che in The Snefru Code part. 6 abbiano individuato fra il mito di Osiride e il significato teologico-astronomico della Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti di Chauvet. Alla luce di queste considerazioni, il viaggio compiuto dalla Sacra Famiglia verso l’Egitto per proteggere Gesù dalla furia di Erode può acquistare un significato ulteriore rispetto a quello usuale. Questo episodio evangelico potrebbe alludere all’Egitto in quanto terra dove la nascita, la morte e la resurrezione di Gesù sono stati prefigurati in una fede certamente diversa, ma con dei tratti che paiono però sostanzialmente simili a quella che doveva venire (teniamo anche presente che l’idea di Maat ha senz’altro qualcosa a che vedere con quella di Carità).

Parte seconda: REPERTI ARCHEOLOGICI E PREGIUDIZIO STORIOGRAFICO

1) Non c’è persona minimamente appassionata di cultura che non sappia con quanto rispetto da ogni parte dello scibile umano si guarda oggi alle scienze esatte. Questo rispetto giunge al punto che non c’è ambito del sapere in cui non si tenti di imitare o di utilizzare in qualche modo i metodi quantitativo-matematici, magari anche del tutto a sproposito, pur di acquistare credibilità e prestigio agli occhi di intellettuali di altri rami, o anche solo del pubblico di media cultura che mostra un qualche interesse per la propria materia. Ma, a dispetto di ciò, l’impostazione che è stata data nelle università di tutto il mondo allo studio di culture come quella Antico Egizia è proprio quella cui abbiamo già accennato sopra, ovvero un rifiuto programmatico di testare in modo scientificamente accurato i resti archeologici, ove si eccettuino le datazioni fatte col radiocarbonio. Questo perché si da per inamovibile presupposto di qualsiasi indagine storica che queste civiltà non abbiano nulla a che vedere con matematica e scienze matematizzate, e chi pensi il contrario viene quasi a priori considerato un individuo afflitto da un qualche genere di devianza mentale, magari di quelle lievi, che non impediscono a nessuno di svolgere in campi diversi dall’archeologia una vita del tutto normale. Quindi, forse per non cadere vittime essi stessi di quel placido sarcasmo con cui si è stigmatizzato chiunque si allontanasse dalle ricostruzioni ufficiali, gli archeologi accademici si sono attestati in un modo che pare quasi religioso nella difesa del dogma dell’arretratezza scientifica e tecnologica dell’uomo del Neolitico, considerandolo una sorta di linea del Piave della ragione e del buonsenso. Ove qualcuno utilizzi indagini quantitative per cercare di dimostrare il contrario, magari riuscendoci brillantemente, (l’opera di Christopher Dunn, tanto per fare un esempio, porta prove scientifiche inoppugnabili dell’esistenza di una tecnica e di una matematica di altissimo livello nell’Antico Egitto: e Christopher Dunn è un ricco e affermato ingegnere aerospaziale che nelle sue indagini ha utilizzato il massimo della tecnologia che gli è stato consentito dai responsabili dei siti archeologici e dei musei egiziani, non un maniaco di fine millennio, come si è avuto il coraggio di scrivere), il compito che gli archeologi e dunque anche gli egittologi accademici si sono senz’altro attribuiti è quello di evitare accuratamente di prenderne in considerazione i risultati, oppure di considerarli con noncurante e aprioristica ironia. Ma a questo atteggiamento vi sono a volte delle eccezioni e si trovano persone che invece di limitarsi a stendere quel che dal loro punto di vista non è altro che un velo di pietoso silenzio sulle ricerche altrui (che altri invece definiscono “censura”), si danno invece la pena di organizzare dei contro-esperimenti, destinati a smentire in modo fattivo i risultati raggiunti dagli egittologi indipendenti, considerati senza eccezione come il frutto di un combinato disposto di ingenuità, superficialità, incultura, oltre che, come si è già detto, di disturbi mentali di vario genere pur se lievi. Quello che ci apprestiamo qui ad analizzare è l’esperimento con cui Lehner – uno dei massimi responsabili archeologici del Plateau di Giza – ha tentato di dimostrare che la Sfinge si poteva effettivamente scolpire con i mezzi che l’archeologia ufficiale attribuisce agli Antichi Egizi: il martello di pietra e lo scalpello di rame. Cercheremo di dare al lettore un resoconto breve e distinto di questo esperimento, in primo luogo perché riteniamo importante che chi legge queste pagine abbia un’idea del modo di procedere dell’archeologia ufficiale quando tenta di dimostrare quale fondamento induttivo e pratico-quantitativo abbiano le sue affermazioni teoriche. In secondo luogo, perché ci immaginiamo che di fronte a un’affermazione che suoni “nell’Antico Egitto si lavorava la pietra con martelli di pietra e scalpelli di rame” il lettore anche solo minimamente edotto quanto ai problemi tecnico-scientifici connessi con la lavorazione di materiali duri o durissimi quali il granito rosa, il porfido, la diorite etc. si starà senz’altro domandando: come è che prestazioni tecniche di livello tanto inconcepibilmente elevato si possono attribuire a mezzi così poco efficaci, con cui non sarebbe facile lavorare nemmeno materiali molto più teneri? Per quanto possa sembrare strano, la risposta che danno sistematicamente Lehner e tutti coloro che la pensano più o meno come lui è che questi mezzi sono gli unici che si sono ritrovati, e – soprattutto – gli unici che sono rappresentati nelle immagini sacre Antico Egizie. Un’argomentazione quest’ultima che appare non particolarmente logica: se fra cinquemila anni degli archeologi entrassero in una chiesa del ventesimo secolo e trovassero dei quadri in cui vi sono personaggi vestiti come al tempo in cui visse Gesù, commetterebbero un grave errore nel credere che quello era il modo in cui ci si vestiva al tempo in cui la chiesa fu costruita. In particolare, se vi fosse un quadro in cui si rappresenta la bottega di San Giuseppe, si farebbero un’idea particolarmente sbagliata degli strumenti comunemente utilizzati dai falegnami del ventesimo secolo, perché sarebbero portati a pensare che non avessero a disposizione, per esempio, utensili di acciaio, viti, energia elettrica, illuminazione artificiale, seghe e trapani a motore, colle e vernici ottenute da composti chimici artificiali, rivestimenti in plastica, etc. Fraintendimenti ancora maggiori vi sarebbero ove si intendessero le icone tipiche delle chiese ortodosse come rappresentazioni realistiche, a partire dalle quali si possano fare ipotesi sulla vita quotidiana di chi magari nel trentesimo secolo dopo Cristo le avrà dipinte (ricordiamo che le icone ortodosse si dipingono a tutt’oggi cercando di imitare nel modo più perfetto possibile tanto nei mezzi che nello stile quelle realizzate molti secoli fa: e, per quel che si può capire, la religione Antico Egizia fu ancora più conservatrice di quella ortodossa).

2) Ma, tornando all’esperimento empirico organizzato da Lehner, e dunque alla prova che dovrebbe risultare ultimativa della corrispondenza con i fatti della teoria egittologica ufficiale, come si è già detto, il martello di pietra e lo scalpello di rame si sono testati tentando una replica del famoso “naso mancante” della Sfinge, eseguita però in scala 1/3. Si è iniziato ovviamente dal lavoro di sgrossatura, utilizzando a tal fine i martelli in pietra, come da immagini geroglifiche. La prima difficoltà che si è dovuta affrontare, come del resto era prevedibile, è che con questi strumenti i lavori andavano avanti molto a rilento, tanto che dopo alcuni giorni non si era fatto alcun significativo progresso, e il futuro naso ancora non si distingueva da una pietra scheggiata qualsiasi. Questo allungarsi dei tempi di realizzazione costituiva fra l’altro anche un grave problema per la salute degli operatori perché questo genere di attrezzi vibra in modo molto intenso, così che se usati a lungo possono causare infortuni di vario genere, in particolare gravi infiammazioni articolari. Questo accade perché l’energia cinetica accumulata dalla testa del martello, a causa della sua conformazione e del materiale con cui è costruito, non si scarica se non parzialmente in una frantumazione della pietra, ma si riflette in buona parte in un rimbalzo che il manico troppo sottile non è in grado di ridurre in modo soddisfacente, e che dunque deve essere assorbito nella sua quasi totalità dagli arti dell’operatore (ma questo particolare durante il documentario non è stato fatto notare). Così, dopo aver faticosamente accumulato quelli che parevano non più che poche decine di grammi di polvere e frammenti di calcare si è pensato bene di non proseguire oltre, e che quel che si era fatto bastava e avanzava a dimostrare in modo inoppugnabile che i martelli di pietra dovettero essere stati senz’altro gli strumenti con cui venne realizzato il lavoro di sgrossatura di tutto il gigantesco monumento (ricordiamo al lettore che la Sfinge è lunga circa 50 metri e che il suo corpo è immerso in una specie di piscina lunga circa 70, che prende il nome di Recinto della Sfinge: per ottenerlo si sono dovuti estrarre diverse migliaia di metri cubi di calcare, anche se, a quanto pare, di qualità scarsa e dunque piuttosto tenero). Credendo di aver raggiunto in questo modo la dimostrazione desiderata, per finire l’operazione di sgrossatura si è dunque passati alle più comode e moderne mole diamantate. Lehner non ha spiegato nei dettagli i motivi che lo hanno spinto a questa decisione, anche se dal contesto pare di poter capire che si è dovuto abbandonare il solco del rigore storico non per cattiva volontà o per ingannare sé stessi o il pubblico e cose del genere. Il problema sembrava essere un altro, ovvero che oggi non si hanno a disposizione tempo e manodopera illimitati, come accadeva nell’antichità, e quindi anche un naso in scala 1/3 se realizzato con martelli di pietra verrebbe a costare una cifra che la vendita del documentario e della pubblicità connessa non sarebbero stati in grado di ripagare (un giorno qualcuno ci spiegherà senz’altro da quale testimonianza scritta o di altro genere si possa dedurre che, per esempio, gli autori della Sfinge avessero a disposizione tempo e manodopera illimitati: per ora la catena di eventi che parte dall’ordine di un tiranno onnipotente per arrivare a monumenti di tal genere appare un’ipotesi priva di qualsiasi fondamento storico che però, siccome è in linea con quelle teorie evoluzioniste che vengono tenute per ovvie ancora prima che per vere, viene proiettata sui reperti archeologici senza preoccuparsi troppo se da una tale proiezione il senso di questi reperti venga illuminato oppure invece oscurato).

3) Avendo in questo modo risolto il problema della sgrossatura, si è potuti passare alle operazioni di finitura, cui si è coerentemente provveduto aggiungendo ai martelli di pietra gli scalpelli di rame, anche questi copia fedele di quelli rappresentati nei dipinti e nelle steli. In effetti, il filmato mostrava che il calcare si riusciva a scheggiarlo in qualche modo, ma dopo poco tempo (come c’era da aspettarsi) lo scalpello di rame cominciava a spuntarsi e addirittura a piegarsi, così che molto spesso si doveva mettere in un braciere di carbone (che si pensa che gli Antichi Egizi non avessero) per poterlo forgiare e rimettere a nuovo. Questa operazione è stata condotta con gli antichi martelli di pietra, ma per poter maneggiare gli scalpelli arroventati (porli, rigirarli ed estrarli dal braciere, ruotarli sull’incudine) si è pensato bene di usare delle tenaglie di ferro, anche se l’egittologia ufficiale sostiene che all’epoca delle Piramidi gli Antichi Egizi avessero solo il rame. Lehner non ha spiegato il perché di questa scelta che contraddice in modo molto grave le sue stesse teorie storico-archeologiche, e dunque dobbiamo farlo noi al suo posto. Il fatto è che usando tenaglie di rame l’operazione sarebbe risultata piuttosto difficoltosa, perché il rame trasmette molto facilmente il calore e i manici avrebbero rischiato di arroventarsi in poco tempo, rendendo le tenaglie del tutto inutilizzabili. Inoltre, quando il rame oltrepassa una certa temperatura si deforma con straordinaria facilità: quindi queste eventuali tenaglie di rame, se usate in modo intensivo, avrebbero dovuto essere a loro volta e piuttosto spesso riforgiate, dando luogo a una sorta di regresso ad infinito di tipo pratico, che dal punto di vista energetico è enormemente più dispendioso di quello di tipo teorico. Già prima di iniziare il lavoro il fabbro incaricato di organizzare questo esperimento – un appassionato di antichità anche se non proprio un archeologo “ufficiale” – ha fatto notare a Lehner che procedendo in questo modo per scolpire la Sfinge si sarebbero dovuti consumare una quantità di rame e di legna tali da far impallidire quelle mai consumate in tutto il mondo antico. Inoltre, aggiungiamo noi, si immagini l’ambiente infernale in cui gli scalpellini avrebbero dovuto operare: in Egitto il clima è torrido per la maggior parte dell’anno, e fare un lavoro fisico così impegnativo sotto il sole costituisce già di per sé un compito estenuante anche per uomini forti e assuefatti a condizioni estreme. Ma si immagini di lavorare in un ambiente dove vi sono centinaia di bracieri che ardono tutto il giorno, presumibilmente a non molta distanza da dove ci si doveva dar dentro per ore e ore sotto il sole a quaranta o cinquanta gradi, sommersi dal sudore, dalla polvere e, come si alzasse un po’ di vento, anche dalla sabbia, dalla cenere e dal fumo che esalava tutto intorno. Naturalmente, parliamo di queste centinaia di ipotetici bracieri non perché sia ragionevole credere che siano stati effettivamente usati, ma per avere un’idea di cosa significano sul piano pratico le teorie che con questo esperimento si sono volute mettere alla prova. Infatti alla fine del documentario si è arrivati alla conclusione che a lavorare alla Sfinge vi sarebbero stati 300 operai scalpellini per la durata di 3 anni (numeri che, considerando le dimensioni del monumento, appaiono già ad occhio quasi ridicolmente sottodimensionati: ove corrispondessero a verità non si capisce come è che monumenti del genere non siano stati fatti in tutto il mondo o non si facciano oggi, considerando l’enorme progresso tecnico che si suppone nel frattempo ci sia stato). Ora, questi 300 scalpellini avrebbero dovuto cambiare molto spesso lo scalpello oppure stare fermi: se immaginiamo anche un solo braciere per ogni scalpellino fanno 300 bracieri, con relativi inservienti a darsi da fare a preparare uno scalpello ogni circa cinque-dieci minuti di utilizzo intenso, per fare in modo che il lavoro andasse avanti senza troppe pause.

4) Chiunque abbia assistito a questo esperimento (su cui è stato girato il relativo documentario a cura del National Geographic: “Ancient Secrets: The Sphinx”, che si può facilmente trovare su You Tube) e non fosse del tutto prevenuto si sarebbe reso conto immediatamente che scolpire una statua gigantesca come la Sfinge in quel modo è un’impresa impensabile, non diciamo per 300, ma anche per 300.000 operai quanto si voglia motivati in qualsivoglia periodo di tempo: solo il fuoco dei bracieri per forgiare il rame avrebbe richiesto una quantità di legname tale da ridurre l’Egitto a un deserto nel giro pochi mesi. Si aggiunga che il calcare che circondava il corpo della Sfinge è stato cavato sotto forma di blocchi che arrivano alle 400 tonnellate, che servirono poi per costruire il tempio annesso: ciò non ostante nessuno si è avventurato neppure in un vago accenno di spiegazione quanto al modo con cui dei colossi del genere si siano potuti spostare anche di un solo centimetro (rulli? slitte? leve? queste sono tutte cose che richiedono legno, un materiale che già scarseggiava per i bracieri e dunque anche per le impalcature, per i manici dei martelli, per le barche da trasporto, i remi, i moli, etc.; ma, d’altra parte, si nota che nelle ricostruzioni a tavolino i blocchi si muovono davvero molto facilmente, e addirittura in alcune simulazioni computerizzate sembrano quasi volare da soli al loro posto: su presupposti di questo genere è facile arrivare pensare che gli operai Antico Egizi non dovessero incontrare alcun problema pratico a spostare questi pesi immani, visto che noi nella teoria non ne vediamo o non ne vogliamo vedere nessuno). Si rimane piuttosto sbigottiti e anche un po’ increduli, ma invece è proprio così: è solo ed esclusivamente su esperimenti reali o mentali di questo tipo che di fatto si fonda qualsiasi ricostruzione in stile accademico di civiltà come quella Antico Egizia. Anche da questo solo esempio (ma altri se ne potrebbero fare, a partire dal celebre esperimento NOVA, con cui si tentò di costruire con i supposti mezzi dei costruttori delle Piramidi una mini-piramide alta dieci metri, i cui risultati furono disastrosi e che è valso a Lehner accuse di plagio che paiono fondate) possiamo intendere che quella dell’arretratezza tecnico-scientifica delle culture preistoriche non è affatto una “teoria” (perché le teorie prima o poi si dovrebbero confrontare con la realtà), e nemmeno un’ipotesi di un qualche significato euristico, ma bensì un puro e semplice dogma di fede di tipo storiografico. Nessuno dunque si stupirà se questo dogma viene affermato in modo sempre più rigido e incondizionato via via che ci si allontana dagli inventori della storia, ovvero da quei Greci Classici da cui, per dei motivi non molto chiari, in Occidente si è a tuttora convinti che la nostra civiltà abbia preso le mosse (un giorno qualcuno ci spiegherà senz’altro cosa c’entra, per esempio, l’idea di spazio inteso come tensione verso l’infinito espressa da una cattedrale gotica con quella di equilibrio statico espressa da un tempio greco-classico). E poco importa ai nostri storici che questi stessi Greci Classici, di cui ci si proclama discepoli e discendenti, affermino senza remore che l’Antico Egitto possedeva una cultura enormemente più sviluppata della loro. Se un Platone lo dice sul serio le sue affermazioni ovviamente si prendono per bubbole: i suoi pur celebri dialoghi sono da ogni parte intrisi di miti, favole e metafore, e dunque come si fa a dargli retta su un punto tanto importante delle nostre ricostruzioni storiografiche?

5) Ma, a dispetto della maggior stima che riscuote, fra l’altro anche a causa della sua allergia al mito, anche Aristotele non ottiene dai nostri storici il sia pur minimo ascolto quando con intento che pare sarcastico dice che i sacerdoti egizi usavano la matematica per divertirsi (come è noto nella visione di Aristotele la vera scienza non ha nulla a che fare con la matematica, e del resto di matematica non si trova traccia nemmeno nel lavoro dei cosiddetti “fisici” greci: a ben vedere, il metodo della fisica occidentale, almeno a partire da Galileo, si è sviluppato in diretta contrapposizione alla “τεορία” dei filosofi greci, atomisti compresi; ma questa constatazione ed altre del tutto simili non scoraggiano i sostenitori delle ascendenze greche nella nostra scienza quantitativa e della nostra matematica, luoghi comuni storici non molto più fondati di quello dell’arretratezza tecnologica dell’uomo del Neolitico). Ma, Aristotele e Platone a parte, chiunque sia lo studioso antico che afferma che i Greci Classici hanno importato la loro cultura astronomica e matematica dall’Egitto (o anche dall’oriente tardo Babilonese), nelle nostre università si continua imperterriti a sostenere che la matematica e l’astronomia matematizzata sono una creazione Greco Classica e che nell’Antico Egitto non se ne è saputo quasi nulla fino all’arrivo di Alessandro Magno. Eppure il numero d’oro e il Pi greco vengono fuori dappertutto nelle misure caratteristiche della Grande Piramide, fino al punto che autorevoli professori di matematica e statistica escludono che possa trattarsi di un caso. Addirittura, si è visto che a Nabta Playa vi sono allineamenti megalitici che dimostrano che i costruttori del circolo conoscevano la distanza relativa fra la Terra e alcune stelle di Orione. Questa è a sua volta la prova che nel 7000 a.C. si aveva già un’idea chiara di cosa fosse una stella e della conformazione effettiva del cosmo, dato che la conoscenza di qualcosa come la distanza relativa delle diverse stelle di una singola costellazione esclude di per sé sola che si possa pensare all’universo nei termini di un rigido susseguirsi di sfere. Eppure questi e altri dati oggettivamente riscontrabili non servono a sollevare il minimo dubbio fra gli archeologi accademici: checché ne dica chicchessia, non c’è nemmeno da pensare che nell’Antico Egitto vi fosse qualcosa di anche lontanamente somigliante a una matematica o a un’astronomia matematizzata minimamente evolute, e men che meno a una scienza esatta o a una tecnica che da essa possa esser stata derivata.

Parte terza: TRACCE DI UNA SCIENZA PRIMA DELLA SCIENZA NELLE MISURE DELLA GRANDE PIRAMIDE E DI ALTRI MANUFATTI ANTICO EGIZI

1) Quelli che abbiamo esposto sono dunque i metodi e le concezioni che nell’ambito della nostra storiografia e archeologia ufficiali si adottano quali inquestionabili strumenti di conoscenza di tutto il nostro passato preistorico (e dunque non solo degli Antichi Egizi). Ma, come il lettore avrà già capito, è del tutto ovvio che questi metodi e queste concezioni non sono affatto gli unici possibili e, in particolare, l’impostazione che abbiamo dato a questo lavoro non ha nulla a che vedere con quella con cui professori ed intellettuali appartenenti ai più vari campi dello scibile ricostruiscono per via dogmatica il passato dell’umanità. Quindi fin dall’inizio, oltre a rinunciare ad appoggiarci alle usuali interpretazioni di stile accademico, abbiamo anche rinunciato a spiegare i fenomeni geometrici in cui ci siamo imbattuti ricorrendo per l’ennesima volta al caso, questa strana divinità moderna che a furia di saltar fuori più o meno dappertutto assomiglia sempre di più a un Pulicenella spensierato che offre da bere a tutti spiegando all’oste che paga Pantalone (con questo vogliamo dire che nessuno dei sostenitori di questa strana sorta di fede religiosa al contrario si azzarda a fare un solo passo per definire in che cosa effettivamente consista questo Caso onnipotente, che tutto crea e tutto distrugge, come è che si forma o se si formi un campo di probabilità in cui possa operare, in che modo questo campo di probabilità si possa definire e descrivere, se matematicamente o in altro modo, di quali forze si serva e come, etc.). Dunque, la scelta ermeneutica che ci guiderà lungo tutto il ragionamento che porteremo avanti in questo articolo è quella che ci è apparsa come la più spontanea, la più intuitiva e, soprattutto, come quella matematicamente più sostenibile: e cioè che davvero i costruttori delle Piramidi fossero in possesso dei punti più avanzati attualmente raggiunti dalla scienza empirica occidentale e che un monumento come la Grande Piramide sia stato progettato come proiezione in codice di questo sapere. Certo, ci rendiamo conto che non solo agli storici e agli archeologi accademici, ma anche a molti intellettuali d’altri campi e dunque d’altre accademie l’idea di connettere la più celebre teoria di Einstein all’arte sacra Antico Egizia sembrerà senz’altro un’assurdità, una fantasia più adatta a un film fantascientifico che alla comprensione del significato di monumenti come la Grande Piramide o di rappresentazioni dallo stile “poco realistico” o addirittura “un po’ infantile” come quello che si suppone tipico dell’arte figurativa Antico Egizia. Questo accade perché nell’ambito di tutta la cultura ufficiale dei nostri tempi si crede in modo del tutto acritico e aprioristico che questi capolavori dell’arte e dell’architettura sacra siano stati creati in epoca preistorica o quasi-preistorica da persone che avevano ancora un piede nel Neolitico: cioè, parlando in italiano, da dei quasi-selvaggi. Ma giova ripeterlo: queste idee non sono l’esito di un’approfondita analisi critica e scientifica dei reperti archeologici di cui siamo in possesso. Si tratta invece di un sistema di apriori di stampo ideologico, che nel tempo sono diventati una sorta di idea fissa della cultura accademica occidentale: popoli come gli Antichi Egizi, siccome erano appena usciti dall’Età della Pietra, dovevano essere più vicini allo stato animale e dunque meno intelligenti ed “evoluti” di quanto lo siamo noi. Ne viene di conseguenza che non c’è nessun bisogno di star lì a perder tempo a domandarsi se per caso possano avere un significato scientifico e matematico che finora forse ci è sfuggito.

2) Ma, come abbiamo almeno in parte già visto e dimostrato, questi suggerimenti non ci vengono affatto dalla scienza empirico-matematica, e nemmeno dalla storia e dall’archeologia in senso proprio. Se prescindiamo dai nostri pregiudizi culturali e andiamo a vedere quello che storia, archeologia e, soprattutto, le scienze empirico-matematiche ci dicono riguardo a molte culture dell’Età della Pietra – della cultura Antico Egizia dunque, ma anche dei costruttori di opere come quelle che si possono osservare a Baalbek, Ollantaytambo, Puma Punku, Sacsaywaman, Alatri, Delfi, etc. – è che queste persone avevano a disposizione una tecnica e dunque una scienza da cui derivavano una capacità di lavorazione della pietra che per noi è assolutamente inconcepibile. Costruire centinaia di metri o addirittura chilometri di mura poligonali (ad Alatri i chilometri sono più di quattro) con pietre a dodici, quattordici o più lati, pesanti fino a quattrocento-seicento tonnellate, con incastri che appaiono di tolleranza inferiore al millesimo o addirittura al decimillesimo di millimetro, è un’impresa per noi assolutamente irripetibile: a ben vedere, assistendo a un atterraggio degli alieni dovremmo stupirci molto meno che di fronte ai puzzle di pietra che ci ha lasciato in eredità la preistoria. Diciamo questo perché, date le nostre conoscenze tecniche e scientifiche, viaggi spaziali anche molto impegnativi sono per noi del tutto pensabili e in parte anche realizzabili: se ancora non abbiamo conquistato un pianeta come Marte questo non è accaduto solo a causa delle difficoltà oggettive dell’impresa, ma anche perché buona parte delle motivazioni culturali e ideali che hanno sostenuto lo sforzo immane che ha condotto sulla Luna sono andate perdute. Al contrario, incastri di pietra di un certo tipo sono del tutto al di là – non diciamo delle nostre possibilità pratiche – ma anche solo della nostra capacità di ipotesi tecnico-scientifica. Dunque, a dirci che nell’Età della Pietra l’uomo era ancora vicino allo stadio animale, dotato di un’organizzazione sociale approssimativa, privo di linguaggio scritto, di matematica, di astronomia e financo di strumenti banali come la ruota o la carrucola non ce lo dice l’analisi scientifico-critica dei reperti archeologici, ma una particolare interpretazione della storia che si chiama di solito “evoluzionismo”, che allo stato attuale della conoscenza appare tenersi in piedi su quello stesso genere di fondamenta su cui si regge un castello dipinto. Lungi dall’avere qualcosa a che fare con il metodo scientifico o con un metodo empirico di qualsiasi genere, questa strana sorta di fede al tempo stesso pseudoreligiosa e pseudoscientifica ci spinge a ripetere e a tramandare pedissequamente un sistema di pregiudizi del tutto infondato, e in particolare quello per cui il nostro passato preistorico sarebbe stato un interminabile Evo di animalità e di barbarie: il tutto senza che nessuno o quasi nessuno si preoccupi di controllare se proposizioni di questo genere abbiano effettivamente qualcosa a che vedere – non diciamo con la realtà che in senso ampio possiamo definire percepibile – ma anche solo con quella misurabile e dunque scientificamente controllabile. In effetti, abbiamo visto come certi reperti archeologici, ove vengano presi sul serio, mostrano segni evidenti di una cultura matematica, geometrica e astronomica di livello altissimo (si pensi solo al lavoro di Tom Brophy sul Circolo Megalitico di Nabta Playa), per non parlare poi delle tecniche di lavorazione applicate alla pietra, che, come si è già detto, richiedono degli strumenti che in Occidente dobbiamo ancora reinventare (ammesso che saremo mai capaci di farlo: dai tempi in cui Petrie pronunciò questa frase non è che le cose siano poi molto cambiate). È vero che nella stessa epoca a cui si attribuiscono reperti che testimoniano di culture avanzatissime l’archeologia ne ha scoperti altri che invece ci parlano di culture piuttosto primitive. Ma questo cosa può effettivamente significare quanto allo status di una civiltà come quella di Tihuanaco e Puma Punku, che l’archeoastronomia colloca più o meno nel 15000 a.C.? Lì troviamo dei resti di costruzioni che sembrano davvero opera di divinità invece che di esseri umani: dobbiamo negare quel che vediamo solo perché in quella stessa epoca troviamo un altro genere di resti, che invece siamo inclini ad attribuire a dei popoli tecnologicamente arretrati? Vivendo immersi nelle nostre città, fra automobili e telefonini, è per noi del tutto spontaneo dimenticare che Einstein fu contemporaneo non solo di gente come Bohr, Heisenberg, Wittgenstein, Picasso e simili, ma anche di tutte quelle genti che ancora all’inizio del ‘900 non avevano conosciuto la civiltà. Che diremmo se fra quindici o ventimila anni una civiltà evoluta ma completamente diversa dalla nostra negasse la possibilità che nel 2000 d.C. una civiltà avanzata possa essere esistita perché i suoi resti coesistono con quelli degli aborigeni australiani? È molto facile affermare con tono sprezzante che attribuire una qualsiasi versione della teoria della relatività all’Antico Egitto è una corbelleria degna di un film hollywoodiano: meno facile risulterà spiegare tutte quelle cose che ci apprestiamo a vedere nelle pagine successive, che, per quanto strano possa sembrare, risulteranno ancora più stupefacenti di quelle che abbiamo già visto nelle pagine iniziali.

3) Prima di entrare nei dettagli della nostra indagine, è bene ricordare di nuovo che fino ad oggi la matematica e l’astronomia Antico Egizie erano considerate a livello di bambini delle elementari o poco più. Ciò ha fatto sì che – almeno nell’ambito dell’Egittologia ufficiale – quando si sentiva dire che Newton desiderava conoscere le dimensioni esatte della Grande Piramide per poter calcolare quelle della Terra, la reazione più benevola poteva essere un sorriso di compatimento. La voglia di sorridere tenderà forse a diminuire ove si analizzino con un minimo di serietà immagini come quelle che abbiano mostrato nella prima parte di questo scritto, e magari passerà del tutto quando ci saremo resi conto di come tutte o quasi tutte le costanti delle nostre leggi scientifiche si possano derivare con ottima approssimazione da semplici funzioni π e ɸ, ovvero proprio da quei due numeri che in molti modi caratterizzano i rapporti fra le misure della Grande Piramide. Dunque, la presenza di questi numeri nel monumento può significare qualcosa di enormemente più profondo che la conoscenza di alcune basi della geometria euclidea. È vero che π ha già un ruolo importante nella struttura dei vari tipi di dinamica che sono stati elaborati in Occidente negli ultimi secoli: ma quale potrebbe diventare il suo ruolo teoretico quando si scoprisse che le variabili presenti nelle nostre formule più usate possono essere pensate come funzioni di π e ɸ? Per offrire al lettore un primo e molto breve assaggio di quel che la conoscenza di questi numeri potrebbe significare in relazione alla struttura profonda delle scienze esatte, iniziamo proprio dalla legge di Newton. Se applichiamo la formula (π x ɸ) + π/2 ne risulta un valore di 6,65399, che è molto vicino al valore che attribuiamo alla costante G, che è di 6,67428. Ma – in specie dopo esserci resi conto delle intime connessioni geometriche fra lo spazio sacro Antico Egizio e la teoria gravitazionale einsteiniana – potremmo o forse addirittura dovremmo sostituire in questa formula ai valori di π e ɸ così come risultano dalla dimostrazione geometrica quelli che invece troviamo come valori approssimati nella Grande Piramide (ricordiamo che in questo monumento π risulta dalla metà del perimetro diviso per l’altezza, π/2 dal lato diviso per l’altezza, e ɸ dall’area della base divisa per quella delle quattro facce triangolari). Potremmo dunque sostituire a π e ɸ i rapporti fra i valori delle misure della Grande Piramide, arrivando in questo modo alla formula che servirebbe a calcolare la costante gravitazionale (o magari, in modo più complicato, potremmo partire dalla costante gravitazionale per arrivare alle misure della Grande Piramide). Comunque sia, per amor di brevità e semplicità la scriviamo con i valori a cui si è arrivati per mezzo delle rilevazioni metrologiche. Così facendo arriviamo a un risultato pari a πCheope x ɸCheope + πCheope/2 = (3,142857 x 1,61859) + 1,5714285 = 6,6584. Il valore della costante è G = 6,67428, con una differenza di 6,67428 – 6,6584 = 0,01588. Ricordiamo che il valore della costante oscilla di ± 0,0067. Dunque, la differenza fra il valore minimo che possiamo utilizzare nella formula di Newton e quello che abbiamo ottenuto da πCheope e da ɸCheope è pari a circa 0,00918, cioè a poco più di 9 millesimi. Giova però notare che i circa 15 millesimi di differenza iniziali potrebbero essere praticamente azzerati allungando un po’ la formula e scrivendo πCheope x ɸCheope + πCheope/2 + (1 – 1/ɸCheope)¹⁰ (il cui valore corrisponde in numeri a 0,001326): la differenza si ridurrebbe in questo modo a un paio di decimillesimi.

4) Ma invece di questi valori che derivano dalle misure della Grande Piramide potremmo lasciare ɸ così come risulta dal calcolo geometrico, e, quanto a π, utilizzare un valore di quelli che si possono ricavare da altri manufatti Antico Egizi. Per esempio, potremmo prendere quello che a quanto pare venne usato per costruire il sarcofago di Djedefre, le cui misure, sembrano girare intorno a un numero tanto enigmatico quanto apparentemente del tutto insignificante, il 234. Però se prendiamo in considerazione un ciclo stellare importantissimo per gli Antichi Egizi, quello di Sirio, e andiamo a dividere il suo numero tipico, il 1461 (corrispondente agli anni della sua durata), con questo misterioso 234 e poi dividiamo ancora il prodotto per 2, ci accorgiamo che viene fuori un numero molto vicino a π, vale a dire un 3,1217, che differisce da π di meno di due centesimi. Sembra quindi del tutto evidente che anche in questo caso gli Antichi Egizi abbiano voluto includere nel sarcofago del Faraone un numero che in modo ermetico si connettesse da un lato con Iside – la divinità di cui la stella Sirio era forse il simbolo più importante – dall’altro con la costante geometrica caratteristica del cerchio, e dunque anche dei cicli cosmici, pensati simbolicamente come cerchi. Se per calcolare la costante gravitazionale usiamo questo valore di π, con quest’altra formula (πDjedefre x ɸ) + ɸtroviamo che (3,1217 x ɸ) + ɸ = 6,66905, con una differenza rispetto al nostro valore di G ancora più trascurabile (-0,00523), che per di più rientra anche nel margine di oscillazione della nostra costante. Se poi anche solo per pura e semplice curiosità speculativa andiamo a controllare cosa succede applicando un metodo di questo genere alla costante di Plank, il nostro stupore è destinato a rinnovarsi, dato che in questo caso con formule basate su π e ɸ arriviamo a risultati ancor meglio approssimati. Se prendiamo in considerazione il 6.55 per 10 ⁻²⁷erg al secondo usando la formula (π²/2) + ɸ troviamo un 6,5528, cioè una cifra che risulta vicinissima al valore della costante (+ 0,0028). Un risultato simile, anche se non così ben approssimato, viene fuori in modo ancora più semplice moltiplicando il numero d’oro per quattro, dato che ɸ x 4 = 1,618033 x 4 = 6,472132. Le cose non cambiamo di molto se consideriamo il valore della stessa costante calcolato in joule, che è di 6,62559 x 10⁻³⁴ joule al secondo. Se in questo caso proviamo ad applicare la formula (π x ɸ) + π/2 – [1 – √(√(√(√(√ɸ)] arriviamo a un valore di 6,6234, con una differenza inferiore ai 3 millesimi. La costante di Plank (simbolo “h”) viene però molto spesso sostituita da un’altra costante – messa a punto da Dirac – che si chiama “acca tagliato” (simbolo “ħ”), che ha un valore pari a 1,054571. Possiamo ottenerla con un valore approssimato di circa un millesimo con la formula 1 + (1 – 1/ɸ)³ = 1,055728 o ancor meglio con ⁹√ɸ = 1,054923213178. Oppure, in modo ancor meno usuale, possiamo immaginare di esprimere ħ come tangente dell’angolo di 46°,5214. L’angolo reciproco sul quarto di giro risulta più o meno pari all’inclinazione dell’angolo di base della Piramide Rossa o della parte superiore della Piramide Romboidale, che sono a loro volta reciproci al Circolo di Nabta Playa, il cui angolo potrebbe essere un’espressione ermetica di ħ. A questo punto è forse persino inutile far notare che tutte le costanti scientifiche potrebbero essere viste come tangenti di angoli particolari. Per esempio, la costante di Newton (6,67428) corrisponderebbe alla tangente di un angolo pari a 81°,4788. Quest’angolo ha un coseno pari a 0,14817, un valore molto simile a 1/ɸ⁴ = 0,145898.

5) Ci rendiamo conto che un procedimento di questo genere può parere a prima vista del tutto arbitrario e privo di qualsiasi fondamento empirico. Per altro verso, può anche indicarci che le costanti più importanti della nostra fisica potrebbero avere qualcosa in comune fra di loro o che, comunque sia, a uomini con inclinazione spirituale diversa dalla nostra potrebbero non parere quei numeri casuali e non ulteriormente spiegabili che sembrano invece a noi. Infatti con π e ɸ ci possiamo avvicinare anche alla costante da cui si ricava la velocità della luce che è 2,9979246. Applicando la formula πCheope – (1/ɸ)⁴ arriviamo a un 3,142857 – 0,145898 = 2,996959 che si discosta dal numero corretto di poco meno di un millesimo (per la precisione – 0,000961): aggiungendo a questo numero, per esempio, il valore che viene fuori da (⁵⁰⁰√ɸ – 1 = 0,000962) arriviamo a un 2,997921, che è davvero vicinissimo al valore della nostra costante. Ora, se a tutto questo aggiungiamo che la velocità della luce è stata magistralmente codificata nella base della Grande Piramide domandiamoci: è davvero un azzardo ermeneutico senza fondamento, o addirittura un delirio fantastorico ipotizzare che il diagramma dello spazio tempo fondato su π e ɸ che vi appare parimenti codificato non sia lì per uno scherzo del destino? Pensiamoci bene: dopo aver rilevato nello spazio sacro Antico Egizio in modo non questionabile un insieme di caratteristiche geometriche e metrologiche che, per quel che ne sappiamo noi, possono derivare solo dalla conoscenza della teoria della relatività, non è più razionale e scientifico sostenere che gli Antichi Egizi conoscessero questa teoria (sia pure in una versione diversa dalla nostra) che spiegare tutto con il cosiddetto “caso”, che altro non è che il nome con cui abbiamo battezzato i nostri pregiudizi, la nostra stanchezza, la nostra rinuncia a mettere in dubbio le nostre comode ed aprioristiche certezze in favore di una spiegazione magari intellettualmente molto scomoda ma però credibile ed autentica? In certi momenti la speranza viene meno, ma forse un giorno anche dentro le istituzioni dell’archeologia ufficiale qualcuno si sveglierà e si accorgerà che rendere ragione di qualsiasi tratto di eccezionalità che incontriamo nella tecnica o nel sapere matematico e scientifico dei nostri avi con il caso non è altro che il frutto più velenoso di una pigrizia spirituale che danneggia la nostra intelligenza e il nostro acume, la maschera di una paura travestita da arroganza che costituisce un impoverimento complessivo della nostra identità e del nostro patrimonio tanto storico che scientifico. Shakespeare, forse il più grande poeta dell’Occidente moderno, ha fatto pronunciare al suo eroe più celebre la frase che è diventata il simbolo dell’apertura dello stupore umano all’ignoto che sconvolge il sapere che si credeva assodato e inquestionabile: “Ci sono più cose fra il cielo e la terra Orazio, di quante ne sogni la nostra filosofia”. Questo, come tutti sappiamo, è Amleto che parlando con un ex compagno di università allude al fantasma del padre tornato dal Purgatorio per chiedergli vendetta. Ma potrebbe darsi che questa frase si attagli anche al nostro caso, che quelle immagini che abbiamo visto nella prima parte di questo articolo siano il fantasma di un’epoca dell’umanità che riemerge dal passato per chiedere giustizia alla nostra storiografia evoluzionista, che esclude in modo del tutto infondato che possa essere mai esistita. A ben pensare infatti, che ne sappiamo noi delle forme che può assumere la matematica e la scienza matematizzata in culture diverse dalla nostra per escludere a priori che possa essere stata usata anche come archetipo di figure e monumenti sacri? Noi lo dimentichiamo spesso, ma il più celebre monumento della modernità, la Tour Eiffel, non è altro che l’espressione architettonica di una funzione matematica che tende verso l’infinito, ovvero l’esplicitazione chiara e cosciente di quello che possiamo considerare il senso nascosto delle cattedrali gotiche. E non si è detta la stessa cosa, e con ottime ragioni, anche della musica barocca – una sorta di cattedrale di note che si protende a un infinito simbolizzato dal silenzio – che altro non sarebbe che matematica da ascoltare? Certo, a noi fa specie vedere della gente a cui si attribuisce la teoria della relatività andare in giro con degli strani gonnellini e indossando dei copricapo che oggi come oggi, anche alle sfilate di moda più provocatorie e trasgressive, risulterebbero – come dire – un po’ eccessivi. Un fisico serio, dal nostro punto di vista, deve andare in giro con giacca e cravatta, sennò dimostra in modo inequivocabile di essere un idiota, se non proprio un selvaggio. D’altra parte, Feynman era un noto frequentatore di campi nudisti, e questo non gli ha impedito di raggiungere risultati che la comunità scientifica ha riconosciuto come indubitabilmente interessanti.

6) Ma al di là di qualsiasi apprezzamento di tipo esteriore o estetico, a una mente educata dalla modernità questo modo di calcolare, o, come forse sarebbe meglio dire, di decidere a priori che i valori delle costanti possano o debbano derivare da π e da ɸ (e che dunque le leggi scientifiche stesse risultino in ultima analisi funzioni di questi stessi valori) appare come un sistema di forzature con cui, a prescindere dalla realtà sperimentale, si vogliono a tutti i costi connettere le leggi scientifiche in un sistema unitario, che l’indagine empirica non sembra giustificare. Se un ricercatore moderno volesse derivare i numeri fondamentali delle leggi scientifiche da certi valori tenuti per sacri o addirittura adorati come dèi (perché proprio questo sembra indicare il fatto che π e ɸ fossero codificati sistematicamente nell’arte sacra Antico Egizia: è bene anche ricordare che non si è trovato traccia in quella cultura come del resto in altre culture antiche di un’arte che si possa definire profana) forse la comunità scientifica reagirebbe dicendo che questa persona non ha ancora ben compreso quale sia il modo di procedere di un autentico scienziato, il cui lavoro consiste nel dimenticare apriori ideologici di qualsiasi genere e nel sottomettere il suo lavoro intellettuale e matematico alla realtà empirica operativamente rilevata. Questo modo di pensare è in noi talmente radicato che risulta difficile spiegare a chiunque, a volte persino agli scienziati, che noi possiamo pensare cose di questo genere solo a partire dalla rimozione del processo storico concreto che ha portato alla scoperta delle teorie fisiche attualmente in voga. Solo a partire da questa rimozione possiamo credere tanto fermamente quanto acriticamente che le nostre teorie non siano altro, diciamo così, che una spremuta di fatti, e che dunque siano costantemente in presa diretta con la realtà empirica. Spesso – se non sempre – ci dimentichiamo che all’inizio del secolo la fisica teorica è stata di gran lunga più importante di quella sperimentale e che gli esperimenti reali sono stati quasi sempre progettati e prodotti come proiezione di esperimenti mentali in cui oggetti ideali venivano manipolati per mezzo di segni matematici (questo è accaduto in particolar modo nel caso della meccanica quantistica: si pensi solo agli apparati costruiti appositamente per mettere alla prova la celeberrima “discrepanza di Bell”). Oppure, per fare un esempio ancora più celebre, nel corso degli anni ’20 la meccanica delle matrici messa a punto da Heisenberg venne rapidamente sostituita dalla funzione d’onda di Schrödinger non perché fosse “più esatta”, ma semplicemente perché risultava da un lato enormemente più comoda per il calcolo, e dall’altro perché consentiva di conservare almeno in parte quell’immagine dei fenomeni elettromagnetici che ci si era fatta nella fisica classica a partire dagli esperimenti di Young sull’interferenza delle onde luminose (più tardi Dirac ha scoperto che tanto la meccanica delle matrici che la funzione d’onda si possono derivare da una teoria ancora più astratta). Ma possiamo essere del tutto certi che la meccanica quantistica sarebbe oggi la stessa cosa se la funzione d’onda non fosse mai stata inventata, e i fisici e i matematici avessero lavorato nel secolo successivo a raffinare la fisica delle particelle attraverso l’immagine matematica delle matrici? Con quale espressione, e con quali conseguenze filosofiche, avremmo sostituito la definizione corrente di una particella come “un’onda di probabilità”? Siamo certi che il pensiero umano, ove sia guidato da simboli diversi, non possa arrivare a risultati diversi pur indagando uno stesso campo di fenomeni? In effetti, anche al di fuori del cosiddetto “mondo delle particelle”, ove paiono vigere delle leggi che nulla hanno a che fare con il mondo quotidiano, per comprendere fenomeni percepibili con i sensi, come il moto dei corpi macroscopici, siamo stati abituati a usare immagini matematiche di corpi che si trovano in condizioni ideali: tutti sappiamo che il moto rettilineo uniforme è quello che caratterizza un corpo che si muove senza trovare attrito, cioè un corpo che non esiste. Eppure, è proprio questa immagine di un corpo che non esiste a renderci comprensibili tutte quelle teorie che descrivono quel che accade ai corpi che esistono, quelli che in ogni momento tocchiamo con le mani e vediamo con gli occhi. Che accadrebbe allora se si crescesse un bambino nella convinzione che i corpi hanno la tendenza a stare immobili finché – diciamo così – una divinità non si decida a spostarli? Come reagirebbe all’insegnamento di una fisica che già dal suo nome (“dinamica”) presuppone che la parola “mondo”, la parola “conoscenza” e la parola “movimento” siano in qualche modo dei sinonimi? A ben vedere, comprensioni “neutre” della scienza, indipendenti da immagini che ci diano la possibilità di rappresentarci il significato delle equazioni in modo sintetico, non esistono e forse non sono nemmeno possibili. Chi conosca un po’ più a fondo la scienza moderna e la sua storia è perfettamente cosciente di come per decenni i fisici si siano divisi in modo del tutto simile a come avviene in politica fra “rivoluzionari” e “reazionari”: i primi erano i fautori dell’interpretazione detta “di Copenaghen” della meccanica quantistica, che rinunciava ai principi di identità e di causa in favore di quelli di complementarità e di indeterminazione; i secondi, seguaci di Einstein, erano quelli che pensavano che questa interpretazione delle equazioni fosse da considerarsi incompleta e che sotto il “rivoluzionario” indeterminismo del mondo microscopico si nascondesse il “vecchio” determinismo di quello macroscopico. Ma questo strano tipo di confronto fra conservazione e rivoluzione nell’ambito della fisica matematizzata non ci dimostra in modo indubitabile che si può stare dalla parte di una certa interpretazione dei risultati della scienza seguendo tendenze culturali e psicologiche che hanno ben poco a che vedere con fatti ed esperimenti?

7) In effetti, se noi abbiamo assistito a tutta questa “polemica politica” nell’ambito della fisica microscopica senza perdere fiducia nella sua oggettività e nella sua efficacia, perché non dovrebbe essere esistita una cultura dove – per esempio – le costanti venivano tutte derivate da π e da ɸ, intesi come numeri divini ideali, per poi arrivare a quelli reali per mezzo di procedimenti in qualche modo imparentati con quelli con cui noi arriviamo a calcolare il moto di un corpo reale partendo dall’immagine matematica di un corpo ideale? Nella prima parte di questo articolo abbiamo visto come è che lo spazio-tempo si possa proiettare geometricamente su un diagramma bidimensionale costituito da un sistema di cerchi e di spirali logaritmiche, ovvero, in ultima analisi, di funzioni di π e ɸ. È forse utile rivederlo nell’immagine sottostante così come di fatto appare, senza che le immagini a cui è stato sovrapposto ne disturbino la comprensione.

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Ora, come abbiamo già accennato sopra, se supponiamo che le costanti delle nostre leggi scientifiche si possano (o si debbano: questo non ha molta importanza) tradurre in funzioni di π e ɸ ne viene di conseguenza che anche i valori assunti dalle variabili diventino – sia pure in modo complicato – funzioni di questi due valori fondamentali: quindi non è affatto escluso che dopo aver scoperto che nella Grande Piramide è criptato il diagramma bidimensionale della spazio-tempo, un giorno vi si possa scoprire codificata anche una qualche versione della meccanica quantistica. Anzi, a dire il vero risulterebbe piuttosto strano se le cose non stessero così, perché sembra davvero molto difficile attribuire a una civiltà una versione qualsiasi della meccanica relativistica senza una parallela conoscenza del mondo delle particelle dato che – almeno nell’ambito del nostro mondo storico – questi due campi della fisica sono stati indagati più o meno dalle stesse persone e più o meno nello stesso periodo (anche se le discussioni e le polemiche connesse alla meccanica quantistica sono andate avanti per diversi decenni, mentre la meccanica einsteiniana è stata accettata più rapidamente e con minori conflitti). In effetti, indizi di una presenza di questo genere di teorie li possiamo mostrare già in questo articolo. Se, come nelle immagini sottostanti, proviamo a sovrapporre il profilo della Grande Piramide a quello del modello quantistico dell’atomo di idrogeno elaborato da Bohr sembra che di nuovo si possano ottenere dei sistemi di congruenze che non paiono per niente casuali

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Questi sistemi di congruenze sono già di per sé piuttosto impressionanti: l’inclinazione della Piramide e la disposizione delle sue parti interne sembrano possedere delle caratteristiche tali da poter individuare dei punti caratteristici del diagramma di Bohr e viceversa (e si noti che nell’ultima immagine compare il diagramma dell’atomo di radio). E questo pare già da solo un indizio molto importante del fatto che la meccanica delle particelle sia stata codificata in qualche modo nel monumento assieme allo spazio-tempo relativistico. Ma dopo quanto abbiamo visto fino ad adesso nessuno si stupirà più nel constatare che un tale sistema di sovrapposizioni si ripete – cambiando la scala della proiezione – anche al livello della Camera del Re. Nelle immagini successive possiamo vedere come facendo poggiare segmenti di orbite a segmenti del profilo delle Camere Superiori (che fino ad adesso si credevano lasciate allo stato grezzo) il diagramma dell’atomo nel suo complesso trova di nuovo un sistema di congruenze con tutto il resto della struttura. E questo sembra significare di nuovo che le parti grezze, o che paiono danneggiate (come l’angolo del sarcofago) siano anche quelle una perfetta espressione del codice e dunque di quelle leggi scientifiche di cui il la Grande Piramide diventò l’immagine architettonica.

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8) L’analisi di queste immagini spinge a ipotizzare induttivamente in modo piuttosto serio che la Grande Piramide e i rilievi Antico Egizi siano stati disegnati attraverso un unico codice geometrico compatibile tanto con il diagramma bidimensionale dello spazio-tempo che con il modello quantistico dell’atomo di idrogeno. Da ciò ne viene di conseguenza che
1- il modello quantistico dell’atomo di Bohr deve trovare sistemi di congruenze anche con il disegno delle steli
2- che tanto il diagramma dello spazio-tempo che il modello quantistico dell’atomo di Bohr devono avere dei punti in comune
Ebbene, attraverso le immagini che seguono siamo in grado di dimostrare che entrambe queste induzioni appaiono fondate, dato che il sistema di intersezioni che abbiamo già visto si ricostruisce, oltre che a partire da quello che abbiamo già analizzato, anche da altri due differenti modelli di atomo, che sembrano avere qualche cosa a che vedere sia con la struttura della Grande Piramide nel suo complesso, sia con quella della Camera del Re e con la Camera della Regina

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Ci rendiamo conto che immagini di questo genere e le ipotesi che sembrano quasi naturalmente scaturirne sono in grado di lasciare piuttosto perplessi. In particolare, la seconda immagine – quella in cui il diagramma dello spazio-tempo viene sovrapposto a quello dell’atomo – sembra suggerire che due teorie che sul piano logico-matematico sono state considerate da sempre in competizione e contraddizione possono invece, almeno sul piano della rappresentazione geometrica bidimensionale, trovare dei punti di contatto di una almeno apparente rilevanza. Però dobbiamo riconoscere che non è chiaro che cosa questo possa effettivamente significare sul piano scientifico (e dunque anche su quello della filosofia della scienza). Quel che sembra di poter arguire da questi sistemi di sovrapposizioni è che le orbite reali o possibili degli elettroni attorno al nucleo siano disegnate e scandite secondo un ritmo dettato anche dal numero d’oro, oltre che da Pi greco: un po’ quello che accade nel caso della distribuzione delle foglie attorno ai rami, dei petali nei fiori e altri fenomeni del genere. Questo fatto potrebbe avere una certa importanza, dato che le orbite degli elettroni hanno un significato connesso alla loro lunghezza d’onda (ricordiamo che l’orbita di un elettrone attorno al nucleo può essere solo un multiplo intero della sua lunghezza d’onda) e al loro stato energetico. Dunque può darsi che questi due fattori siano fra di loro legati da un’equazione in cui il numero d’oro gioca un fattore decisivo, almeno a quanto possiamo intuire dalle immagini che abbiamo visto. Ma ovviamente queste affermazioni hanno per il momento un valore meramente euristico, e l’unica possibile prova della loro verità la terremo in mano solo quando saremo in grado di descrivere in modo esatto la relazione fra queste quantità attraverso un’equazione in cui il numero d’oro abbia di fatto e non solo in ipotesi un significato decisivo. Tutto quel che possiamo dire in questo momento è che gli Antichi Egizi, attraverso le loro steli e la loro architettura, mostrano di aver usato un codice geometrico basato su π e ɸ in grado di suggerire dei punti di contatto di qualche genere fra queste due teorie. Dopo quanto abbiamo visto non possiamo nemmeno del tutto escludere che la Grande Piramide rappresenti geometricamente quella teoria dei campi unificata nell’Occidente moderno stiamo ancora cercando a tentoni: forse il diagramma dello spazio-tempo elaborato da Fappalà ha un significato più profondo di quello che lo stesso autore immaginava e si merita dunque uno studio accurato, che rimandiamo ad un momento e ad un lavoro successivi.

Parte quarta: TRACCE DI UNA SCIENZA PRIMA DELLA SCIENZA NELL’ICONOGRAFIA SACRA ANTICO EGIZIA E NELLE STRUTTURE MEGALITICHE DELLA PREISTORIA

1) Un primo punto di arrivo della nostra indagine è dunque l’ipotesi che e fossero codificati nell’arte sacra Antico Egizia perché da queste costanti geometriche
1- si possono derivare le costanti e dunque i diagrammi di tutte quelle leggi scientifiche che consentono all’uomo di avere un potere sulla natura, in particolare la fisica relativistica e la meccanica quantistica
2- come abbiamo visto in The Snefru Code part. 4 e come vedremo ancor meglio alla fine di questo lavoro, questi due numeri sono anche quelli che caratterizzano la struttura di quei cicli cosmici che possiamo considerare fondamentali per la religione e dunque per la visione del mondo dell’uomo preistorico
Dunque la nostra ipotesi è che in tempi antichissimi sia senz’altro esistita una tecnica avanzata, che operava servendosi delle stesse forze usate da quella moderna (e forse anche di almeno un’altra forza che noi non abbiamo ancora scoperto, vale a dire il segno meno del campo gravitazionale: ma tratteremo meglio questo punto verso la fine dell’articolo). Comunque sia, è forse utile sottolineare fin da subito che nonostante le comunanze che abbiamo potuto individuare per esempio a livello della concezione dello spazio-tempo, dai reperti archeologici in nostro possesso siamo parimenti costretti a ipotizzare che la tecnica che fu derivata dalla scienza antica fosse diversa e/o più evoluta della nostra, almeno nel campo della lavorazione della pietra (il che è un indizio di un possibile maggior sviluppo anche sul piano teorico): inoltre, le componenti di queste macchine di molti millenni fa dovevano esser fatte di materiale deteriorabile o addirittura biodegradabile, perché in caso contrario non risulta comprensibile il motivo per cui non si siano ritrovati resti di tutti quei materiali artificiali resistenti agli agenti atmosferici – come l’acciaio inossidabile – che nelle nostre macchine sono presenti in abbondanza. Oltre a ciò, per quel che si può al momento constatare, questi strumenti vennero usati solo per costruire opere sacre, strettamente connesse con la loro fede religiosa, almeno se pensiamo agli edifici in pietra, che sono i soli che hanno avuto la possibilità di valicare i molti millenni che ci separano dalla loro progettazione e costruzione. Dunque sembra che da ciò si possa dedurre che chi ha costruito monumenti come le Piramidi di Giza e Dahshur sentisse il potere assunto per mezzo della scienza come un frammento del potere divino, mentre al giorno d’oggi questo potere non viene tenuto in nessun modo per sacro, dato che si ritiene – almeno da parte della maggioranza degli scienziati – che scienza e fede debbano percorrere delle vie che non possono mai intersecarsi senza al contempo danneggiarsi a vicenda. Ma ci diffonderemo più oltre su questo argomento, che assume un’importanza che sembra davvero decisiva per tentare di comprendere l’anima degli uomini dell’Età della Pietra, che su questo punto si mostra tanto diversa dalla nostra.

2) Passando ad occuparci delle testimonianze archeologiche dirette e indirette di questa che abbiamo definito come “la scienza prima della scienza”, se dal campo dell’analisi geometrico-matematica delle steli Antico Egizie e della Grande Piramide ci volgiamo all’analisi del loro immediato contenuto iconografico, noi vediamo che a degli strumenti legati all’elettromagnetismo sembrano in effetti alludere alcuni geroglifici – meglio noti con il nome “lampade di Dendera” – per i quali non si è saputa trovare una spiegazione davvero convincente. Qui sotto possiamo osservare due immagini di un rilievo molto celebre, di cui è stata notata l’inquietante somiglianza con un apparato a raggi X della modernità. Alla luce di quel che abbiamo visto sopra un’interpretazione del genere non risulterebbe più antistorica e, anzi, si inserirebbe perfettamente nel quadro di una scienza molto antica che è giunta a risultati simili alla nostra per altre vie, e che con altri mezzi l’avrebbe applicata per scopi che forse erano del tutto diversi da quelli per cui noi la utilizziamo nel presente.

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Tutte queste ipotesi – ove verificate – ci darebbero modo di gettar luce anche su un altro fatto molto strano, avvenuto nel secolo scorso, per cui parimenti non sono mai state trovate spiegazioni soddisfacenti, e che si lega agli enigmi della cultura Antico Egizia per vie traverse: stiamo parlando della costruzione di Coral Castle – una grande villa fatta di blocchi di granito, uno dei quali arriva al peso davvero strabiliante di 30 tonnellate. Questa villa venne costruita in un luogo isolato degli Stati Uniti da un emigrato russo di nome Edward Leedskalnin senza l’aiuto di nessuno (a parte per il trasporto delle pietre in loco): a tutt’oggi non siamo in grado di fare ipotesi scientificamente sensate su come sia stato possibile per un singolo essere umano realizzare un’opera tanto colossale usando soltanto i modestissimi mezzi di sollevamento che sono stati ritrovati nel suo cantiere. Leedskalnin – che fu a quanto pare in rapporto piuttosto stretto con Nicola Tesla, uno dei più grandi e negletti scienziati del secolo scorso – sosteneva però di aver scoperto il modo con cui gli Antichi Egizi riuscivano a sollevare grandi blocchi di pietra e di averlo usato per posizionare quelli con cui costruì la sua villa. Al di là delle storie che si raccontano sul tema, nel suo laboratorio vennero ritrovati degli strumenti di cui non si riesce a capire la funzione, uno dei quali – un magnete ruotante a manovella – assomiglia in modo caratteristico a dei vasi che sono stati ritrovati a Giza. Nelle immagini sottostanti possiamo osservare il magnete e i vasi l’uno accanto all’altro.

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A parte questo caso particolare, è stato più volte notato come certe sculture Antico Egizie abbiano un aspetto molto strano, che ricorda inesorabilmente quello di parti di meccanismi che, per qualche motivo, siano state sacralizzate o comunque sia valorizzate esteticamente per mezzo della scultura. Particolarmente celebre è un pezzo che si trova al museo del Cairo che, oltre a evidenziare la solita capacità di lavorazione della pietra che tocca livelli, per così dire, astronautici e assolutamente ineguagliabili per la modernità, mostra anche delle somiglianze indubitabili con un qualche tipo di elica. Possiamo vedere questo manufatto accanto ad altri due, non altrettanto celebri ma egualmente piuttosto significativi, nelle foto sottostanti.

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Ora, se consideriamo quanto abbiamo visto fino ad adesso, l’ipotesi di una sacralizzazione di parti di meccanismi derivati da una scienza tenuta a sua volta per sacra e utilizzata sistematicamente o addirittura unicamente per scopi sacri non ci apparirà più come incongrua: dunque non ci apparirà incongruo neppure pensare che Leedskalnin possa aver trovato un modo di sollevare grandi blocchi di pietra con tecniche antiche da lui riscoperte, magari in modo casuale. Di certo, questa ipotesi è meno assurda e incredibile di quanto non risulti l’atteggiamento di chi si ostina a credere e a ripetere che Coral Castle fu costruito con i limitatissimi mezzi di sollevamento che vi furono ritrovati, o, tanto per dirne una, che la quarzite in grado di sfidare i più avanzati utensili al diamante di cui oggi disponiamo sarebbe stata perforata dagli Antichi Egizi con il semplice ausilio di punte tubolari di rame, sabbia e olio di gomito.

3) Capita di leggere sui testi legati alla cultura accademica che gli Antichi Egizi, come altri popoli del passato, estraevano la pietra perforando la roccia viva e inserendovi dei cunei di legno che venivano poi inzuppati d’acqua, creando così una pressione capace di spaccarla. In effetti, questo è quanto possiamo vedere nella foto sotto, che rappresenta una pietra che per qualche ignoto motivo venne abbandonata nella cava di Assuan, accanto ad altre immagini che testimoniano di operazioni simili, ma portate a compimento

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Quest’ipotesi è dunque non solo ragionevole, ma anche empiricamente fondata sulle osservazioni di questi reperti e di molti altri dello stesso genere, in cui è rimasta una traccia indubitabile di questo tipo di lavorazione. Però c’è una domanda a cui l’egittologia accademica si ostina a non voler rispondere, che è questa: come è che si può perforare il granito rosa in quel modo che vediamo nelle foto avendo a disposizione solo rame, sabbia e olio di gomito? Chi può prendere sul serio una tal frottola sesquipedale se non chi non sappia nulla di nulla della lavorazione della pietra, o chi voglia saperne ancor meno di rivedere i propri pregiudizi evoluzionistici quanto alla natura di ciò che noi chiamiamo con un certo sussiego “Età della Pietra”? Diciamo questo perché, come abbiamo già detto ma come giova ripetere, a partire da un gran numero di reperti archeologici sparsi in tutto il mondo noi dobbiamo per forza di cose concludere che l’Età della Pietra fu tutto meno che un epoca di arretratezza tecnica e scientifica e men che meno di prossimità allo stato animale. Le persone che sono riuscite in un’operazione come quella rappresentata in foto non assomigliavano di certo a delle scimmie, o, comunque sia, non più di quegli storici e di quegli archeologi accademici che di fronte a prodezze tecniche di questo genere – o di altre che paiono addirittura incommensurabili rispetto alle capacità attuali – continuano a ripetere da più di un secolo la favoletta della disponibilità illimitata di tempo e mano d’opera, che anche al tempo in cui fu inventata non era molto più credibile e scientificamente fondata di quella della cicogna. Queste persone paiono non rendersi conto che un certo genere di “argomenti” sono un vero e proprio insulto all’intelligenza cui può prestar orecchio solo chi non abbia alcuna familiarità, non diciamo con la tecnica di lavorazione della pietra, ma anche solo con i problemi connessi allo spostamento di carichi superiori a quello di una macchina di grossa cilindrata. Tanto per fare un esempio, si pensi solo alla celebre “Pietra della Luna” di Baalbek, un gigantesco monolite da 1000 tonnellate che incute timore anche solo a vederlo e che possiamo osservare nell’immagine sottostante.

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Un colosso di questo genere, allo stato attuale della nostra tecnica, noi non potremmo pensare di spostarlo e di collocarlo altro che costruendo una gigantesca gru a doppio o triplo ponte su binari, e dunque trasformando Baalbek in un grande cantiere industriale, mettendo nel frattempo a punto campane a vuoto con dimensioni e caratteristiche che ad oggi non esistono se non come mere possibilità (molto) teoriche: questo perché, dovendo appoggiare le pietre a una distanza inferiore al diametro di un capello l’una dall’altra utilizzare le normali imbracature risulterebbe del tutto impossibile. Tutte queste operazioni, naturalmente, dovrebbero essere precedute da un accurato studio geologico di suolo e sottosuolo e da eventuali lavori di consolidamento del terreno, perché operazioni di trasporto di questo genere rischiano di creare voragini dove meno lo si aspetta: ma a Baalbek non si riscontra nulla che possa far nemmeno vagamente ipotizzare che per spostare quella pietra e altre simili per peso e dimensioni (due sono state collocate nella base del tempio di Giove e pesano solo 200 tonnellate meno) siano stati compiuti interventi di questo genere. Dunque, come è che quella pietra è stata cavata e portata fin lì se non con l’aiuto di una tecnica “altra”, che contando su fonti di energia e strumenti ancora sconosciuti fosse capace di arrivare a dei risultati che a partire dallo stato attuale delle nostre conoscenze appaiono assolutamente impensabili?

Se da Baalbek ci spostiamo ad Alatri, ci rendiamo conto che osservando con una lente x10 gli incastri nei punti in cui sono ancora intatti a malapena si riesce a intravedere un filo sottile che separa le pietre poligonali (che arrivano ad avere anche quindici lati, anche se per solito sono “solo” 8-10). A dispetto di questo, si può notare che la linea di giunzione è discontinua e in alcuni punti quasi incredibilmente tormentata, come si può ben vedere nella foto sottostante. Dunque non è nemmeno possibile ipotizzare che per elaborare l’incastro siano state utilizzate delle macchine simili alla fresa e alla rettifica, che oggi si usano rispettivamente per lavori di alta e altissima precisione (su materiali che però sono quasi sempre metalli) per ottenere superfici piane o cilindriche accoppiate con un grado di precisione simile a quello riscontrabile ad Alatri (che sembra aggirarsi attorno al centesimo-millesimo di millimetro, anche se in dei punti appare – incredibilmente – ancora più basso)

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Eppure, come si vede abbastanza bene dalla foto, anche seguendo delle linee così complicate la precisione dell’accoppiamento resta la stessa che si riscontra dove appare più regolare. Oltre a questo, sempre ad Alatri, possiamo osservare molti punti della cinta in cui, con ogni evidenza, si vede che la pietra superiore “sconfina” in quella inferiore, come se in qualche modo misterioso si fosse imparentata con essa: mostriamo l’esempio più evidente nella foto sottostante, ma il lettore curioso può andare su You Tube e vedere i video di Gabriele Venturi su Alatri, e in questo modo ne scoprirà molti altri (e altri ancora ne potrebbe scoprire andando in visita ad Alatri e dando un’occhiata personalmente: una cosa molto utile fra l’altro perché mai come in questi casi vale il detto “vedere per credere”)

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È difficile con la foto restituire il lavoro di osservazione fatto in loco, ma, comunque sia, anche così si può vedere chiaramente che nel punto indicato dalla freccia rossa non si nota alcuna linea di giunzione fra la pietra superiore e quella inferiore. Questo e molti altri punti delle mura inclinano dunque a un’ipotesi che a partire dalla nostra chimica risulta almeno per il momento del tutto impensabile: che le pietre di Alatri siano state collocate allo stato pastoso (oppure allo stato liquido) e che la pasta delle pietre superiori, nel mentre veniva modellata sulla forma di quelle inferiori, trovandosi in uno stato chimicamente attivo sia riuscita a sciogliere la pietra inferiore, forse ancora non ben solidificata, e a imparentarsi con essa. A ben vedere non c’è nessun’altra spiegazione possibile degli incastri che si trovano ad Alatri se non una chimica prima della chimica, perché nemmeno il maestro dei maestri scalpellini in cento anni di lavoro potrebbe produrre un solo accoppiamento a “M” come quello che abbiamo visto nella prima foto. Né esiste, per quel che si sa, nessuna possibilità che due pietre possano imparentarsi fra di loro semplicemente stando incastrate l’una con l’altra (anzi, il tempo produce inesorabilmente l’effetto di corrodere la pietra proprio a partire dalle giunzioni, che per quanto ben fatte sono ovviamente i punti più vulnerabili delle mura, come di fatto si riscontra anche ad Alatri).

5) Ma tornando al punto di maggior interesse della nostra analisi, e cioè al mondo Antico Egizio, tanto per dare un’idea al lettore dell’assurdità e dell’infantilismo scientifico della “teoria” della disponibilità illimitata di tempo e manodopera, si pensi solo che gli Antichi Egizi nel corso della loro storia (e su questo sono d’accordo anche gli storici e gli archeologi accademici di cui sopra) scavarono nella viva roccia un numero imprecisato di chilometri di gallerie sotterranee in certi casi di dimensioni davvero ragguardevoli, oltre a estrarre e collocare molti milioni di blocchi di calcare per costruire edifici di vario tipo (se ne stimano dieci milioni solo per le Piramidi di Giza e Dahshur che l’egittologia ufficiale, con l’aria di chi parla sul serio e senza tema di smentita, afferma siano state costruite in meno di un secolo: il che fanno centomila blocchi l’anno, uno ogni due minuti e mezzo considerando dodici ore di lavoro al giorno, festivi inclusi (che al tempo erano moltissimi)). Il peso medio di questi blocchi pare sia di circa 4-6 tonnellate (questo è un valore meramente indicativo, dato che calcoli di questo genere sono difficili), ma molti di essi, come quelli dei Templi in Valle di Giza per esempio, arrivano a un peso di diverse centinaia di tonnellate. A ciò si aggiunga che in molti casi la qualità del calcare risulta talmente elevata che l’estrarli e il lavorarli non dovette essere impresa molto più facile che estrarre e lavorare le migliaia e migliaia di blocchi di granito con cui vennero realizzati templi o rivestimenti di templi, colonne e statue che a volte raggiungevano dimensioni veramente impressionanti. Un paio di esse, i colossi di Memnon, adesso molto corrose, si pensa che in origine arrivassero addirittura a 700 tonnellate l’una: per dare al lettore un’idea di quel che si tratta le mostriamo nell’immagine qui sotto

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Considerando che le statue rappresentano un personaggio seduto vi dovette essere una gran quantità di materiale di scarto, così che il blocco da cui vennero scolpite doveva pesarne circa 1000. Oltre a ciò, gli Antichi Egizi realizzarono steli, tombe e camere mortuarie di dimensioni a volte molto ragguardevoli e, soprattutto, obelischi che potevano arrivare anche quelli a un peso di molte centinaia di tonnellate: celebre quello rimasto incompiuto, abbandonato nella cava di Assuan per motivi non chiari, un gigante ancora praticamente intatto le cui dimensioni risultano ancora più inconcepibili di quelle della Pietra della Luna di Baalbek (una volta finito si stima che dovesse arrivare a un peso di circa 1400 tonnellate). Ma ci sono dei casi in cui sappiamo qualcosa in più di queste pietre che il loro peso smisurato, o la sapienza tecnica stupefacente con cui vennero lavorate, di cui nessuno sa rendersi ragione, dato che un’accurata osservazione delle incisioni desta l’impressione che questa gente fosse capace di incidere il granito con la stessa facilità con cui noi incidiamo con macchine computerizzate ad alta precisione dei materiali relativamente teneri (e, questo va sottolineato, su dimensioni che confrontate a quelle degli obelischi Antico Egizi appaiono davvero molto ridotte). Per esempio, dei due obelischi di Hatshetsup (600 tonnellate l’uno!) ci è rimasta testimonianza scritta che vennero cavati, scolpiti e collocati in sette mesi: eppure, in ambito accademico, se a qualcuno si domanda come sia stata possibile un’impresa tanto enorme, la risposta è inesorabilmente la solita favoletta del tempo e della manodopera illimitati. Una favoletta che in questo caso, oltre ad andare contro a qualsiasi genere di evidenza di tipo storico-archeologico (sette mesi non sono un tempo illimitato), entra in conflitto anche con le percezioni più elementari del senso comune. A questo si riducono la scienza e il metodo empirico quando invece di essere usati per conoscere la realtà vengono usati per difendere un sistema di pregiudizi, la cui unica funzione appare oramai quella di rassicurare psicologicamente persone che per qualche motivo hanno bisogno di sentirsi la punta di lancia di una presunta “evoluzione dell’uomo” che, con ogni evidenza, ammesso che ci sia stata davvero, ha avuto dei connotati che non hanno nulla a che vedere con quelli preconizzati da Darwin e dai suoi successori.

6) SSe invece usiamo la scienza e il metodo empirico per capire davvero questi reperti, la conclusione a cui dobbiamo arrivare è inevitabile: se nell’Età della Pietra si fu in grado di progettare e realizzare opere tanto colossali e connotate da caratteristiche metrologiche tali da farle parere quasi inumane, i loro costruttori dovettero essere per forza di cose in possesso di una scienza e dunque di una tecnica e di fonti di energia che li mettessero in grado di raggiungere i loro scopi. In caso contrario, dobbiamo immaginare che si trattasse non di uomini, ma di quei mitici Titani cui i Greci Classici attribuirono senza esitazione le mura di Micene. È vero però che i connotati esteriori di questa scienza e di questa tecnica appaiono molto diversi da quelli che assumono nel nostro mondo, e questo ha senz’altro contribuito a far sì che fino ad ora solo una minoranza di ricercatori sia stata in grado di riconoscerli. D’altra parte, non c’è da stupirsi più di tanto: come un libro di aritmetica scritto con caratteri cinesi antichi non sembrerebbe a nessun occidentale un libro di aritmetica (a parte quelli che conoscono bene il cinese antico), così anche il modo di utilizzare l’alta geometria che abbiamo scoperto tipico dei rilievi Antichi Egizi è stato scambiato come un abbozzo primitivo di arte figurativa. Nessuno si è reso conto di ciò a cui si trovava effettivamente di fronte, cioè un modo sorprendente di codificare al tempo stesso idee teologiche, dati astronomici e teorie scientifiche attraverso figure costruite per mezzo di un sistema di derivate logaritmiche. Ma che un fraintendimento di questo genere si sia verificato è abbastanza comprensibile, dato che a nessun occidentale moderno verrebbe in mente di costruire immagini secondo quel sistema (da noi l’arte figurativa è sempre stata considerata un’arte imitativa) o addirittura che matematica e astronomia possano avere qualcosa a che fare con la religione. A parte questo, per la mentalità moderna risulta problematica, per non dire del tutto incredibile, l’idea che una potenza tecnico-scientifica capace di progettare e costruire un paesaggio sacro monumentale come quello di Giza-Dahshur sia stata applicata in modo praticamente esclusivo all’arte sacra. A ben vedere, gente come gli Antichi Egizi, potendo spostare con una certa facilità milioni di blocchi di calcare del peso di alcune tonnellate, dopo le invasioni straniere provenienti dall’Est avrebbero potuto trasformare la loro nazione in una sistema di fortezze inespugnabili, in grado di tener testa a qualsiasi potenziale invasore (ricordiamo che solo con le pietre della Grande Piramide si potrebbero ricostruire tutte le cattedrali dell’Europa occidentale, oppure l’intera città di Londra: cosa avrebbero potuto fare i Persiani, i Macedoni, o se è per questo anche i Romani trovandosi di fronte a una catena di fortificazioni di questa portata?). E invece, contro ogni aspettativa, questa gente utilizzò il suo sapere e il suo potere solo per rendere onore ai suoi dèi e quanto alla guerra non si dette pena di utilizzare altri strumenti che quelli tipici dell’Età del Rame prima e di quella del Bronzo poi.

7) Questo atteggiamento appare alla nostra mentalità davvero enigmatico e senz’altro ci sarà qualcuno che lo riterrà superstizioso o addirittura stupido, del tutto simile a quello per cui i Cinesi utilizzavano la polvere da sparo solo per i fuochi artificiali senza rendersi conto delle sue possibili applicazioni civili e, soprattutto, belliche (che invece in Occidente vennero immediatamente comprese e utilizzate, fra l’altro, proprio per sottomettere l’Impero Cinese ai propri voleri e ai propri interessi commerciali). L’idea di progresso e quella di “utilità” sono talmente radicate nel nostro spirito che per noi è davvero difficile immaginare che al mondo ci siano state (e ci siano) persone che vedono la vita in modo tale da guardare con sospetto a qualsiasi genere di innovazione, che non avessero dubbi quanto al fatto che la scienza e la tecnica fossero qualcosa di sacramentalmente connesso con la religione e dunque con l’arte e l’architettura religiosa, e che a causa di ciò considerassero qualcosa come una blasfemia la sua applicazione ad altri scopi (posto che a qualcuno sia mai venuto in mente di farlo: perché, almeno guardando all’Antico Egitto, non pare di poter trovare alcuna applicazione “utile” di quella tecnica misteriosa usata per costruire i monumenti religiosi). Eppure, a quanto pare, questa che per noi è un’assurdità in altre epoche e in altre culture era una regola di vita talmente ovvia che forse nessuno si è mai posto il problema se accettarla oppure no: un po’ come fra noi l’idea per cui una nazione è tanto più sviluppata quanto maggiore è il suo prodotto interno lordo, e a nessuno o quasi nessuno importa se questo puro e semplice dato economico, che ben poco ha a che fare con la felicità degli esseri umani, comporti la distruzione sistematica e a volte irreparabile dell’ambiente in cui viviamo, o conflitti atroci per impadronirsi delle materie prime indispensabili per produrre oggetti di dubbia utilità o del tutto futili (tanto per fare un esempio, in Congo, un paese tanto lontano dalle cronache quanto ricco di materie prime, la guerra ha in vario modo ammazzato una decina di milioni di persone su una popolazione complessiva di settanta, senza che a nessuno dalle nostre parti venga il minimo dubbio sull’utilità dell’aumento del prodotto interno lordo). Abbiamo la prova che in tempi antichissimi, addirittura in pieno Paleolitico, una cosa del genere sia avvenuta a Dolni Vestonice, dove sono stati ritrovati due forni per la cottura della ceramica ad alta temperatura risalenti al 28000 AC (si pensi che fino al momento di questa davvero clamorosa scoperta si era creduto che la ceramica fosse stata inventata nel 10000 AC circa in connessione con l’agricoltura). A dispetto di ogni ragionevole aspettativa, si è visto che questa tecnica raffinata e – come diremmo noi – utile per un’infinità di scopi pratici, a quanto pare non è mai stata utilizzata altro che per produrre immagini di donna, o comunque sia sculture di quelli che paiono oggetti di culto, che venivano ritualmente spezzati. Non un vaso, una brocca, un piatto, non un utensile di qualsiasi genere: come è possibile che gente in grado di dominare una tecnica tanto complessa non la utilizzasse anche per un qualche genere di finalità più propriamente pratica? È questa una cosa che alla mentalità moderna risulta davvero inconcepibile, dato che siamo abituati a considerare scienza e religione come due campi separati, con la scienza dedita essenzialmente ad accrescere la potenza dell’essere umano sulla natura e sugli altri esseri umani: di certo, nessuna delle attuali potenze mondiali si sognerebbe di riservare l’energia atomica all’adorazione di una qualche divinità e di trascurarne le applicazioni, belliche o civili che siano. Probabilmente è proprio questa particolarità della nostra situazione culturale la causa profonda di quell’irrigidirsi della nostra capacità di interpretazione storica – che assomiglia a un vero e proprio blocco psicologico – che ci impedisce di anche solo immaginare che la scienza matematica possa avere un ruolo nella vita umana diverso da quello che di fatto riveste nel nostro mondo. Fin dal liceo siamo stati abituati a pensare che la scienza empirica si sia dispiegata in Occidente e non altrove perché solo in Occidente vi è stata quella divisione fra sacro e profano che ha consentito di indagare in ambiti in cui altrove avrebbero sempre regnato incontrastati il mito e il dogma religioso. Ma – ammesso che questo sia vero – vi è senz’altro un modo diverso di concepire la scienza, e per comprenderlo ci basta andare a fondo del ragionamento che abbiamo fatto poco sopra quanto alla possibilità di costruire le costanti delle leggi scientifiche per mezzo di π e ɸ.

Parte quinta: I POSSIBILI FONDAMENTI TEOLOGICO-ASTRONOMICI DELLA SCIENZA PREISTORICA

1) Per andare ulteriormente avanti in questa ricerca è forse bene partire dall’esempio che in questo contesto appare come il più interessante, vale a dire quello della forza elettromagnetica attiva fra due elettroni, che è espressa da una costante α pari a 1/137,036. Sembra che il grande fisico Paul Dirac fosse molto incuriosito da questa particolarità della costante (cioè che fosse praticamente identica a 1/137simo), e che sul tema raccontasse questa storiella: un uomo giunto in Paradiso può fare a Dio una sola domanda e allora gli chiede “perché proprio il 137?”. Sulla base di quanto abbiamo scoperto fino ad adesso possiamo portare un’ipotesi di risposta, anche se non sappiamo se avrebbe soddisfatto in tutto e per tutto questo celebre fisico, che era molto esigente in fatto di esattezza matematica. Come abbiamo visto in modo più approfondito e dettagliato nella parte quarta di questo lavoro (The Snefru Code part. 4: “Il Numero d’Oro nell’Arte e nell’Architettura Sacra Antico Egizia: una Prospettiva Archeoastronomica”), tenendo idealmente immobile e dunque prendendo come punto di riferimento il piano equatoriale in un momento tipico del ciclo solare – supponiamo – al solstizio d’estate, noi possiamo pensare all’asse polare terrestre come a una sorta di lancetta che nel corso di un ciclo precessionale oscilla rispetto all’eclittica di ± 47°. Dunque, alla fine di un semiciclo di oscillazione noi dobbiamo aggiungere ai 90° di inclinazione dell’asse polare rispetto al piano equatoriale i circa 47° di cui questa cosmica lancetta si muove nei circa 13000 anni che dura la metà di un ciclo precessionale. In questo modo passiamo dalla sezione di 90° + 270° = 360° di quel solstizio d’estate che abbiamo preso come punto di riferimento ai 90° + 47° = 137° + 223° = 360°, quando quello stesso punto dell’orbita si è trasformato dopo 13000 anni di oscillazione in un solstizio d’inverno. Nell’immagine sotto possiamo avere una chiara idea visiva del fenomeno.

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Si tratta, per ragioni di comodità, di un’immagine ricavata dal nostro modo tipico di rappresentare il cosmo anche se, come abbiamo visto nella seconda parte di questo lavoro, quello che in un certo senso possiamo definire senz’altro un dato scientifico appare indubitabilmente contenuto nei rilievi Antico Egizi, pur se rappresentato in modo per noi molto inconsueto e per di più nell’ambito di un mistero religioso. Comunque sia, dobbiamo notare che in questo tempo la Terra oscilla fra una sezione di 270°/90° e una molto vicina alla sezione aurea del cerchio, che risulta da 360/ɸ = 222,49°, con un angolo reciproco pari a 360 – 222,49 = 137,51 (la differenza è di circa mezzo grado). Ovviamente, possiamo dire che un’oscillazione simile si verifica ogni sei mesi fra i due opposti solstizi, anche se in modo diverso, dato che lo stesso punto della Terra si trova inclinato rispetto all’Eclittica di ± 47°. Ora, questa situazione astronomica, almeno sul piano numerologico, pare aver qualcosa a che fare con la forza elettromagnetica attiva fra due elettroni, perché in entrambe compare come elemento decisivo uno stesso numero, il 137. Infatti, come abbiamo visto poco sopra, questa forza è espressa da una costante α pari a 1/137,036. Dunque, chissà, forse a quell’uomo della storiella di Dirac che domanda a Dio “perché proprio il 137?”, Dio potrebbe rispondere che ha scelto il 137 perché questo numero corrisponde al reciproco della “quasi” sezione aurea su cui la Terra oscilla durante ogni anno solare o precessionale.

2) In effetti, 1/137,036 = 0,007297352…, che – guarda caso – moltiplicato per l’angolo giro (cioè per 360) da 2,627, un numero più o meno pari a ɸ². Se ne facciamo la radice abbiamo 1,6208…, cioè un numero di poco più di 2 millesimi superiore al numero d’oro. Questo significa che possiamo arrivare a esprimere un valore molto simile a quello di α con l’espressione ɸ²/360, che è uguale a 0,0072723. In questo contesto giova ricordare che 360, oltre che i gradi dell’angolo giro, sono anche i giorni “normali” del calendario solare Antico Egizio e Maya: non potrebbe essere questo l’indizio che importanti nozioni scientifiche, oltre che nei monumenti, possano essere state codificate dalla sapienza del passato perfino in oggetti per noi tanto innocui e banali come i calendari antichi e i loro dal nostro punto di vista così inconsueti numeri tipici? Vedremo più oltre anche altre vie per cui un modo di pensare alla scienza per noi tanto strano possa esser sorto nello spirito di persone che avevano un atteggiamento molto diverso dal nostro rispetto alla vita e al cosmo. Per il momento vogliamo sottolineare come vi sia un’ulteriore connessione fra il ciclo precessionale e il numero d’oro (e dunque, numerologicamente parlando, anche con la costante α). Una connessione che se per noi può risultare una mera curiosità, per persone abituate a pensare alla scienza e alla matematica in modo diverso può essere stato un indizio delle tracce lasciate dalla mente divina nel generare il mondo. Infatti, la radice quadrata dei 26000 anni di un ciclo precessionale divisa per 100 è uguale a 1,61245…, cioè a un numero che differisce dal numero d’oro di meno di 5 millesimi (anche il ciclo di Sirio contiene simili connessioni con il numero d’oro: i 1461 anni della sua durata, moltiplicati per ɸ³, danno una cifra pari a 6188,89, che risulta più o meno pari a 1/ɸ x 10000). Questi fatti hanno ovviamente delle conseguenze molto significative quanto ai rapporti numerologici del ciclo precessionale con le costanti scientifiche o quelli che si possono istituire fra le costanti scientifiche stesse: come abbiamo già visto e come vedremo ancor meglio più oltre, siccome questi numeri importantissimi sembrano potersi tradurre – proprio come i cicli cosmici – in funzioni di π e ɸ, risultano anche avere fra di loro dei rapporti che possono sembrare – come dire – un po’ strani. Per esempio, se dividiamo ħ con α, vediamo che ħ/α = 1,054571 : 0,0072992… = 144,476326462. Questo numero è quasi identico a 26000 : 360 x 2 = 144,444…, un numero che corrisponde a quelli che impareremo a conoscere come due Giorni Precessionali (vedremo fra breve di che cosa si tratta). Oppure, se moltiplichiamo la costante da cui si ottiene “c” (“c” è la velocità della luce) per α e poi ne facciamo quattro volte la radice troviamo che √(√(√(√(2,9979246 x 0,0072992) = 0,62017…, cioè un numero più o meno pari a 1/ɸ, con una differenza di poco più di 2 millesimi. Se invece dividiamo la costante gravitazionale G per α e ne facciamo otto volte la radice abbiamo che √(√(√(√(√(√(√(√(G/α) = √(√(√(√(√(√(√(√ (6,67 : 0,0072992) = √(√(√(√(√(√(√(√913,79877… = 1,05470…, cioè un valore che differisce da ħ di poco più di 12 decimillesimi. Un valore ancora più approssimato a ħ lo troviamo dividendo per ɸ i 1461 anni della durata di un ciclo di Sirio e facendone di nuovo otto volte la radice: √(√(√(√(√(√(√(√(1461/ϕ) = √(√(√(√(√(√(√(√902,9476 = 1,054608, contro i 1,054571 della nostra costante. Per finire, possiamo notare che essendo un elettronvolt 1,602 176 53 × 10-19 J, senza bisogno di alcuna equazione particolare si nota che la differenza fra l’approssimazione al numero d’oro che viene fuori dal ciclo precessionale (1,61245) e questa costante è di poco più di un centesimo. Forse non è nemmeno un caso che l’approssimazione al numero d’oro che invece si ricava dalla Piramide di Micerino risulta 1,601, con una differenza rispetto al valore di un elettronvolt di circa un millesimo.

3) Partendo da questi dati, e tenendo in considerazione la relazione fra religione, astronomia e la profonda conoscenza che si aveva anche in tempi antichissimi del fenomeno della precessione, possiamo ora domandarci: perché degli esseri umani con un orientamento spirituale molto diverso dal nostro non potrebbero essere arrivati a conoscere la costante α proprio come la conosciamo noi e contemporaneamente, vedendo che è associata o associabile al ciclo precessionale e ad altre costanti fisiche per mezzo di π e ɸ, non potrebbero aver visto in ciò le tracce di un’armonia divina invece che di un mero caso? Pensiamoci bene: davvero siamo obbligati dalla scienza della natura o addirittura dalla logica a credere che tutti quei dati scientifici e matematici che abbiamo scoperto codificati in opere Antico Egizie debbano essere solo un banale accumularsi di coincidenze? Osservando i monumenti che ci sono rimasti, in particolare l’accuratezza e, certe volte, la singolarità della loro orientazione astronomica, dobbiamo concludere che questa gente sembrava davvero convinta della fondamentale connessione fra astronomia matematica e teologia, una cosa che nei nostri tempi e dalle nostri parti risulta una sorta di ingenuità gnoseologica intollerabile, una superstizione ancor più dannosa che inutile. Ma, osservando i risultati raggiunti dai nostri antenati, per esempio nell’architettura, possiamo essere davvero scientificamente certi o logicamente dimostrare che sia da primitivi attribuire le leggi che vediamo operare nel cosmo a Dio o agli dèi piuttosto che al caso (qualunque cosa sia)? E se non possiamo esserne certi, perché dovremmo escludere che nel passato lontano dell’umanità possa essere esistita una cultura o un insieme di culture che vedevano nella teoria della relatività e nella meccanica quantistica una traccia dell’intelligenza divina, se gente come Einstein ce la vedeva? Abbiamo scoperto sopra che le costanti delle nostre leggi fisiche più fondamentali si possono derivare – pur con qualche approssimazione – da π e da ɸ, che a loro volta si trovano più o meno cripticamente codificati in fenomeni e dunque in campi del sapere di ogni sorta: consci di tutte queste connessioni, davvero siamo obbligati a giudicare chi guarda alla scienza da una prospettiva diversa da quella positivistico- materialistica come un ingenuo, o addirittura come un superstizioso? Senza voler esprimere per forza un parere in un senso o in un altro, e mantenendo una posizione di fermo relativismo culturale, possiamo notare che anche l’intellettuale più laico del mondo avrà notato che la nozione di “linguaggio” e di “segno linguistico” sembra profondamente connessa con quella di “regolarità”, dato che il significato di un segno è dato – fra l’altro – anche dalla sua inesorabile ripetizione nell’ambito di certi contesti, ovvero, come direbbe Ludwig Wittgenstein, dalla costanza di certe sue applicazioni, che possiamo definire tipiche. Dunque non ci sarebbe troppo da stupirsi se persone con tendenze spirituali diverse da quelle maggioritarie nel nostro tempo avessero visto nelle regolarità matematico-quantitative descritte dalle leggi scientifiche – unite a quelle “numerologiche”, che noi teniamo come mere superstizioni – un modo con cui il divino comunica con l’uomo per mezzo di simboli matematici. La regolarità con cui ɸ e π compaiono nelle costanti delle leggi scientifiche e nei cicli cosmici (analizzeremo più profondamente questi fatti negli ultimi paragrafi e avvertiamo il lettore che avremo davvero di che rimanere stupefatti) può davvero sembrare un modo con cui un “dio geometra” o “matematico” comunica i suoi segreti all’essere umano il quale, contemplando l’universo in primo luogo attraverso le sue leggi matematiche, arriva a identificarsi con Dio stesso (Platone nel Timeo sostiene che il movimento circolare dei pensieri umani, che di solito ruota attorno a oggetti di desiderio transeunti, deve essere sostituito dalla contemplazione degli eterni cerchi che gli astri tracciano nel cielo: in questo modo contemplante e contemplato diventano la stessa cosa; forse per questo era così importante per gli antichi imparare a memoria interi libri di geometria e di astronomia: in questo modo la loro mente si identificava con Dio, la cui mente era fatta, diciamo così, da quegli stessi libri). In un contesto del genere, nessuno potrebbe stupirsi che i numeri possano essere stati considerati sacri, e che perciò in tempi antichi la scienza sia andata in cerca non solo e non tanto di un mero potere di calcolo e di manipolazione della realtà, ma di una divina armonia, rivelata in dei numeri che di tutte le leggi fossero la Legge.

4) Una traccia di questo atteggiamento la possiamo trovare partendo ancora una volta da alcune osservazioni sul ciclo precessionale, i cui numeri fondamentali sembrano avere una relazione tanto nascosta quanto profonda e suggestiva sia con dei calendari molto antichi sia con il sistema geometrico ancora in uso in Occidente, che come tutti sappiamo deriva in modo diretto da quello Babilonese. A quanto ci è dato di sapere, durante il ciclo precessionale l’asse del polo terrestre oscilla rispetto quello del polo celeste fra un minimo di circa 21,5 e un massimo di circa 23,5 gradi. Questo fa sì che l’angolo complessivo fra i due opposti solstizi sia nel primo caso di 43° e nel secondo di 47°. A parte il fatto curioso che la somma di questi due angoli è pari a 90° e la media a 45° – cioè pari a un quarto e a un ottavo dell’angolo giro così come calcolato nel sistema trigonometrico Babilonese – ne dobbiamo aggiungere anche un altro, che risulta forse ancor più stupefacente (e che probabilmente è connesso con questo non solo matematicamente, ma anche storicamente). Infatti, se proviamo a costruire la terna pitagorica (corrispondente a un triangolo rettangolo con tutti e tre i lati costituiti da numeri interi) usando come base il 47 e il 43, troviamo che il cateto minore è giusto eguale a 360 ( l’altro lato è 4042, mentre l’ipotenusa è 4058): guarda caso, proprio quelle 360 parti in cui nell’antichità si divideva il ciclo precessionale (che in questo contesto possiamo tranquillamente definire Anno Precessionale) per trovare la durata di un Giorno Precessionale, che risulta da 26000 : 360 = 72,222 anni che moltiplicati per due, come abbiamo visto sopra, danno un numero praticamente identico a ħ/α. Ma questo non è tutto. Se prendiamo l’angolo con tangente pari a π scopriamo che quest’angolo risulta a 72°,3432, una cifra che corrisponde numerologicamente in modo quasi perfetto alla durata in anni solari del Giorno Precessionale. Se poi prendiamo quell’approssimazione al π che abbiamo scoperto mettendo in rapporto numerologico la durata del ciclo di Sirio (1461) con il numero caratteristico del sarcofago di Djedefre (il 234) scopriamo che questo numero (3,1217), inteso come tangente, esprime un angolo numerologicamente ancora più vicino alla durata del Giorno Precessionale, vale a dire un angolo di 72°,2377. La durata del ciclo di Sirio è stata però rappresentata a volte con il 1460. In questo caso la connessione numerologica con la durata del Giorno Precessionale diventa ancora più stringente, dato che troviamo un angolo di 72°,2268. E queste sembrano conoscenze che affondano le loro radici in abissi di tempo che a fatica fatichiamo a rappresentarci. Hans Georg Bandi, professore emerito all’università di Berna, nel suo articolo dal titolo “Uno straordinario sguardo nella grotta di Chauvet” nota che i felini rappresentati nelle celebri cave francesi (che sono tutti leoni delle caverne, eccetto uno) sono proprio 72: dopo quello che abbiamo visto in “The Snefru Code part. 6 forse adesso ci sarà qualcuno disposto a rendersi conto che questo non è un caso. Forse non è nemmeno un caso che i mammut siano 66, proprio come le parti in cui è diviso l’Antico Testamento, né che i cavalli siano proprio 40, che è di nuovo il numero più significativo che compare tanto nel Nuovo che nel Vecchio Testamento. A Chauvet si notano profonde connessioni archeoastronomiche anche con un sito come Gobekli Tepe. A Gobekli Tepe troviamo infatti dei pannelli posti in serie, che rappresentano animali con caratteristiche molto simili a quelli di Chauvet e delle altre grotte paleolitiche (in particolare, gli animali sembrano galleggiare in qualche sorta di liquido piuttosto che stare appoggiati sul terreno). Sembra chiaro che questi pannelli a “T” non siano altro che una rappresentazione mitologica di scene celesti in momenti cruciali dell’anno (come la levata eliaca all’equinozio di primavera o al tramonto di quello di autunno, oppure ai due opposti solstizi) che durante il ciclo precessionale mutano lentamente ma inesorabilmente. Li possiamo vedere nelle foto sottostanti.

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A Chauvet troviamo che si è costruita una simile successione, appoggiandosi però alla configurazione naturale della grotta. Mettendo vicine le due strutture siamo capaci di renderci conto piuttosto facilmente tanto delle differenze che delle somiglianze.

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È possibile che si sia scelta la forma a “T” per questi pannelli perché il pilone che fa da sostegno rappresenta probabilmente l’asse dell’eclittica, che nelle visioni mitiche dell’antichità è stato più volte rappresentato come il pilone, o la colonna, che sorregge il cielo.

5) Comunque sia, tornando al nostro argomento principale, il fatto che il triangolo rettangolo costruito con la massima e minima inclinazione del polo terrestre in relazione con quello dell’eclittica abbia un cateto minore pari a 360, ci offre una ragione teologico-astronomica in grado di gettar luce sul motivo per cui i Babilonesi usavano il sistema sessagesimale su un giro calcolato in 360 gradi: questo accadeva perché, con ogni probabilità, il cerchio a cui si riferivano era quello della precessione, non quello dell’anno solare. Ne viene di conseguenza che l’orientamento di una ziggurat come quella che vediamo qui sotto potrebbe avere dei significati che vanno ben al di là dell’anno solare. E ben si notano delle singolari coincidenze e congruenze con la disposizione delle Piramidi di Abusir. Anche gli angoli che vediamo nella struttura rappresentata nell’immagine sottostante potrebbero avere dei significati connessi con la precessione, e merita quindi di analizzarli brevemente. Come abbiamo visto, l’angolo di 45° potrebbe simbolizzare la media dell’angolo che risulta fra i due opposti solstizi quando l’asse polare si trova inclinato al minimo e al massimo rispetto all’eclittica, ma anche sulla destra possiamo individuare un triangolo molto interessante. Infatti, dividendo questo nuovo triangolo in due triangoli rettangoli – come abbiamo fatto nella figura – troviamo che quello di destra ha gli angoli tipici di quello costruito sulla metà del lato e sull’altezza della Grande Piramide (con tutte le implicazioni riferite a π e ɸ che sono già state abbondantemente dimostrate quanto alla Grande Piramide); ma anche gli angoli opposti ai cateti di quello a sinistra (che sono di circa 48° e 42°) mostrano delle caratteristiche notevoli. Per esempio il rapporto 48/42 è pari a 1 + 1/7, mentre l’angolo retto ha un rapporto con l’angolo minore di 90/42 pari a sua volta a 2 + 1/7: numeri che potrebbero indicare una qualche relazione della struttura con il ciclo lunare, in particolare con la settimana, un’unità di misura che ancora oggi è a tutti familiare. Si tenga presente che facendo per due volte la radice di un settimo troviamo che √(√0,142857…) = 0,614788, cioè un numero che differisce da 1/ɸ di poco più di 3 millesimi (una cosa questa che potrebbe aver spinto dei matematici antichi a connettere la settimana lunare e dunque la Luna al numero d’oro). Se poi proviamo a costruire la terna pitagorica anche con il 48 e il 42, scopriamo che ancora una volta vengono fuori caratteristiche notevoli, e, c’è da immaginarlo, tutto meno che casuali. Il perimetro del triangolo rettangolo connesso è infatti pari a 8640, che diviso per l’angolo giro (cioè per 360) da 24. Oppure, diviso per 540 (che è la misura del suo cateto minore, che dunque si può scrivere come 360 + 360/2) da 16 (si tenga presente che nell’Edda si scrive che “Cinquecento porte e quaranta ancora sono del possente edificio del Valhöll”: e il Valhöll non è altro che una immagine dello Zodiaco, come lo è la Gerusalemme Celeste nell’Apocalisse). Questa stretta relazione della terna pitagorica con il 360, in una cultura dove il cerchio veniva diviso proprio in 360 parti, sembra un’allusione a una qualche nozione esoterica di tipo astronomico di cui in questo momento non è facile ricostruire la natura, ma che con un po’ di pazienza potremmo riuscire a svelare: per esempio, il 16 potrebbe rappresentare un doppio ciclo di 8 fasi lunari, e il 24 uno triplo. Ma, a parte questo, anche dal poco che abbiamo visto fino ad ora possiamo scommettere che non solo quei particolari che abbiamo individuato, ma anche il complesso di questa grande struttura ha senz’altro un significato astronomico, con ogni probabilità connesso in modo ermetico Ma, tornando alla terna pitagorica e al triangolo rettangolo da cui eravamo partiti, quelli numerologicamente connessi con l’inclinazione massima e minima della Terra rispetto all’eclittica (23°5 e 21°,5), ci resta ancora da osservare che, a parte quelle che paiono delle evidenti connessioni con la trigonometria e dunque con l’architettura Babilonese, dal punto di vista archeoastronomico-numerologico troviamo anche altre caratteristiche molto interessanti, che possono darci spunti importanti per comprendere la struttura di pensiero di altre culture antiche. Per prima cosa, notiamo che il perimetro del triangolo risulta 8460, che diviso per 360 ci da 23,5, cioè l’inclinazione della Terra rispetto all’eclittica quando raggiunge il massimo, oppure la declinazione della Luna quando raggiunge il punto medio fra il massimo e il minimo. Se facciamo il rapporto fra il perimetro e il numero che risulta dalla somma dell’ipotenusa con il cateto maggiore (escludendo dunque quello di 360) abbiamo un risultato pari a 1,04444….; elevando questo numero all’undicesima potenza arriviamo a una cifra pari a 1,613… che è di soli 5 millesimi inferiore al numero d’oro (e tutti sappiamo come l’11 sia un numero che nella serie di Fibonacci, intimamente connessa con il numero d’oro, riveste un ruolo del tutto particolare). L’area del rettangolo costruito sui cateti è pari a 1455120. Dividendo questo numero per il perimetro del triangolo da cui eravamo partiti troviamo un rapporto pari a 172: e noi sappiamo che la Luna descrive sulla sfera celeste un cerchio inclinato di 5°,15 rispetto a quello dell’eclittica, valore che è soggetto a variazione nel tempo. La variazione è di tipo periodico, con un periodo di 173,3 giorni, molto vicino a quello che abbiamo trovato partendo dal nostro triangolo, chiamiamolo così, “precessionale”. Inoltre, e questo è forse il lato più sorprendente, i 5°,15 di inclinazione del cerchio lunare rispetto all’eclittica corrispondono in modo praticamente esatto all’angolo opposto al cateto minore di questo triangolo. Notiamo di passaggio che nella tomba di Djehutihotep (risalente alla XII Dinastia) si trova l’immagine di una statua di alabastro che viene trascinata con una slitta da 172 operai che per essere riusciti a trascinare e a collocare questa statua vengono celebrati addirittura come eroi mentre, a ben vedere, la statua appare di dimensioni e peso alquanto ridotti (circa 60 tonnellate) rispetto a quelle di statue e obelischi dimensioni dieci volte maggiori che di fatto sono stati trasportati e collocati più di una volta nel corso della storia dell’Antico Egitto. Qui troviamo un motivo per pensare che i 172 operai che trascinano la slitta non siano degli esseri umani, ma il simbolo matematico per così dire “umanizzato” del numero che viene fuori elaborando quella particolare terna pitagorica, che forse veniva usato come simbolo ermetico di questo ciclo lunare molto importante. Forse non è nemmeno un caso che il perimetro di questo triangolo, moltiplicato per π, ci da un valore di 26577, che è numero piuttosto vicino a quello delle unità da 360 giorni che occorrono per misurare un ciclo precessionale di 26000 anni solari di 365,25 giorni (che è in effetti 26379). Dunque, negli angoli dell’inclinazione massima e minima della Terra rispetto all’eclittica sembrano inseriti un complesso nozioni astronomiche importanti, che nell’ambito di questi numeri appaiono connesse entro un sistema numerologico da cui si possono estrarre per mezzo di un’elaborazione matematica che noi siamo portati a definire “esoterica” (ma c’è da domandarsi come è che questa parola suonerebbe agli orecchi di persone a cui noi siamo inclini ad attribuire appunto una “cultura esoterica”).

7) È stato forse giusto lasciare per ultimo il motivo di interesse principale della terna pitagorica che risulta dal 47 e dal 43, ovvero il fatto che in essa sembra anche nascosta la soluzione di un enigma che a lungo ha occupato storici e archeologi senza alcun frutto. Stiamo parlando del motivo per cui sia nel mondo Antico Egizio che in quello Maya i 5 giorni che esorbitano i 360 nell’anno solare venivano giudicati infausti. Una simile maledizione potrebbe derivare dal fatto che questi 5 giorni – nell’ambito di un pensiero in cui la numerologia assumeva un ruolo tanto importante – potevano essere visti come un motivo di disarmonia fra il percorso annuale del sole attraverso lo zodiaco e quello della precessione degli equinozi che il sole compie ogni 26000 anni percorrendo in senso inverso lo stesso cerchio cosmico: una cosa che in un ambito culturale di questo tipo doveva essere sentita come un cattivo auspicio, un elemento di caos contro cui combattere con ogni mezzo sacro-simbolico a disposizione. A questo proposito, giova ricordare che fra i vari calendari Maya troviamo un Lungo Computo costituito da 5200 unità di 360 giorni ciascuna, di cui nessuno è mai riuscito a spiegare la funzione, anche se qualcuno ha già osservato che 5 Lunghi Computi, siccome arrivano a un totale di 26000 unità da 360 giorni ciascuna, potrebbero in qualche modo connettersi con il ciclo precessionale. A questo punto della nostra indagine, dopo aver scoperto che la terna pitagorica che possiamo estrapolare dal 43 e dal 47 ha proprio il 360 come termine minore, possiamo essere praticamente certi che la sua funzione fosse proprio questa. Misurare il ciclo annuale del sole togliendo i 5 giorni in più che si trovano rispetto al numero che viene fuori dalla terna pitagorica connessa con gli angoli estremi toccati dalla Terra in relazione all’eclittica, era un modo di accordare i numeri fondamentali dei cicli fondamentali. In questo modo il ciclo annuale del sole lungo lo zodiaco (che avviene in senso antiorario) non sarebbe entrato numerologicamente e dunque magicamente in conflitto con quello precessionale (che avviene in senso inverso). È del tutto ovvio che questo genere di operazioni risultano del tutto innaturali a chiunque sia cresciuto nella nostra cultura. Di certo, uno scienziato che si ponesse il problema d’introdurre un calendario particolare perché i numeri di quello solito non corrispondono a certi cicli astronomici, posto che qualcuno gli prestasse ascolto, verrebbe preso per matto. Eppure queste cose erano a quanto pare molto, molto importanti nel mondo antico, in cui il conteggio del tempo aveva delle relazioni fondamentalissime con la religione e dunque con la vita quotidiana delle persone. Si pensi che ancora al tempo di Roma uno dei compiti fondamentali dei sacerdoti era quello di trovare il modo di mettere d’accordo il calendario e dunque il ciclo solare con quello lunare, un’operazione molto complicata a cui anche altre culture del passato furono in vario modo dedite, e che in vario modo lo risolsero.

8) Certo, gli argomenti che abbiamo portato sembrano ancora insufficienti per tirare conclusioni sicure al 100%, ma davvero sembra difficile spiegare la geometria dell’arte sacra Antico Egizia e Babilonese in altro modo che con conoscenze matematiche e astronomiche avanzatissime, del tutto paragonabili alle nostre – se non addirittura più avanzate – vissute e rappresentate però come parte essenziale di un mistero religioso. È per questo che ogni volta che ce le troviamo di fronte rimaniamo sconcertati e del tutto disorientati: perché ci sembra incredibile che uno studio dell’astronomia quasi fanaticamente “esatto” come quello dei Babilonesi possa avere a che fare con un fenomeno come la religione. Questo accade perché ai giorni nostri la religione ha dei connotati assolutamente diversi, che nulla di nulla hanno a che fare con l’astronomia e, soprattutto, con la matematica o la numerologia, visto che anche quella un tempo faceva parte della tradizione teologica – e che ancora si può facilmente riscontrare in un testo come l’Apocalisse o in altre parti della Bibbia – viene di solito del tutto trascurata dai teologi moderni. Ciò fa sì che trovandoci di fronte a immagini come quella che vediamo sotto rimaniamo immancabilmente perplessi: che cosa c’entrano gli dèi e il divino con una conoscenza tanto profonda ed “esatta” del cielo diurno e, soprattutto, di quello notturno?

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In effetti, a partire da reperti di questo genere, molti storici e molti astronomi si sono sentiti spinti o addirittura costretti a ipotizzare che in qualche modo i Babilonesi si fossero resi conto dell’effettiva configurazione del sistema solare almeno cinque o sei millenni prima che a questa consapevolezza si riuscisse ad arrivare in Occidente. Si pensi che un grande astronomo quale Keplero, attentissimo osservatore del cielo, era ancora perfettamente convinto che i pianeti fossero solo sei, una cosa di cui non c’è da stupirsi, dato i pianeti più periferici del sistema solare non risultano semplici da individuare nemmeno utilizzando le tecniche di calcolo e di osservazione moderne. Eppure fra i Babilonesi questa conoscenza così profonda del sistema solare era parte inscindibile di una visione religiosa del mondo in cui l’astronomia matematizzata aveva un ruolo altrettanto essenziale che quello del mito, da cui risultava totalmente compenetrata: una cosa che risulta del tutto incomprensibile in un mondo come il nostro, dove religione e scienze matematizzate di qualsiasi sorta non hanno fra di loro alcun genere di relazione veramente profonda, almeno a partire dai tempi di Galileo. Ponendoci il problema di questa sacralizzazione della matematica e dell’astronomia matematizzata – che con ogni evidenza aveva luogo in tutto mondo antico oltre che fra i Babilonesi – noi possiamo ipotizzare che un elemento che può aver spinto questa gente a considerare le teorie scientifiche come parte dei misteri religiosi fosse proprio la possibilità di derivare i loro numeri fondamentali – ovvero le costanti – da ɸ e/o da π, una possibilità che abbiamo già visto e analizzato poco sopra, ma solo in minima parte. Riprendendo quelle riflessioni e quelle analisi, possiamo ampliarle ipotizzando che queste persone non vedessero come noi in ɸ e π dei numeri casuali o “irrazionali” o comunque sia variamente incomprensibili, ma, al contrario, proprio come il sommo della razionalità e della comprensione. Vedendoli come un attributo della mente divina (come del resto ancora Keplero li vedeva, pur se all’oscuro della possibile ampiezza del loro significato scientifico), che crea e ricrea il cosmo seguendo leggi che derivano da questi numeri, conoscerli significava in un certo senso conoscere Dio, la cui infinitezza era sentita forse in modo del tutto diverso da come viene sentita nel nostro mondo. Per noi l’infinito è in primo luogo un elemento prospettico-spaziale, una lontananza impensabile cui ci approssimiamo psicologicamente – come ben mostrato da Giacomo Leopardi nei Canti e nello Zibaldone – con l’idea e, soprattutto, con il sentimento dell’indefinito: ma forse per queste persone le cose non stavano così. Forse per loro Dio era qualcosa di infinito o di trascendente perché quelli che potremmo definire i suoi “numeri profondi” risultano inesprimibili per il linguaggio e per il pensiero umano, se non in modo approssimativo. Da questo punto di vista, costruire le costanti delle leggi scientifiche per mezzo di π e ɸ poteva essere un modo di derivarle, diciamo così, dalla potenza divina, che forse si credeva operasse per mezzo di questi numeri.

9) Per dare un’idea di quel che si può fare con π e ɸ possiamo portare altri casi in cui le costanti scientifiche si possono trasformare in prodotti di questi numeri, oltre a quelli molto importanti che abbiamo visto sopra. Per esempio, la costante di Boltzmann si può esprimere con il numero d’oro per mezzo della semplice formula 1 + (1 – 1/ɸ) = 1.381966 contro un valore attualmente in uso di 1,380054, con una differenza di 0,0019 che potrebbe essere tolta in modo quasi perfetto da una correzione ottenuta con 1/ɸ¹³ , che da un risultato pari a 0,00191… Quella di Stefan-Boltzmann, usando il valore di π che abbiamo trovato nel sarcofago di Djedefre, la si può esprimere con la formula (πDjedefre x ɸ) + 1/ɸ = 5,669 contro un valore da noi tenuto pari a 5,6697, con una differenza di 7 decimillesimi. La carica dell’elettrone (1,60219) differisce da ɸ “in persona” di poco più di quindici millesimi (1,618033 – 1,60219 = 0,01584): applicando la formula ɸ – (1/ɸ)⁹ abbiamo 1,618033… – 0,013155… = 1,60487… con una differenza che si riduce a poco più di 2 millesimi (poco sopra abbiamo visto che corrisponde in modo quasi perfetto all’approssimazione al numero d’oro che si può ricavare dalla Piramide di Micerino). La permeabilità magnetica del vuoto (1,2566) differisce dalla radice quadrata di ɸ di un valore parimenti molto basso (1,2566 – √ɸ = 1,2566 – 1,2720 = – 0,0154) e può essere “aggiustata” allo stesso modo: √ɸ – (1/ɸ)⁹ = 1,2720 – 0,013155 = 1,2588, con una differenza di 22 decimillesimi. La massa a riposo dell’elettrone possiamo calcolarla con la formula π² – [2 x (1/ɸ)²] = 9,10566, contro un valore attualmente in uso di 9.1091, con una differenza inferiore ai 4 millesimi. La costante dialettrica del vuoto è pari a 8,8544; con la formula (π x ɸ) + π + 1/ɸ otteniamo un valore di 8,8428, con una differenza di poco più di un centesimo. La costante di Faraday è pari a 9,6487; con π² – 1/ɸ³, otteniamo un 9,6335 che risulta di poco più di 15 millesimi inferiore (il lettore avrà capito che anche in questi ultimi casi potremmo applicare delle correzioni in modo simile a cui abbiamo fatto sopra, e che non lo abbiamo fatto solo per brevità). Sarà forse interessante presentare l’ultimo esempio di questo lavoro di trasformazione matematica delle nostre costanti facendolo precedere da una breve nota di tipo storico. Nelle sue Storie Erodoto racconta che durante il suo viaggio in Egitto i sacerdoti gli fecero vedere una lunga fila di statue, che rappresentavano 341 generazioni di antenati che li avevano preceduti nelle loro funzioni. Si nota che la durata del ciclo di Sirio divisa per questo numero da un risultato pari a 1461 : 341 = 4,2844, una cifra che è molto simile a ɸ³ = 4,2360, cifra che è a sua volta molto simile alla costante che ci serve per calcolare il rapporto fra la forza gravitazionale espressa dall’elettrone e quella espressa dalla sua carica magnetica che è 4,17 x 10⁴², con una differenza di circa 6 centesimi.

Parte sesta: SCIENZA NUMEROLOGIA E ASTRONOMIA NEI CALENDARI ANTICHI

1) Dopo quanto abbiamo visto fino ad adesso non possiamo più escludere che tutte quelle approssimazioni a π e a ɸ che troviamo nei monumenti Antico Egizi e questi monumenti stessi non siano altro che un modo che noi definiremmo “ermetico” di rappresentare leggi scientifiche. Leggi che noi esprimiamo e concepiamo in modo totalmente o, come viene spontaneo dire, abissalmente diverso, al punto che è facile che all’occidentale medio questo modo di concepire i numeri e le teorie matematico-scientifiche appaia tanto ovvio e sensato che quello pagano di attribuire una divinità a qualsiasi ente intramondano. Una porta, o una fonte, pur apparendo dal punto di vista materiale la stessa cosa, dal punto di vista spirituale sono due cose diversissime per chi li consideri letteralmente come divinità o per chi invece li veda come banalissimi oggetti di uso quotidiano. Allo stesso modo, i numeri che noi definiamo come “irrazionali” sono cose diversissime per chi li consideri sacramentalmente come attributi della mente divina (o addirittura come nomi segreti di Dio che donano ai loro conoscitori la possibilità di condividerne la potenza) o per chi invece li concepisca semplicemente come interessanti e inesauribili rompicapo matematici (magari considerando la matematica stessa, al di fuori delle sue applicazioni scientifiche, come un interessante e inesauribile rompicapo). Per dare al lettore un’idea più chiara di cosa potrebbe nascondersi dietro l’apparentemente inspiegabile passione dell’uomo antico per l’armonia fra i calendari e la numerologia, se prendiamo di nuovo i valori dell’angolo minimo e massimo fra i solstizi che vengono toccati durante un ciclo precessionale, cioè quei 43 e 47 gradi che abbiamo in parte già analizzato in precedenza, vediamo che hanno fra di loro un rapporto che a prima vista può sembrare anonimo, dato che risulta pari a 47 : 43 = 1,093023. Però se a questa cifra sottraiamo 1, otteniamo uno 0,093023 che differisce solo di un millesimo dalla differenza fra 2ɸ – π = 0,094475976. Ancora più impressionante risulta l’analisi del rapporto fra il numero di giorni di un anno solare (365,25) e quello di un anno di fasi lunari (354,36), che ha dei legami matematici che paiono ancora più stretti con π e ɸ. infatti, se dividiamo 365,25 per 354,36 otteniamo una cifra pari a 1,03073… che ancora una volta a prima vista può parere del tutto insignificante. Ma il suo possibile significato ci potrà apparire fin da subito più chiaro nel momento in cui ci rendiamo conto che questo numero risulta anche dalla formula 2ɸ : π = 3,236… : 3,141… = 1,030072… e naturalmente anche da ɸ : π/2, con una differenza inferiore ai 7 decimillesimi (si noti che il rapporto fra il numero di Eulero “e” e ɸ² viene 1,0382912677…, un risultato molto simile a 1 + (1/ɸ² : 10) = 1,0381966; da ciò ne segue che ɸ²(1/ɸ² : 10) = 2,7180339850260408, una cifra che differisce da “e” di poco più di due millesimi; questo sembra molto importante in relazione al fatto che anche “e” sembra contenuto nelle misure della Grande Piramide per mezzo di ɸ, dato che se prendiamo la misura di un lato misurato in cubiti e la dividiamo per “e” troviamo che 440 : e = 161,8670629957179 : 100 = 1,61867062). Forse a questo punto nessuno si stupirà di scoprire che anche il rapporto fra l’angolo massimo e minimo della Terra rispetto all’eclittica e quello fra l’anno solare e quello delle fasi lunari stanno fra di loro in un rapporto che ha di nuovo parentele abbastanza strette con quello aureo. Infatti, 1,093023 : 1,03073 = 1,060435807631484. Se a questa cifra sottraiamo 1 e poi moltiplichiamo il risultato per 10 abbiamo un 0,604 che differisce da 1/ɸ = 0,618033 di poco più di un centesimo. Se il rapporto lo facciamo con il risultato di 2ɸ : π = 1,030072 abbiamo che 1,093023 : 1,030072 = 1,061113203737214. Ripetendo l’operazione fatta sopra con questo numero (cioè sottraendo 1 e moltiplicando il risultato per 10) abbiamo che la differenza con 1/ɸ risulta inferiore ai 7 millesimi, dato che 0,618033 – 0,611132 = 0,006901. Se teniamo presente l’inclinazione spirituale di queste persone, possiamo tranquillamente ipotizzare che queste relazioni, per quanto approssimate, rappresentassero per loro la conferma inoppugnabile che π e ɸ sono i numeri alla base di tutti i cicli cosmici, dato che l’ordine da loro stabilito sembra regnare, sia pure in modo complicato, anche in quei rapporti che appaiono del tutto accidentali, e dunque privi di qualsiasi significato matematico e religioso (naturalmente tenendo presente il concetto di religione si aveva nell’antichità, e non il nostro).

2) Per avere un’idea del rilievo che può avere una scoperta del genere per persone che attribuiscono ai rapporti matematici fra cicli cosmici un’enorme importanza religiosa, dobbiamo tener presente che un numero simile a quello che risulta dal rapporto fra i 365,25 giorni dell’anno solare e i 354,36 di quello delle fasi lunari risulta in modo approssimato anche facendo 5 volte la radice di ɸ, con cui arriviamo a una cifra pari a 1,03053.. con una differenza di poco più di 2 decimillesimi. Questo a sua volta significa che possiamo ottenere un’ottima approssimazione di π da ɸ trasformando l’equazione che abbiamo visto in 2ɸ : √(√(√(√ϕ) = 3,14018. Oppure, inversamente, possiamo ottenere un’ottima approssimazione di 2ɸ dall’equazione π x √(√(√(√π/2): dunque il rapporto fra la durata dell’anno solare e di quello delle fasi lunari sembra svelare anche delle relazioni segrete fra i due numeri, di modo che, avendo un certo tipo di credenze religiose, questo potrebbe ben rappresentare una rivelazione di rapporti parimenti segreti fra le divinità rappresentate dal Sole e dalla Luna. Teniamo presente che questa impressione può esser stata rafforzata dal fatto che anche il rapporto fra la durata effettiva dell’anno solare e i suoi giorni ritenuti “puri” da Antichi Egizi e Maya (360) ha delle connessioni con ɸ e π, dato che 365,25 : 360 = 1,0145833: questo numero risulta quasi uguale a 1 + [(1/ɸ)³ : 10] = 1,0145898; oppure, in modo più diretto, possiamo ottenerlo anche con √(√(√(√(√(π/2) = 1,0142119 con una differenza dell’ordine di due decimillesimi. Inoltre, l’impressione di un rapporto esoterico fra questi numeri può essere stata rafforzata dal fatto che anche mettendo i giorni “puri” del calendario solare in rapporto ai giorni del calendario delle fasi lunari otteniamo di nuovo un numero significativo in relazione a ɸ, dato che 360 : 354,36 = 1,015916 è un risultato che possiamo ottenere con un’ottima approssimazione anche da √(√(√(√(√ɸ) = 1,01515, con una differenza di circa 8 decimillesimi. Dunque il 360 si pone come una sorta di numero capace di rapportarsi in modo simile tanto con la durata dell’anno solare che con quello delle fasi lunari, quasi come una sorta di divinità intermedia, capace di riassumere in sé i poteri magico-numerologici delle altre due: il tutto può alludere a una sorta consustanzialità delle molteplici divinità celesti che, pur essendo molte, alla fine possono sembrare tutte derivate da un’unità originaria (e questa era precisamente una credenza Antico Egizia). In effetti, quel mito citato da Frazer ne “Il Ramo d’Oro”, in cui Iside riesce con uno stratagemma a impadronirsi del nome segreto del dio Sole Ra allude forse al fatto che Sirio, la stella che era un avatar astronomico molto importante di questa divinità (un altro come noto era la Luna), nell’Antico Egitto aveva un ciclo che durava in modo praticamente identico a quello del Sole (365,25 giorni). Dunque “il nome segreto di Ra” potevano essere proprio quei numeri sacri – π e ɸ – e quei rapporti da cui si può dedurre la durata del ciclo solare. Se le cose stanno così, è chiaro che insieme ai numeri Iside si impadronirebbe del “potere di Ra” sui cicli cosmici, sulla loro durata e dunque della loro segreta armonia. Ma, oltre a ciò, possiamo pensare che a π e a ɸ si connettesse anche quella “magia pratica” che al tempo era considerata probabilmente la scienza empirica. Infatti nei numeri connessi ai cicli cosmici vi erano anche i fondamenti di quelle leggi matematiche che consentivano all’uomo di avere potere sulla natura. Questo modo di guardare alla scienza, per quanto diverso dal nostro, alla fine non ci dovrebbe stupire poi nemmeno troppo, dato che una fenomenologia del genere si è verificata anche nel caso dello sviluppo della scienza moderna, sia pure in una direzione che pare opposta. Infatti, anche l’attuale e laicissima scienza occidentale è derivata da indagini che originariamente erano di tipo esclusivamente o quasi esclusivamente astronomico: non ci dobbiamo dimenticare che la prima grande espressione della nostra dinamica è stata proprio la legge di gravitazione universale, da cui sono poi derivate tutte le altre (almeno dal punto di vista metodologico). Alla fine, il potere che abbiamo sulla natura ci deriva dall’interesse di stampo religioso o quasi-religioso che gente come Galileo e Keplero aveva per le “sfere celesti”, viste ancora ai loro tempi come sede del divino e capaci di influenzare il destino dell’uomo (spesso ci scordiamo che Galileo scrisse altrettanto di astrologia che di astronomia e non chiaro per nulla, al di fuori dei nostri solidissimi pregiudizi culturali, se l’astrologia fosse da lui considerata solo un modo per metter su un po’ di soldi: oggi dei prestigiosissimi intellettuali atei sostengono che la matematica è contraria allo spirito religioso, e si scordano che persino nell’ambito della nostra cultura molti dei più grandi matematici (Pascal, Cartesio e Newton, tanto per fare dei nomi che tutti conoscono) sono stati al contempo anche delle persone profondamente religiose).

3) Se teniamo conto di questo, nessuno si stupirà di scoprire che il calendario Antico Egizio fu istituito in modo tale che proporzioni connesse al numero d’oro si possano in vario modo ritrovare nei rapporti fra le su parti costitutive. Per esempio, noi sappiamo che i 360 giorni “puri” del calendario solare erano divisi in 12 mesi di 30 giorni ciascuno, a cui erano aggiunti i 5 giorni “maledetti” (ricordiamo che il numero d’oro è profondamente connesso con il 5, dato che lo si può ricavare dalla formula ɸ = (√5 + 1) : 2; dopo quello che abbiamo visto sopra risulta chiaro che dalla radice di 5 possiamo ricavare anche un’ottima approssimazione al ɸ). Se dividiamo il numero dei giorni del mese per il numero dei mesi e aggiungiamo al risultato la cifra che risulta dai 5 giorni maledetti divisi per il numero dei giorni di un mese troviamo che (30 : 12) + (5 : 30) = 2,5 + 0,1666… = 2,61666…, ovvero un numero che differisce da ɸ² di meno di un millesimo e mezzo, dato che ɸ² è uguale a 2,618033. Oppure, se andiamo a vedere la sezione aurea dei 360 giorni “puri” troviamo che essa si situa nel 222,49simo giorno dell’anno, cioè alla metà del tredicesimo giorno dell’ottavo mese. Se dividiamo 13 per 8 troviamo un numero che di nuovo si avvicina molto al numero d’oro, una cosa che risulta immediatamente anche dalla constatazione che il 13 e l’8 sono rispettivamente il sesto e il settimo numero della serie di Fibonacci: infatti 13 : 8 = 1,625, cioè una cifra che differisce dal numero d’oro di soli 7 millesimi. Se dall’Antico Egitto ci spostiamo in Sud America e andiamo a dare un occhiata al sistema Maya Haab’-Tzolkin troviamo che il primo calendario – quello Haab’ corrispondente a un anno solare – era formato da 18 mesi di 20 giorni ciascuno (con un totale di 360 giorni che sommati ai 5 giorni “maledetti”danno i 365 dell’anno solare), mentre il secondo, quello Tzolkin, era formato da 20 mesi di 13 giorni ciascuno. Se dividiamo il numero dei giorni del mese per il numero dei mesi del calendario Haab’ e inversamente, nel caso di quello Tzolkin, il numero dei mesi per il numero dei giorni di un mese e poi facciamo la somma abbiamo che (20 : 18) + (20 : 13) = 1,111… + 1,5384… = 2,6495, cioè un numero ancora una volta abbastanza vicino a ɸ² (la sua radice risulta 1,6277, con una differenza rispetto al numero d’oro di un po’ meno di un centesimo). Inoltre, nel caso del calendario Maya, dividendo il numero tipico del calendario Haab’ con quello tipico del calendario Tzolkin (cioè il 18 e il 13) abbiamo che 18 : 13 = 1,3846…, una cifra più o meno pari al risultato dell’equazione 1 + (1 – 1/ɸ) = 1 + 0,381966 = 1,381966. L’inverso di questo rapporto da luogo a 0,7222…, cioè un numero pari a un centesimo della durata espressa in anni solari di quell’unità di tempo fondamentale per i popoli antichi che abbiamo definito sopra come un Giorno Precessionale, e che, sia pure in modo complesso, abbiamo constatato essere in relazione con alcune costanti scientifiche. Sapendo questo, ne dobbiamo dedurre che anche nel rapporto fra il 18 e il 13 dovremmo essere in grado di individuare queste relazioni. E infatti, tanto per fare un esempio del tutto ovvio, il risultato di 18/13 – se moltiplicato per 100 ci da il numero tipico del Giorno Precessionale – inversamente, diviso per 100 da 0,0072222…., cioè un numero molto simile a 1/137,036 che è il numero che esprime la forza elettromagnetica attiva fra due elettroni, con una differenza di 0,7 decimillesimi.

4) Il 18 e il 13 hanno anche altri interessanti risvolti di tipo numerologico-astronomico. Per esempio, se sommiamo i risultati di 18/13 e 13/18 abbiamo che 1,3846 + 0,7222 = 2,1068, un numero che differisce di poco più di 5 millesimi dal risultato del rapporto fra il ciclo di retrogradazione dei nodi della Luna (18,61 anni solari) e quello in cui la Luna compie un giro completo rispetto alla posizione delle stelle sulla sfera celeste (8,8564 anni solari) dato che 18,61 : 8,8564 = 2,1013. Ma i risultati più importanti saltano fuori se rapportiamo questi numeri ai 47 e 43 gradi che, come abbiamo già visto, costituiscono rispettivamente il minimo e il massimo angolo fra i solstizi durante un ciclo precessionale. Cominciando con l’analizzare i rapporti numerologici del 18 (successivamente vedremo anche il 13) con questi angoli possiamo partire dall’analisi di un dettaglio del paesaggio sacro Sudamericano forse più famoso, Teotihuacan, che possiamo vedere nella piantina sottostante

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Come ben si vede la Piramide del Sole e quella della Luna stanno fra di loro inclinate di 18° in relazione all’asse della struttura, rappresentato dal Viale dei Morti. Se dividiamo i 47° gradi dell’angolo fra i due solstizi per questi 18° abbiamo che 47 : 18 = 2,6111, cioè un numero vicinissimo al quadrato del numero d’oro (2,618033, con meno di 7 millesimi di differenza). Dunque questi 18° risulterebbero una sezione aurea, diciamo così,un po’ strana dell’angolo fra i due solstizi. Ma, come subito si nota, 18° rappresentano anche un ventesimo dell’angolo giro. L’angolo giro possiamo infatti pensarlo come composto da 20 parti di 18° ciascuna e questa suddivisione suggerisce un rapporto con la suddivisione dei 360 giorni “puri” dell’anno Haab’ che, come abbiamo visto, sono suddivisi in 18 mesi di 20 giorni ciascuno. Osservando queste due suddivisioni che possiamo definire uguali e contrarie dello stesso numero, il 360, sembra di poter capire che in questo modo si sia voluta creare una sorta di armonia inversa fra la ventesima parte dell’angolo giro e la diciottesima parte dei giorni puri dell’anno solare. Questo potrebbe voler dire che i 18° di inclinazione fra le due Piramidi di Teotihuacan si riferiscono alla ventesima parte del giro compiuto dal Sole lungo lo zodiaco durante il ciclo precessionale, che come abbiamo visto ha una direzione inversa rispetto a quello annuale. Dunque questi 18° potrebbero rappresentare anche la durata di un mese precessionale che dovrebbe essere pari a 26000 : 20 = 1300 anni solari che sono a loro volta pari a 250 Grandi Anni (nel sistema Maya era infatti molto importante, come vedremo bene in un lavoro successivo, un periodo di 52 anni solari Haab’ che veniva chiamato appunto Grande Anno). Naturalmente, tutto quello che abbiamo detto riguardo ai 18° di inclinazione fra la Piramide del Sole e quella della Luna a Teotihuacan, numerologicamente parlando, vale anche per il 18 in quanto numero tipico del calendario Haab’. E anche il 13, il numero tipico del calendario Tzolkin, intrattiene col 47 dei rapporti connessi col numero d’oro. Infatti, 47 : 13 = 3,61538, una cifra che risulta vicinissima al risultato dell’equazione 1 + ɸ² (la differenza è inferiore ai 3 millesimi).

5) Ma, come abbiamo già visto, se 47° è il valore dell’angolo massimo tra i solstizi durante un ciclo precessionale, quello minimo risulta di circa 43°: e anche in questo caso scopriamo che i due numeri tipici del calendario Maya hanno con questo numero una relazione di tipo aureo. Abbiamo infatti che 43 : 18 = 2,3888 cioè un valore che assomiglia molto al risultato dell’equazione ɸ² – (1/ɸ)³ che è 2,381966, con una differenza di soli 7 millesimi. Invece se dividiamo i 43 gradi per 13 abbiamo che 43 : 13 = 3,30769, cioè un numero che risulta molto simile al risultato di “e” + ɸ = 3,3363, con una differenza che in questo caso è di circa 3 centesimi (ricordiamo di aver individuato poco sopra la connessione fra “e” e le misure della Grande Piramide: questo potrebbe essere molto importante in relazione al fatto che Giza e Teotihuacan potrebbero aver avuto origine da una concezione molto simile della matematica e dell’astronomia). Il numero d’oro e il Pi greco sembrano inoltre in grado di gettar luce anche sull’enigma dell’orientamento “sbagliato” di Teotihuacan, un luogo progettato secondo assi molto inconsueti che forse il lettore avrà intravisto nell’immagine che abbiamo mostrato sopra “Il progettista decise che la città andava costruita secondo una griglia orientata a dei “punti cardinali”. Solo che i “punti cardinali” li decise lui: invece del nord usò la direzione 15.5 gradi nord-est e invece dell’est usò la direzione 16.5 gradi sud-est. (..) È come se per qualche motivo esistessero un “asse nord-sud teotihuacano” spostato di 15.5 gradi a est del nostro, sul quale fu orientato il Viale dei Morti, e un asse “est-ovest teotihuacano” spostato di 16.5 gradi a sud rispetto al nostro. (..) La precisione con cui gli allineamenti furono realizzati dimostra che il fatto che l’angolo tra l’asse T-nord-T-sud e l’asse T-est-Tovest non sia retto (cioè di 90 gradi) ma invece di 91 gradi è certamente intenzionale e non fu dovuto a errori.” Giulio Magli, Misteri e Scoperte dell’Archeoastronomia, Newton Compton, p. 172 Per analizzare questo problema possiamo partire dalla constatazione che se dividiamo un anno solare per il resto di 5,25 giorni che troviamo fra i 360 giorni “puri” del calendario Haab’ e la sua durata effettiva di 365,25 arriviamo a scoprire un rapporto piuttosto interessante. Possiamo infatti considerare un anno solare di 365,25 giorni invece che come un periodo di tempo come un angolo di 365°,25, e se lo dividiamo per i 5,25 gradi-giorni che lo differenziano da un angolo di 360° ecco che otteniamo un risultato pari a 365°,25 : 5°,25 = 69°,5714, ovvero un angolo molto simile a quello caratteristico del Circolo Megalitico di Nabta Playa che, come abbiamo visto in The Snefru Code part. 5, è praticamente pari alla sezione aurea del mezzo giro, cioè dell’angolo di 180°. Ma se adesso dividiamo per questi stessi 5°,25 i 16,5° di deviazione a Sud dell’asse Est-Ovest teotihuacano, è forse con un certo grado di incredulità che scopriamo di ottenere un’approssimazione a π che sembra assolutamente identica a quella che nella Grande Piramide è espressa dal rapporto fra la metà del perimetro e l’altezza. Infatti 16,5 : 5,25 = 22/7 = 3,142857. E questo dato pare confermare l’ipotesi che si è fatta in un recente articolo di World Mysteries, in cui si fa notare che la disposizione delle due Piramidi a Teotihuacan ha dei connotati tali che le rendono sovrapponibili a quella di Cheope e di Micerino come possiamo vedere nelle foto sottostanti

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L’argomento, come subito si comprende, è davvero di grandissimo interesse, ma per ragioni di spazio rimandiamo a The Snefru Code part. 8 l’analisi dei possibili rapporti fra la civiltà Antico Egizia e quelle Precolombiane. Continuando invece nella nostra analisi, se dividiamo l’angolo minimo raggiunto fra i solstizi durante il ciclo precessionale (43°) per i 16,5° dell’orientazione Est-Ovest “sbagliata” di Teotihuacan si arriva di nuovo a una buona approssimazione di ɸ², dato che 43 : 16,5 = 2,606, con una differenza di circa 12 millesimi dalla cifra esatta. Quanto ai 15,5 gradi di deviazione a Est dell’asse Nord-Sud teotihuacano, se dividiamo il valore minimo formato dall’asse polare della terra rispetto al polo dell’eclittica per questo valore vediamo che 21,5 : 15,5 = 1,387096 cioè un valore che è più o meno pari a ɸ – (1/ɸ)³ = 1,381966, con una differenza di circa 5 millesimi. Il significato di questo rapporto pare confermato dal fatto che se dividiamo i 365,25 giorni di un anno solare per questi stessi 15°,5 otteniamo un valore 23°,56, che risulta quasi identico questa volta alla massima inclinazione del polo terrestre rispetto a quello dell’eclittica. Dai dati dell’orientamento “sbagliato” di Teotihuacan si può dedurre che fra l’asse Nord-Sud e quello Est-Ovest vi sono 91° invece degli usuali 90°. Possiamo interpretare questo strano numero, a prima vista molto enigmatico, associandolo ai 91 scalini che a Chichen Itza formano la scalinata lungo ognuno dei quattro lati della Piramide, che sono stati interpretati come un quarto di un anno solare di 364 giorni. Però, mentre a Chichen Itza il 365simo è rappresentato dal terrazzo che si trova in cima alla Piramide, a Teotihuacan non è chiaro come si possa completare l’immagine dell’anno solare (forse ci si può arrivare integrando nell’interpretazione anche le cosiddette “pecked cross”, che in effetti sembrano dei calendari lunari, ma bisogna riconoscere che si tratta di un’operazione molto complicata).

6) Comunque sia, constatando che i rapporti fra i vari cicli celesti e i relativi calendari (e considerando che anche paesaggi sacri come Giza e Teotihuacan possono essere senz’altro considerati come dei giganteschi calendari di pietra) trovano una sorta di comun denominatore in π e ɸ viene spontaneo supporre che nel passato questi numeri siano stati riferiti alle divinità principali, in particolare al Sole e alla Luna, e immaginati come i loro “nomi segreti”: e a questo punto della nostra indagine siamo in grado di capire come mai nell’antichità era diffusa la credenza che conoscendo i “nomi segreti” delle cose si acquistasse potere su di esse, persino nel caso si trattasse divinità potentissime. Il potere a cui si alludeva non era quello che noi siamo portati a definire più propriamente magico, ma invece un potere del tutto simile a quello che la conoscenza scientifica da agli scienziati. Se il “nome segreto” di Ra era formato da quelle entità matematiche – vale a dire π e ɸ – che costituivano anche l’essenza di ogni legge che noi oggi chiameremmo “scientifica”, allora questi nomi erano non soltanto in grado di svelare la segreta armonia dei cicli cosmici, ma anche di conferire ai loro conoscitori il potere di condividere e padroneggiare le forze divine che li muovevano. Alla fine, quel che distingueva il sapere scientifico di queste persone dal nostro non era il suo contenuto, ma l’atteggiamento spirituale che si aveva verso la sua forma matematica, che veniva sentita come una rivelazione dell’essenza della mente divina, e dunque come qualcosa di profondamente sacro. E, anzi, da quel che si può capire, nell’ambito di molte culture antiche i numeri erano vissuti come i simboli religiosi più possenti e temuti, gelosamente custoditi e oggetto di una trasmissione esclusivamente orale-esoterica: il che può spiegare in modo convincente il motivo per cui questo sapere matematico e scientifico non abbia lasciato altre tracce che quei possenti monumenti in pietra che ancora quasi intatti restano a sfidare il trascorrere dei millenni (ci sono ricerche scientifiche molto serie che sostengono che fra cinque-diecimila anni gli unici monumenti di cui si potrà ritrovare ancora traccia sulla terra saranno ancora una volta le Piramidi di Giza e Dahshur, oppure mura come quelle di Cuzco o di Ollantaytambo). Una volta compreso questo possiamo capire come possa essere avvenuta una simbiosi fra astronomia e geometria intese come fondamenti della teologia e di tutte le scienze empiriche che appare davvero straordinaria, affascinante anche per un uomo moderno, che giustifica senz’altro nell’uomo antico quella passione per l’armonia fra i calendari e la numerologia che a noi è risultata fino ad adesso così difficilmente comprensibile. Infatti, dato che a partire dai numeri dei cicli cosmici fondamentali si arriva sempre in qualche modo a π e a ɸ risulta naturale l’ipotesi che gli antichi scienziati pensassero che tali numeri dovessero essere in qualche modo “nascosti” in quanto matrici anche nelle costanti di leggi scientifiche che “prima facie” non hanno alcuna relazione con l’astronomia. E abbiamo ben visto che questa credenza risulta matematicamente dimostrabile, sia pure con qualche piccolo ostacolo che si può facilmente aggirare con quelle che noi chiameremmo delle “correzioni sperimentali”, a cui queste persone potevano senz’altro attribuire ancora una volta un significato religioso. Per quanto riguarda la legge di Newton avremmo che la forza di attrazione gravitazionale – riscritta per mezzo di π e ɸ – potrebbe apparire – per esempio – in questo modo F = G (m1 x m2) : d² = [(πDjedefre x ɸ) + ɸ] x [(m1 x m2)] : d² Oppure, se prendiamo una delle formule più comuni della meccanica quantistica – quella usata per il calcolo dell’energia di un’onda, E = nħω – e quella classica di Einstein, in cui l’energia si calcola con E = mc², possiamo farle oggetto di un’interessante trasformazione, in specie se teniamo conto che nella formula della meccanica quantistica π è già presente, sia pure in modo non esplicito, dato che ω=2πν. Dunque la stessa formula si può scrivere per esteso in questo modo: E = nħ2πν. Utilizzando il valore di ħ che abbiamo ottenuto sopra per mezzo di una funzione di ɸ questa formula sarebbe riscritta in modo tale che quella sorta di abisso gnoseologico che la divide da quella di Einstein tenderebbe a trascolorare nella dipendenza che in entrambe scopriremmo da π e ɸ, intese come costanti universali. Il calcolo dell’energia in queste due teorie, a dispetto della diversità logico-matematica, tornerebbe ad avere qualcosa in comune (per motivi di comodità escludiamo i moltiplicatori basati sulle potenze del 10) E = nħω = nħ2πν = n {[1 + (1 – 1/)³] 2π} ν

E = mc² = m [ – (1 – 1/)²]²

7) Ma il processo di generalizzazione potrebbe non fermarsi qui perché, come abbiamo visto, potremmo arrivare a ottenere tanto π che ɸ per mezzo dei numeri del ciclo solare e di quello delle fasi lunari. Considerando che questi cicli e i calendari connessi erano dei simboli del Sole e della Luna intesi come divinità, avremmo che nelle teorie scientifiche e matematiche Antico Egizie erano inseriti dei simboli religiosi in senso strettissimo. Questo ci spiegherebbe abbondantemente perché queste persone non sentissero alcuna differenza fra matematica, geometria, numerologia, astrologia, astronomia e scienza empirica in generale: perché tutte queste non erano per loro altro che differenti branche di una medesima scienza, la teologia, che tutte le implicava e le riuniva sul fondamento di π e ɸ intesi come costanti universali presenti nella mente di Dio, e dunque come Legge di tutte le leggi. Seguendo il filo logico dettato da questa ipotesi possiamo immaginare che in questo genere di scienza i valori costanti – derivati unitariamente da ɸ e da π – dovessero avere un ruolo, diciamo così, “ideologico” assolutamente predominante rispetto a quello delle variabili, perché in un contesto del genere si poteva attribuire loro la potenza magico-divina di muovere il mondo. Questo è un modo di pensare in cui la contraddizione fra determinismo e indeterminismo – che caratterizza lo stato attuale della nostra scienza e della nostra ricerca scientifica – poteva non risultare quel dramma gnoseologico di cui invece fu la causa, quando al principio del secolo scorso venne scoperta da scienziati cresciuti nel culto dell’infallibilità del determinismo di stile newtoniano (e che resta quello con cui almeno in parte la sentiamo anche oggi). Al contrario, questa contraddizione poteva essere vista come un’apparenza, o come una cosa senza importanza, ed essere trascesa nell’adorazione di ciò che fra le diversi leggi vi era in comune, cioè di quel potere divino di cui in π e ɸ si vedeva l’espressione sacro-matematica. In effetti, se si vedono π e ɸ come gli strumenti attraverso i quali Dio o gli dèi muovono il cosmo, allora il fatto che da un lato vi sia una “magia divina” caratterizzata da continuità e determinismo e dall’altro una “magia divina” in cui invece regnano la discontinuità e l’indeterminismo, può risultare senz’altro un dettaglio trascurabile. In entrambi i casi, chi creda che sia la volontà divina la causa efficiente dell’eterno ritorno dei cicli celesti e di ciò che nel mondo come loro segno e riflesso accade, anche può credere (e dal suo punto di vista con ogni sorta di buona ragione) che Dio agisca in casi diversi attraverso la potenza magica di leggi che, per quanto apparentemente diverse, hanno una comune radice nei numeri fondamentali che sono nella sua mente (o che forse sono la sua mente stessa). A ben vedere, questa ipotesi storica potrebbe avere un qualche effetto anche sulla nostra attuale comprensione della scienza. Si pensi di prendere una tabella con tutte le costanti fondamentali dove, invece che come numeri qualsiasi, apparissero come funzioni di ɸ e di π. Queste funzioni apparirebbero senz’altro in rapporti molto stretti, addirittura si potrebbe pensare di derivarle tutte da una matrice comune, e di adattarle alla realtà empirica per mezzo di correzioni che, come abbiamo visto, in certi casi sono davvero trascurabili. Una tavola delle costanti organizzata in questo modo contribuirebbe a far sì che la scienza (viene spontaneo dire: come per magia) non ci apparirebbe più come un guazzabuglio di tecniche di calcolo venute fuori chissà come e applicate a seconda della maggiore o minor comodità ed esigenza di esattezza, ma come una struttura che, ovunque la si guardi, conserva una fondamentale unità attorno a due soli numeri fondamentali. Con ciò avremmo scoperto il motivo per cui nei rapporti fra le parti della Grande Piramide troviamo continuamente π e ɸ: perché la Grande Piramide è un monumento che fu costruito proprio per esprimere l’idea che tutto quanto accade nell’universo deriva da funzioni di π e ɸ.

8) Questo è un modo di vedere che “prima facie” può risultare assurdo a un uomo moderno, perché ci può sembrare un tipico esempio di ciò che con un certo disprezzo definiamo “il pensiero magico”, che noi crediamo di aver completamente abbandonato da almeno un paio di secoli. Ma riflettiamo bene: noi, allo stato attuale, e proprio come un dato scientifico, crediamo che la massa possa agire attraverso il vuoto su altra massa a una distanza potenzialmente infinita: fu proprio questa conseguenza della sua teoria che spinse Newton a scrivere la celebre frase “ipotesi non fingo”, che significava semplicemente che una cosa del genere non si può affatto spiegare con ipotesi scientifiche, ma solo con la magia (ricordiamo che al tempo di Newton qualcosa come “un’azione a distanza” era considerata inammissibile, dato che allora si credeva comunemente che una causa fisica potesse essere concepita solo come l’urto di un pezzo di materia su un altro pezzo di materia: si pensi che Cartesio spiegava il magnetismo con “atomi-vite” che girando attorno alla Terra quando trovavano corpi contenenti “atomi-dado” causavano quel fenomeno di attrazione che nel presente si spiega invece con l’immagine del campo magnetico, cioè con l’idea di un’azione a distanza). Oppure, quanto al mondo microscopico, noi crediamo che gli elettroni e il nucleo stiano fra di loro in relazione di equilibrio dinamico perché si scambiano continuamente fotoni: un concetto che, sul piano macroscopico, risulta una cosa tanto ovvia come pensare che un palazzo stia insieme perché i condomini si scambiano continuamente l’appartamento. In generale, chiunque conosca in modo anche non profondissimo gli esperimenti della meccanica quantistica, sarà al corrente di numerosi fenomeni che non hanno nessuna relazione con il senso comune e invece moltissime con il tanto disprezzato “pensiero magico”: basta dare un’occhiata agli esperimenti sull’interferenza a due fessure per accorgersene (su questo tema Bohr ebbe a dire che “se uno comprende per la prima volta la meccanica quantistica e non ne rimane completamente sconvolto, questo significa che non ne ha capito nulla”). Come è già stato più volte notato da molti scienziati – Heisenberg compreso – delle cosiddette “forze” o “campi di forza” che immaginiamo come le cause dei fenomeni misurabili noi non conosciamo nulla di più che gli effetti, che sono appunto i fenomeni misurabili. Dunque quelle “forze” a cui li attribuiamo non risultano affatto in modo diretto e oggettivo dai dati sperimentali, anche se noi crediamo fermissimamente che ci siano, ma da ipotesi aggiuntive che questi effetti legano fra di loro secondo una regola matematica e secondo delle immagini quali appunto i “campi di forza” costituiti da “onde”. Ma oggi nel mondo scientifico si è ben consapevoli che queste immagini sono del tutto dispensabili, e che, per esempio, si potrebbero ricostruire tutti i fenomeni dell’elettromagnetismo facendo a meno dell’immagine delle onde e dei relativi campi di forze anche sul piano matematico (pur dovendo usare in questo caso delle equazioni più complicate e perciò anche più scomode: d’altra parte, non si dice molto spesso che “la verità è scomoda”? come si fa allora a dedurre la falsità di una teoria dalla sua pura e semplice scomodità? alla fine, si potrebbe arrivare a sostenere il contrario, e affermare che la scomodità di una teoria testimonia della sua maggior vicinanza alla verità). Consapevoli di questo, ci risulterà difficile sostenere che chi attribuisca il verificarsi dei fenomeni a dei “numeri-forza” invece che a delle “forze” sia davvero sostanzialmente diverso da noi. Effettivamente, dato il nostro contesto culturale, a tutti appare ragionevole attribuire il ruolo di causa efficiente a delle “forze”: ma in un contesto culturale completamente diverso sarebbe altrettanto ragionevole attribuire alla forza magica del 360 il moto annuale e precessionale del Sole lungo lo zodiaco. A ben vedere, a uno sguardo educato a trascurare i propri pregiudizi, un modo di pensare come questo non appare affatto più stupido e superstizioso di quello di chi crede, per esempio, che le stelle esterne delle galassie a spirale non vengano scagliate nel vuoto a causa di una sostanza – la “materia oscura” – che non si può in alcun modo misurare ma che però rappresenterebbe la stragrande maggioranza della materia che costituisce l’universo. Supponiamo di trovarci in un contesto culturale dove abbiamo appreso una versione della legge di Newton in cui la costante G appare come una funzione di π e ɸ: a questo punto sarebbe proprio una cosa da matti credere che l’azione di m1 su m2 avvenga per mezzo dell’azione magica di queste due costanti (che, lo ricordiamo, in un contesto del genere sarebbero presenti in tutte le altre leggi scientifiche) invece che attraverso una non meno magica “attrazione a distanza” che esisterebbe fra m1 e m2 (e che in nessun modo si può oggettivamente constatare)?

9) Quello che a noi viene spontaneo obbiettare a dei ragionamenti di questo genere è che a noi “i conti tornano”. Con questo intendiamo qualcosa come: “a dispetto di ogni paradosso noi possiamo operare per mezzo di una tecnica forgiata sulle basi delle nostre teorie matematiche: non stiamo solo lì a contare i giorni o i secoli che passano!”. D’altra parte, anche queste persone potrebbero dire la stessa cosa, dato che calcolando attraverso numeri ottenuti in altro modo si può arrivare agli stessi risultati a cui arriviamo noi. Quanto alla tecnica, un edificio come la Grande Piramide ci dimostra in modo non questionabile che queste persone ne avessero ricavata una molto efficiente dalle loro equazioni (anche se in questo momento non sappiamo dire esattamente in che cosa consistesse) che per di più possedeva dei tratti di straordinaria efficacia, che la nostra non ha ancora conosciuto e sulla quale a malapena siamo in grado di fare qualche ipotesi. Se poi riflettiamo sulle nostre credenze scientifiche – o su quelle che potremmo chiamare le nostre “immagini matematiche guida” – quanto al mondo microscopico in effetti non possiamo fare altro che ammettere che, consapevoli o meno che ne siamo, da decenni abbiamo abbandonato l’idea della natura come un meccanismo in favore di un’idea che ha parentele profondissime con il pensiero magico-numerologico. Per fare un esempio molto celebre, attraverso le formule della meccanica quantistica noi crediamo che una particella non sia un corpo materialmente esistente, ma una distribuzione di probabilità di poterla osservare: dunque noi crediamo anche che una particella sia un qualcosa che passa dall’esistenza astrattissima di un numero a quella concreta di un corpo (per quanto piccolo) nel momento in cui la misuriamo. E forse a un fisico educato nella visione classico-Newtoniana questa potrebbe apparire una sorta di blasfemia contro la razionalità ed il senso comune, dato che l’operazione di misura può sembrare un rituale magico con cui da un qualcosa che potremmo definire come un nulla matematizzato si crea qualcosa di realmente esistente. A parte questo, dall’immagine quantistica del mondo microscopico deriva come ulteriore conseguenza che se troviamo un elettrone nel punto “x” invece che nel punto “y”, oppure se scopriamo che una certa particella di uranio decade e un’altra no (pur essendo quanto al resto del tutto identiche) questo non dipende in senso proprio da delle “forze” (o almeno: non da delle forze deterministiche, i cui effetti siano aprioristicamente ed esattamente prevedibili). Addirittura, nel caso del collasso della funzione d’onda – in cui si teorizzano nulla di meno che effetti istantanei a distanze infinite – non si può più parlare di forze che si trasmettono da un punto all’altro dell’universo nemmeno in senso euristico, dato che fin dall’inizio Bohr ha spiegato questi fenomeni con legami di tipo olistico-simbolico (cioè, in ultima analisi, di tipo magico) che la teoria istituisce fra particelle generate in uno stato di “entanglement”. Queste affermazioni di Bohr suscitarono una fiera opposizione da parte di Einstein, che contro di esse lottò per tutta la sua vita anche se, ironia della sorte, fu proprio lui a suggerire a Heisenberg che “E’ la teoria a dirci cosa possiamo osservare”: ma la teoria è appunto un sistema di simboli matematici! Strano a dirsi, il punto di partenza per arrivare al principio di indeterminazione – e dunque all’abbandono di un mondo visto come un sistema di nessi causa-effetto in favore di un mondo visto come un nesso magico di simboli matematici – fu il pensiero del più celebre premio Nobel del secolo scorso, non quello di uno sciamano o di un sacerdote-astronomo, anche se le loro conclusioni non sembrano infine così diverse come si vorrebbe far credere. Supponiamo che un sacerdote-astronomo credesse che π e ɸ siano in grado di muovere il cosmo macroscopico come quello microscopico in quanto espressioni matematiche della volontà divina: davvero possiamo dire che si muovesse su un piano teoretico così enormemente diverso dal nostro? A ben vedere, anche un’onda di probabilità è un sistema di numeri, e non di forze. Dunque, non si vede dove sia la sostanziale e incolmabile diversità fra un sistema di credenze come il nostro e un altro in cui certi numeri particolari (che, si noti bene, entrano nelle equazioni come elementi fondamentali del calcolo) rivestono quel ruolo di “cause efficienti” che nella nostra scienza è attribuito, per esempio, ai numeri connessi a un’onda di probabilità.

10) La scoperta che le nostre costanti possono essere calcolate in quanto funzioni di π e di ɸ potrebbe avere anche delle conseguenze importanti quanto allo status delle nostre teorie, dato che a questo punto potremmo arrivare a ipotizzare che quei valori che consideriamo costanti possano invece variare secondo una certa regola, anche se per ora questa regola ci rimane ignota. E questa ipotesi potrebbe essere il punto di partenza per arrivare a risolvere dei problemi che fino a questo momento la nostra cosmologia ha lasciato in sospeso. Abbiamo accennato sopra al problema delle stelle esterne delle galassie a spirale, che in base ai calcoli che possiamo fare a partire dalle nostre equazioni dovrebbero essere scagliate nel vuoto intergalattico dalla forza centrifuga, mentre invece, a quanto pare, continuano a orbitare intorno al centro della Via Lattea, probabilmente da qualche miliardo di anni. Ma se ipotizziamo che G non sia un numero costante valido in tutto l’universo, ma il risultato di una funzione che cresce in proporzione al valore della distanza fra le masse in gioco e al numero d’oro, potremmo in questo modo gettare le basi della comprensione matematica di quella tipica figura – la spirale di Fibonacci – che caratterizza tutte le galassie di questo tipo

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Che cosa significa questo ragionamento? Che la figura che vediamo disegnata nello spazio da galassie a spirale come quelle che possiamo vedere nelle immagini sopra potrebbe corrispondere al diagramma di accrescimento della costante G all’aumentare della distanza dei corpi celesti dal buco nero che si suppone che sia al centro di ogni galassia di questo tipo: e questo diagramma di accrescimento dovrebbe corrispondere in qualche modo alla formula della spirale logaritmica aurea. L’aumento proporzionale di G in base a una funzione fondata su ɸ e sulla distanza farebbe in modo che il fattore di diminuzione del campo gravitazionale rappresentato da “d²” – verrebbe parzialmente controbilanciato. In questo modo potremmo spiegarci il motivo per cui le stelle esterne delle galassie risultino sottoposte a una forza di gravità di intensità maggiore di quella che possiamo calcolare in base alle nostre formule attuali facendo a meno di un concetto tanto problematico come quello di “materia oscura”, che sembra creare più problemi di quanti non ne risolva. E che agli estremi della galassia il campo gravitazionale debba essere più intenso di come siamo portati a credere in base alle formule in nostro possesso risulta evidente non solo dal fatto che le stelle esterne non vengono scagliate nel vuoto intergalattico, ma anche dal fatto che le parti estreme della spirale galattica sembrano come ritornare verso il centro: quasi che, al momento in cui sono state catturate dal buco nero abbiano dapprima, per così dire, tentato di continuare la loro corsa verso l’esterno, ma che poi, perdendo massa e dunque energia cinetica lungo il percorso, siano infine come “rimbalzate” nel campo gravitazionale del buco nero, tornando parzialmente indietro. Qualcuno potrebbe pensare che questo è un modo di risolvere un problema fisico con un’arbitraria alterazione dei calcoli per mezzo di strumenti matematici che non hanno nulla a che vedere con fenomeni osservabili. D’altra parte, la cosiddetta “materia oscura”, con cui in questo momento si cercano di spiegare i fenomeni osservabili, è un’entità che per definizione risulta non osservabile; né può sfuggire a nessuno il fatto che considerare il valore di G come una costante che vale in qualsiasi punto dell’universo è una mera supposizione aprioristica. A ben vedere, Newton ha inserito nella sua formula quel valore non perché corrispondesse a qualche entità oggettivamente misurabile, ma proprio perché era uno strumento per far tornare i calcoli: ma i suoi calcoli si riferivano appunto solo al sistema solare. Se ci volgiamo a oggetti di dimensioni cospicue come le galassie per mettere i conti a posto siamo del tutto liberi di ipotizzare che quella che riferita a sistemi gravitazionali di dimensione ridotta appare come una costante, proiettata su sistemi enormemente più grandi diventi una variabile. Scoprendo la funzione che regola l’accrescimento di G in base alla distanza non smentiremmo l’operato di Newton, ma lo porteremmo invece a compimento.

11) A queste riflessioni possiamo e dobbiamo aggiungerne anche un’altra che riguarda lo stato complessivo della nostra scienza empirica. Di fatto, noi conosciamo quattro forze fondamentali che non hanno fra di loro alcuna relazione matematicamente sensata e che in compenso mostrano delle differenze che le rendono apparentemente del tutto incompatibili. In particolare, tutti sappiamo che la massa attrae inevitabilmente altra massa, e non esiste un inverso di questo fenomeno, che invece è tipico delle forze elettromagnetiche: è anche per questo che non si riesce a trovare un nesso fra la forza di gravità e i fenomeni del magnetismo se non nel fattore di decrescimento dell’intensità della forza attrattiva (o, nel caso del magnetismo, anche repulsiva) rappresentato da “d²”. Ma oggi anche dall’archeologia ci viene la spinta a ipotizzare che la nostra teoria gravitazionale sia incompleta, dato che è molto difficile immaginare che quei colossi dal peso di molte centinaia di tonnellate che possiamo trovare in Egitto e in Sudamerica possano essere stati spostati in altro modo che attraverso un’inversione del segno del loro campo gravitazionale. Abbiamo visto sopra come le mille tonnellate della Pietra della Luna siano state spostate senza tutti quegli apparati industriali che a noi sarebbero assolutamente indispensabili anche solo per poter immaginare di farlo. Dunque un’impresa del genere può esser stata compiuta solo da chi fosse in qualche modo in grado di far sì che questa enorme massa si comportasse rispetto alla terra un po’ come fanno le cariche elettriche quando sono dello stesso segno, e manifestano la tendenza a respingersi. Solo in questo modo lo spostamento di questa pietra avrebbe potuto fare a meno di macchine gigantesche, che a loro volta presuppongono un apparato industriale in grado di produrle. Questo apparato a sua volta presuppone lo sfruttamento di carburante fossile per mezzo di miniere e pozzi petroliferi, di centrali per la produzione di energia elettrica, linee di alta tensione per portarla, un’industria chimica e metallurgica in grado di produrre tutte quelle sostanze artificiali necessarie anche a macchine solo minimamente evolute, e tutti gli altri elementi che sono stati e sono ancora indispensabili al nostro apparato tecnico, e di cui invece nel nostro passato preistorico non si trova la sia pur minima traccia. Ma, a ben vedere, anche in casi meno straordinari di questo di Baalbek siamo per molti motivi costretti a ipotizzare una scienza e una tecnologia molto sviluppate per renderci comprensibili certi resti archeologici che altrimenti risultano enigmatici, per non dire del tutto assurdi. Per esempio, il tempio del Sole che si trova a Ollantaytambo è stato costruito con pietre di dimensioni molto rilevanti, che sono state ottenute da una cava che si trova su un monte situato dal lato opposto della valle. Il percorso che porta dalla cava a Ollantaytambo è una mulattiera che scende fino a un fiume, che va guadato per poi di nuovo salire fino alla cima dove si trova il tempio, per un totale di circa cinque-sei chilometri di percorso ripido e accidentato. Il motivo per cui possiamo essere praticamente certi che i costruttori usarono queste strade, che a malapena potrebbero essere percorse da una jeep, è che ancora oggi vi si trovano delle pietre che sono state abbandonate lungo il percorso per motivi ignoti. Queste pietre furono battezzate dagli indigeni con un nome davvero molto significativo “pietre stanche”, alludendo oscuramente in questo modo a un mezzo di trasporto tale da far pensare che le pietre si muovessero da sole, senza il contributo della forza fisica degli esseri umani. Possiamo anche essere praticamente certi che il fiume veniva guadato perché non si sono ritrovati i resti di nessun ponte: e di un ponte in grado di sopportare decine di tonnellate di carico difficilmente si può credere che non rimanga proprio nessuna traccia. È vero che le “pietre stanche” sono di dimensioni inferiori rispetto a quelle che formano il tempio vero e proprio, però alcune sembrano arrivare intorno alla ventina di tonnellate di peso: e anche in casi come questi siamo obbligati a ipotizzare che chi le trasportava facesse ricorso a qualcosa come un’inversione del campo gravitazionale perché allo stato attuale, anche per spostare carichi di quel genere, la nostra tecnologia non potrebbe affatto lavorare su delle mulattiere ma, come minimo, su strade asfaltate realizzate a regola d’arte. Invece, per le pietre di dimensioni doppie o triple che di fatto sono state usate per costruire il tempio (che pesano almeno una cinquantina di tonnellate) a tutt’oggi non esiste nessuna macchina in grado – non diciamo di trasportarle per chilometri in salita e in discesa lungo delle mulattiere in certi punti molto ripide, come bisognerebbe fare a Ollantaytambo – ma anche solo di sollevarle e spostarle di pochi metri senza impianti che presuppongono una trasformazione complessiva del territorio. Si pensi che oggi come oggi le gru più potenti che abbiamo a disposizione possono spostare un massimo di circa 200 tonnellate di peso: però si tratta di apparati molto complicati e di dimensioni enormi (visti da una certa distanza sembrano alti come un palazzo), che per ogni operazione di spostamento richiedono settimane di preparazione e grandi spazi appositamente preparati, non certo mulattiere.

12) Dunque, partendo dalle nostre teorie fisiche e dalla nostra tecnica possiamo senz’altro definire un tempio come quello di Ollantaytambo (come peraltro la piattaforma di quello di Baalbek, o i colossi di Memnon, o le mura di Alatri) come degli oggetti impossibili. Oggetti impossibili che però sono lì, sotto i nostri occhi: blocchi del peso di centinaia di tonnellate sono stati di fatto trasportati e collocati lì dove ancor oggi si trovano, e questa constatazione ci costringe a ipotizzare che la nostra teoria gravitazionale sia incompleta, che un campo gravitazionale possa essere invertito, in modo simile a come facciamo con un campo magnetico (o addirittura che in una nuova teoria la forza di gravità possa diventare una parte o un’espressione delle forze elettromagnetiche). Questo può sembrarci sul momento qualcosa di assurdo o di impensabile, ma in altro modo non sembra possibile immaginare la costruzione di monumenti megalitici come quelli che si possono osservare in tutto il mondo senza una contemporanea trasformazione del territorio circostante in un impianto industriale più o meno esteso, che di fatto non risulta in nessun modo riscontrabile. Da questa constatazione potrebbe nascere un tentativo di evolvere la nostra teoria gravitazionale fino al punto di comprendere la natura di questa nuova forza, qualcosa come un polo negativo del campo gravitazionale, che fino a questo momento è sfuggita alla comprensione della nostra scienza empirica. Certo, ci rendiamo conto che tutte queste indicazioni possono apparire sul momento azzardate, ma la scoperta di un diagramma dello spazio-tempo criptato nello spazio sacro Antico Egizio rende un’indagine in questa direzione del tutto sensata: se poi l’insieme di queste ipotesi si riuscisse infine a verificarle, le conseguenze sarebbero davvero sconvolgenti. Avremmo allora che non solo Giza e Dahshur sarebbero l’immagine del cielo del Duat nel 10.500 a.C., ma anche che quel paesaggio sacro – nel tutto e nelle sue parti, nel suo corpo architettonico tridimensionale come nello spazio decorativo bidimensionale – sarebbe stato pensato e realizzato in modo tale da rappresentare un complesso di teorie fisiche, geometriche e matematiche immaginate come scienza del divino (perché sembra chiaro che, una volta accettata la presenza del diagramma dello spazio-tempo nella Grande Piramide, risulta poi difficile immaginare che gli Antichi Egizi non conoscessero anche tutte le altre teorie che ne sono il presupposto e la conseguenza fisico-matematica). Queste teorie, nate chissà come e chissà dove, erano destinate a svanire nell’oblio in modo per noi non più chiaro di quello con cui furono scoperte, per venire poi riscoperte in Occidente migliaia e migliaia di anni dopo, con forme e scopi diversi da quelli che avevano avuto fra i nostri lontani progenitori. Con tutto ciò avremmo dimostrato che – a dispetto della smisurata e sempre crescente potenza tecnica che la nostra scienza ci rende disponibile – la nostra ignoranza quanto a cosa sia l’uomo e quale sia il senso della sua presenza nel cosmo è ancora ben lungi dall’essere colmata.

APPENDICE 1: UN ABBOZZO DELLA TEORIA DEI CAMPI UNIFICATI PROBABILMENTE CODIFICATA NELLA GRANDE PIRAMIDE

1. Nel 1836-37 Howard Vyse, durante un periodo di scavi intrusivi compiuti sulla Grande Piramide per mezzo della dinamite, scoprì all’uscita del pozzo sud della Camera del Re (quello che punta alla Cintura di Orione) una piastra di ferro di forma rettangolare. Secondo la descrizione fornita da Hancock e Bauval, essa era lunga circa 304,8 millimetri, larga 101,6 e spessa 3. Anche a prima vista si può notare una proporzione vicina al 3 sembra avere un ruolo particolare nella loro determinazione. Dunque possiamo provare – come esperimento mentale – a ricostruire le sue dimensioni partendo da dei numeri che per gli Antichi Egizi erano molto importanti, supponendo che le misure siano state prese con un minimo di approssimazione. Così, supporremo che lo spessore sia stato determinato con la formula 2ɸ (oppure √5 + 1) e che dunque risultasse originariamente 3,23606… mm. Supporremo poi che la larghezza fosse determinata dalla formula 2ɸπ x 10, e che risultasse originariamente 101,66407… mm. Per quanto riguarda la lunghezza, visto che abbiamo trovato un diagramma della relatività codificato nella Grande Piramide, supporremo che sia stata determinata usando la costante che ci serve per calcolare la velocità della luce, che è pari a 2.9979246 (un numero dunque molto vicino al tre). Dunque la lunghezza risulterebbe dalla formula 2ɸπ x 10 x 2,9979246 = 304,7812. La differenza rispetto alla misura della lunghezza che di solito viene presa per buona sarebbe di poco meno di due decimi di millimetro. Se questo esperimento mentale corrispondesse alla realtà, avremmo che la velocità della luce non sarebbe stata codificata solo nelle misure della Grande Piramide, ma anche in questa solo apparentemente anonima piastra di ferro che era stata collocata all’estremità del Pozzo Sud della Camera del Re. Bouval e Hancock hanno fatto eseguire dei test sul metallo, test che hanno dimostrato che il ferro non era di origine meteoritica e che, molto probabilmente, in origine era stato dorato. Quest’ultimo fatto è molto importante in relazione alla nostra ipotesi, perché l’oro lo possiamo considerare una metafora della luce, di cui la piastra conterrebbe una caratteristica fondamentale. Nemmeno possiamo escludere l’ipotesi che anche gli altri numeri che caratterizzano l’oggetto contengano informazioni scientifico-astronomiche. Il caso del sarcofago della Camera del Re ci insegna che in delle misure, che nella nostra cultura sono ritenute banali, possono essere contenuti dati scientifici che per quelle genti erano importanti, anche e soprattutto perché ritenuti direttamente connessi con la creazione intesa come progetto di un divino architetto. Vedremo meglio queste cose in The Snefru Code part 7. Per adesso ci limitiamo a un solo esempio, che però riteniamo molto significativo. Se prendiamo la lunghezza della piastra in decimetri vediamo che essa risulta 3,047822. Se facciamo il rapporto fra π e questo numero abbiamo che π : 3,047822 = 1,030766, una cifra che pare a prima vista del tutto insignificante. Che dire poi, quando scopriamo che il rapporto numero di giorni di un anno solare (365,25) e quello di un anno di fasi lunari (354,36) ci da un numero praticamente uguale a questo, vale a dire una cifra pari a 1,03073… ? Un numero molto simile risulta anche da 2ɸ : π = 3,236… : 3,141… = 1,030072… e naturalmente anche da ɸ : π/2. Inoltre, prendendo ogni millimetro come l’equivalente di un milione di chilometri, vediamo che i 304,78 mm di lunghezza corrispondono in modo quasi perfetto a due volte la distanza massima fra il Sole e la Terra, che è pari a 152,1 milioni di chilometri (x 2 = 304,2). Possiamo anche notare che, in termini numerologici, vi è una grande somiglianza fra la distanza media della Terra dal Sole e la velocità della luce divisa per due (149,5978875 contro 149,89623). Una cosa per noi priva di qualsiasi importanza, ma che per quelle persone poteva avere un significato importantissimo.

2. Ricordiamo inoltre che il Pozzo Sud della Camera del Re è quello che punta alla Cintura di Orione. Alnilam, la stella centrale e più luminosa, dista dalla Terra circa 1000 anni luce. Intendendo ogni decimo di millimetro come un anno luce, potremmo supporre che la larghezza della piastra (1016 decimi di millimetro) rappresenti la distanza fra la Terra e Alnilam in anni luce (cioè in termini di tempo), mentre la lunghezza rappresenterebbe quella in termini spaziali (dato che la lunghezza risulta dalla larghezza moltiplicata per la costante da cui si ricava la velocità della luce). Non è impossibile che anche le dimensioni della Camera del Re e di quella della Regina e quelle dei Pozzi Stellari contengano simili riferimenti a Orione e/o ad altre stelle e costellazioni che per gli Antichi Egizi erano molto importanti. Per esempio , la sua lunghezza (che si misura lungo l’asse Est-Ovest) è di circa 10 metri: se prendiamo ogni decimetro di questa misura come un anno luce, abbiamo ancora una volta la distanza fra la Terra e Alnilam (teniamo presente che a Giza, all’equinozio di primavera, Orione sorge in direzione est). Altri dati interessanti si possono ricavare dagli angoli caratteristici delle Piramidi. Per esempio, l’angolo di base della Piramide Romboidale risulta di circa 54°30’. Se con un’operazione numerologica trasformiamo i sessantesimi di grado in centesimi di grado, abbiamo un angolo praticamente identico a 54°303… Se sommiamo seno e coseno di quest’angolo abbiamo la radice cubica del numero di Eulero “e” dato che cos. 54°,303… + sen. 54°,303… = 0,583498… + 0,8121140 = 1,39561…, che elevato al cubo ci da 2,71828…, cioè appunto il numero di Eulero. Questo numero lo troviamo codificato anche nelle misure della Grande Piramide, dato che il lato misura 440 cubiti. E 440 : 2,71828… = 161,8670629957179. Dividendo questo numero per 100 abbiamo 1,61867062. Ma il numero d’oro risulta 1,618033…, e il numero d’oro approssimato che si può ricavare dalla Grande Piramide è uguale a 1,61859… L’angolo di base della Piramide di Micerino è invece di 51°,367. La tangente di questo angolo è pari a 1,2511, un numero molto simile a √π/2 = 1,25331…. (se la tangente è uguale a √π/2 l’angolo risulta 51°,4141) L’angolo di base della Piramide Rossa è di circa 43°35. Moltiplicandolo per 2 arriviamo a un angolo di circa 86°,7812…: in questo caso la somma di seno e coseno ci da 0,998422… + 0,056149… = 1,054571…, che è il valore di ħ, la variante della costante di Plank messa a punto da Dirac che, come vedremo, nel corso di questo lavoro ci diventerà infine sorprendentemente familiare. Un’ottima approssimazione a ħ viene anche da 9√ɸ = 1,054923…, e anche la sommatoria di seno, coseno e tangente di un angolo pari a π/2. Il risultato di questa sommatoria è 1,054458… In particolare, usando il valore di π che troviamo nella Grande Piramide (22/7) il risultato è 1,054480…:

seno di 22/7/2 + coseno di 22/7/2 + tangente di 22/7/2 = 0,02742… + 0,99962… + 0,02743 = 1,054480…

In questo modo scopriamo che due dati empirici – che di solito siamo inclini a giudicare casuali e non ulteriormente spiegabili – l’errore minimo possibile nella determinazione di posizione e velocità di una particella e il quanto d’azione – risultano entrambi contenuti in un valore geometrico fondamentale che fino ad ora si era creduto completamente astratto e avulso dalla realtà empirica, dato che abbiamo che (seno π/2° + coseno π/2° + tangente π/2°) x 2π = h, la costante di Plank. Questo significa, per esempio, che la formula per derivare il numero quantico principale (N) – che scriviamo n x h/2π dopo averla derivata per mezzo di faticose ricerche empiriche – avrebbe essere potuto derivata con un procedimento a priori condotto su basi esclusivamente trigonometriche. Questa strana affermazione diventa più convincente quando scopriamo che la trigonometria può contenere molti numeri che sono interessanti per tutto il resto delle scienze matematiche. Infatti, per quanto strano possa sembrare, possiamo ricavare un valore straordinariamente vicino alla costante di Plank h (h = ħ2π = 6,62559) anche dividendo l’angolo giro per quello di 54°,3718624…, che ha come caratteristica fondamentale che sottraendo il seno e il coseno alla tangente otteniamo zero (simbolicamente questo è molto importante: è come se nella trigonometria fosse inscritto il fatto empirico che, sotto una certa quantità, la trasmissione di energia è pari a 0).

360° : 54°,3718624 = 6,62107… (la costante di Plank viene calcolata attualmente pari a 6,62559…)

Se moltiplichiamo questo stesso angolo per (1/ɸ x π2) + 1/ɸ abbiamo che 54°,3718624… x 6,7177… = 365,2584, cioè la durata di un anno solare. Invece, se dividiamo la lunghezza di un anno solare per questa approssimazione a h, abbiamo che 365,25 : 6,62107… = 55,164799…; se facciamo la sommatoria di seno, coseno e tangente di un angolo di questo genere arriviamo a un risultato di

0,8207… + 0,5712… + 1,4369… = 2,8289…., un numero che risulta praticamente identico a 2√2.

Un numero praticamente identico a √2 risulta anche dalla tangente dell’angolo che viene fuori dal rapporto fra la durata dell’anno solare e la costante gravitazionale, dato che 365,25 : 6,673… = 54°,736…, angolo la cui tangente è uguale a 1,41425… (√2 = 1,41421…).

3. È possibile dunque la piastra ritrovata dal colonnello Vyse, lungi dall’essere un oggetto banale, contenga invece importanti nozioni scientifiche, che, come ci prepariamo a scoprire, arrivano a dei livelli di raffinatezza inimmaginabili. Dalla faccia maggiore della piastra si possono ricavare due triangoli rettangoli gemelli la cui ipotenusa coincide con la diagonale del rettangolo. L’angolo opposto al cateto maggiore risulta 71°,5531526028, la cui tangente è pari a 2,9979246… : questa cifra è praticamente identica alla costante da cui si può ricavare la velocità della luce che, come abbiamo visto, è pari a 2,9979246. Se invece moltiplichiamo il coseno di questo stesso angolo (0,316424…, un valore molto simile √10/10 = 0,31622…) per la tangente e poi facciamo 1/x, otteniamo un numero pari a 1,054165…, che corrisponde in modo quasi perfetto ad ħ, il valore con cui molto spesso si sostituisce “h”, la costante di Plank (ħ = h/2π = 1,054571). Lo stesso valore lo possiamo ricavare dividendo l’ipotenusa per il cateto maggiore, dato che 321,289… : 304,781… = 1,05416554, con una differenza rispetto al valore della nostra costante di circa 3 decimillesimi. Ancora, se dividiamo l’angolo giro per questo stesso angolo moltiplicato per π, abbiamo che 360 : (71°,55315… x π) = 1,601488…, un valore che risulta straordinariamente vicino alla misura in joule di un elettronvolt (1,60217653), piuttosto vicino all’approssimazione al numero d’oro che troviamo nella Piramide di Micerino, che a sua volta è molto simile al rapporto fra il numero tipico del ciclo di Sirio e la constante solare

(1461 : 1366)7 = 1,06954612…7 = 1,601

L’angolo di 71°,5531526028 è anche numerologicamente è molto simile alla durata in anni di quel Giorno Precessionale un po’ particolare che risulta dalla divisione dei 26000 anni di un Anno Precessionale in 365 parti invece che nelle canoniche 360 (il risultato è pari a 71,2328). Un angolo molto simile risulta anche dal rapporto fra il quarto di angolo giro e la radice cubica di due, dato che 90° : ³√2 = 71°,433. Moltiplicato per π questo stesso angolo da 223°,78468217351, una cifra che è molto simile alla sezione aurea dell’angolo giro (222,49). Invece, il prodotto del valore esatto di ħ per la costante da cui si ricava la velocità della luce da un risultato pari a 3,1615243433466 (√10 = 3,1622…). Questo valore corrisponde alla tangente di un angolo pari a 72°,4476, che corrisponde numerologicamente in modo quasi perfetto al numero di anni solari che dura un Giorno Precessionale canonico pari a 26000 : 360 = 72,2222, oppure anche a 90° :ᴾᶦ√2 = 72°,180799 (curiosamente, la radice quinta di 360 da un risultato di ⁵√360 = 3,24534, molto simile a 2ɸ, che corrisponde allo spessore della nostra piastra). Invece, la radice-π della durata esatta di un anno solare è uguale a π√365,25 = 6,5418, un numero molto simile al valore di “h” se calcolato in erg al secondo (il numero effettivo è 6.55; ricordiamo anche che 10 elevato alla 3,1646… ci da 1461, ovvero la durata del ciclo di Sirio: la coincidenza numerologica con il volume dell’Arca (una cosa che vedremo successivamente) appare dunque significativa; e ancor più significativa ci appare se notiamo che ħ x 3,1646… x 2 = 6,67461, cioè a un’approssimazione straordinariamente buona di G, la costante gravitazionale elaborata da Newton)). Il ciclo solare annuale e quello precessionale rappresentano forse un elemento di unicità, quasi le impronte digitali della Terra in relazione agli altri corpi che si muovono nell’universo. Ma nei numeri di questi cicli, a come sembra, sono codificati quelli delle costanti delle nostre più importanti leggi scientifiche. Questo significa che i calendari antichi contengono molto probabilmente, sia pure in modo ermetico, i numeri fondamentali di tutte le leggi fisiche fondamentali. Tratteremo meglio questi argomenti in The Snefru Code part. 4 e part. 7. In questa sede ci limitiamo a un solo esempio. Pi greco – la costante che serve a determinare il cerchio e, come abbiamo visto sopra, anche la costante di Plank – è contenuta insieme a ɸ in dei fondamentali cicli cosmici che riguardano la Terra. Questo significa che in dei fatti empirici sono contenuti i numeri fondamentali delle leggi fisiche che li descrivono. Per esempio, la tangente uguale a π è caratteristica dell’angolo di 72°34…, un angolo che sul piano numerologico è praticamente identico a quell’unità di tempo fondamentale per gli antichi che era il giorno precessionale (che, lo ricordiamo, risulta pari a 72,2222 anni solari): ma in π, come abbiamo visto, sono contenuti anche dei numeri fondamentali della meccanica quantistica. Così, forse abbiamo scoperto quel che intendeva dire Platone quando faceva dire a Timeo che “La terra, nostra nutrice, si muove attorno all’asse che si estende per tutto l’universo”. Con queste parole Platone non intendeva dire, come finora si era creduto, che l’universo gira intorno alla Terra, ma che nei numeri fondamentali che sono contenuti nei cicli cosmici terrestri sono contenuti a loro volta i numeri fondamentali di quelle leggi fisico-matematiche che sono la forma logica di tutto quel che null’universo può accadere.

4. In effetti, questa tesi platonica pare avere davvero qualche fondamento. Al di là di ciò che abbiamo già detto possiamo aggiungere che quel rapporto che abbiamo visto sopra fra la costante di Newton (G) e quella di Plank (h) sembra in parte contenere e in parte alludere a rapporti armonici fra il mondo astrattissimo delle teorie geometriche e quello dei cicli astronomici riguardanti la Terra. Per esempio (G/h)8 = (6,67 : 6,62559)8 = 1,00670288 = 1,054897…., cioè un numero straordinariamente vicino ad ħ. Elevato alla 72sima potenza (ricordiamo che il 72 è un’unità di misura tipica del ciclo precessionale) ci da (G/h)⁷² = 1,617677…, un numero che differisce di meno di 3 decimillesimi dal numero d’oro. Questo rapporto pare avere un peso anche nella relazione che sembra esistere fra altre costanti fisiche che riguardano la struttura dell’atomo. Per esempio, il raggio classico del protone è pari a 1,535 × 10-18 m, mentre quello dell’elettrone è 2,8179403267 (27) x 10-15 m. Il rapporto fra queste lunghezze (escluse le potenze del 10) è pari a 1,535 : 2,817940367 = 0,54472408…. Questo numero – elevato al cubo – risulta 0,161632…, un valore molto simile a ɸ/10. Invece moltiplicato per 2 e poi elevato alla sesta da (0,54472408… x 2)⁶ = 1,08944817…⁶ = 1,67201227….. cioè un valore straordinariamente simile a quello della costante che si usa per calcolare la massa a riposo del protone che risulta pari a 1,6726231. Se si divide il rapporto fra la costante di Newton G e quella di Plank h per il numero che abbiamo ottenuto abbiamo che 1,0067028 : 1,67201227 = 0,60209… E questo valore corrisponde alla carica elettrica del protone meno 1, dato che, appunto, 1,602 – 1 = 0,602 (1/0,602… = 1,6608, un numero molto vicino alla costante che serve per trasformare i sessantesimi di grado in centesimi di grado). Un rapporto straordinariamente simile esiste anche fra il momento magnetico del protone 2,793 e la sua massa a riposo, dato che 1,6726231 : 2,793 = 0,598862 (la differenza con la carica elettrica questa volta è 1 più circa 3,14 millesimi (vicina dunque a π/1000)). La massa di un elettrone è di circa 1/1836 volte quella del protone perché

mp/me = (1,6725 x 10-27) : (9,1091 x 10-31) = 0,1836076 x 104 = 1836,076

Se facciamo il rapporto fra il raggio classico dell’elettrone e quello del protone vediamo che questo rapporto sembra invertirsi perché, a dispetto della sua massa inferiore, il raggio dell’elettrone pare eguale a quello del protone moltiplicato per un numero davvero molto, molto simile a quello che mette in rapporto le due quantità di massa

re/rp = 2,8179403267 x 10 – 15 : 1,535 x 10-18 = 1,835791.. x 103 = = 0,0000000000000028179403267 : 0,000000000000000001535 = 1835,7917700325732899022801302932

Potremmo dunque ipotizzare in via euristica che la massa sia inversamente proporzionale allo spazio occupato dalla carica elettrica dato che il raggio del protone risulta circa 1/1836 quello dell’elettrone. Da ciò possiamo dedurre forse che la massa (e dunque il campo gravitazionale espresso dalla massa) non è altro che – per così dire – energia magnetica concentrata. Dunque, in via ipotetica, se riuscissimo a concentrare l’energia dell’elettrone in un raggio equivalente a quello del protone, potremmo aumentare la sua massa in modo proporzionale. Viceversa, espandendo lo spazio occupato dalla carica elettrica del protone ridurremmo la sua massa (e dunque il suo peso) a un valore simile a quello dell’elettrone. E proprio questo potrebbe essere il modo con cui nell’antichità si riuscivano a spostare quei mostruosi blocchi di granito, del peso di oltre mille tonnellate, che nel presente noi non riusciremmo a smuovere nemmeno usando la nostra tecnica più evoluta. Inoltre, è possibile che questa operazione possa creare uno squilibrio chimico-magnetico tale per cui dei materiali durissimi possono essere ridotti a uno stato pastoso. Questo spiegherebbe la straordinaria facilità con cui gente come gli Antichi Egizi riusciva a lavorare pietre come la diorite con la stessa efficacia con cui noi lavoriamo la plastica o l’alluminio (e qui troviamo un indizio di quel che Platone poteva intendere con un termine come “condensazione”). Se questa ipotesi corrispondesse a realtà, sarebbe possibile costruire delle dinamo che girano sfruttando quello che potremmo definire una sorta di “volano gravitazionale”, il quale a sua volta potrebbe funzionare senza bisogno dell’aiuto di energia prodotta in centrali elettriche, che presuppongono lo sfruttamento di miniere di carbone, o di pozzi di petrolio, reti di trasmissione per l’alta tensione etc. E questo ci spiegherebbe il motivo per cui i costruttori delle Piramidi potessero avere a disposizione energia senza bisogno di tutti quegli apparati di cui abbiamo bisogno nel nostro tempo. Inoltre, siccome il campo gravitazionale deriva da delle cariche opposte, la sua azione potrebbe a sua volta essere alternativamente positiva o negativa via via che si espande nello spazio in forma di onda. Questo potrebbe far sì che l’universo possa espandersi e contrarsi in un certo intervallo di tempo e di spazio senza mai arrivare alla morte termica e senza bisogno che la sua attuale fase espansiva si debba spiegare con un’esplosione originaria.

5. Notiamo di passaggio che se elettrone e protone possono essere considerati come sfere allora l’elettrone avrebbe un volume di oltre sei miliardi di volte più grande del protone, dato che se l’elettrone ha un raggio di circa 1835,791 volte superiore a quello del protone questo vuol dire che il suo volume sarebbe di 1835,791…³ = 6.186.859.530 maggiore (un numero che risulta molto, molto vicino a 1/ɸ x 1010). Né possiamo mancare di notare che la costante che serve per determinare il rapporto fra la forza gravitazionale e quella magnetica espressa da un elettrone è di circa 4,17, un numero che cioè risulta molto vicino al rapporto fra i valori costanti che servono per determinare il volume del cerchio, dato che 4/3 π = 4,188…: considerando le grandezze in gioco, non sarebbe escluso che il valore determinato per via geometrica corrispondesse in modo più esatto alla realtà di quello determinato per via empirica. Ma questo non pare il caso, dato che se facciamo la proporzione fra il rapporto esistente fra la forza magnetica e quella gravitazionale espressa da un protone e quello dell’elettrone ci rendiamo conto che il risultato è determinato da un valore vicino a 1835,791… al quadrato, e non al cubo

4,17 x 1042 : 1,24 x 1036 = 3.362.903,2258

Se facciamo la radice quadrata di questo numero vediamo che

√3.362.903,2258 = 1833,822…

Considerando dei minimi errori nella determinazione delle costanti possiamo pensare che questo rapporto corrisponda a 1835,791…2. Questo potrebbe significare che protone ed elettrone debbono essere considerati come delle superfici, e non come volumi. Questo a sua volta potrebbe voler dire che quelle moderne teorie scientifiche che considerano la terza dimensione – cioè la profondità – come un’illusione troverebbero un ulteriore fondamento. E questo sarebbe il significato profondo dell’adozione da parte degli Antichi Egizi della rappresentazione bidimensionale. Inoltre, se facciamo il rapporto fra il raggio classico dell’elettrone e del protone escludendo le potenze del dieci otteniamo un altro risultato interessante dato che

2,8179403267 : 1,535 = 1,8357917437785016286644951140065

Se facciamo il rapporto fra questo numero e la carica elettrica di protone ed elettrone vediamo che

1,835791… : 1,60217653 … = 1,145810692…

Questo numero appare estremamente significativo perché risulta praticamente identico a 1 + 1/ɸ4. Infatti

1 + 1/ɸ4 = 1 + 0,145898.. = 1,145898…

Come si vede, la differenza è di circa 8 x 10-5 (curiosamente, l’8 e il 5 sono il sesto e il quinto numero della serie di Fibonacci e il loro prodotto ci da quel 40 che troviamo continuamente nell’Antico Testamento: se facciamo il prodotto di 40 giorni e delle 40 notti che dura il diluvio abbiamo 1600, un numero molto vicino a ɸ moltiplicato per 1000, la cui radice è 40,22). A questo risultato possiamo aggiungere quelli che abbiamo trovato sopra. Se escludendo le potenze del 10 facciamo il rapporto inverso fra il raggio del protone e quello dell’elettrone troviamo che

1,535 : 2,817940367 = 0,54472408….

Questo numero – elevato al cubo – risulta 0,161632…, un valore questa volta estremamente simile a ɸ/10 (infatti 3 √(ɸ/10) = 3 √0,1618033988… = 0,544915…: la differenza con il valore calcolato sopra è di 21 decimillesimi). Invece moltiplicato per 2 e poi elevato alla sesta da

(0,54472408… x 2)⁶ = 1,08944817…⁶ = 1,67201227…..

Cioè un valore straordinariamente simile a quello della costante che si usa per calcolare la massa a riposo del protone che risulta pari a 1,6726231. Considerando dei piccolissimi errori nelle determinazioni del raggio classico del protone e dell’elettrone possiamo supporre che i valori delle nuove costanti corrispondano in modo perfetto a 1 + 1/ɸ4 e a 3√(ɸ/10). Questo fatto ci spiega forse come mai gli Antichi Egizi ci tenevano tanto a codificare sia ɸ sia π nella Grande Piramide: perché con questi due numeri si può descrivere la forma logico-fisica e geometrico-matematica di tutti gli eventi che accadono nel mondo.

6. La connessione della proporzione inversa fra il raggio classico di protone ed elettrone e la loro massa con il resto delle loro caratteristiche fisiche è completata dalla scoperta, oramai non troppo sorprendente, che questo rapporto sembra riverberarsi anche nella la distanza media dal nucleo della prima orbita nell’atomo di idrogeno, che corrisponde a 0,53 x 10-10 m. Infatti, se facciamo il rapporto di questa distanza con il raggio classico dell’elettrone vediamo che

0,53 x 10-10 : 2,8179403267 x 10- 15 = = 0,000000000053 : 0,0000000000000028179403267 = 18808,0632…

Se facciamo la stessa operazione con il raggio classico del protone arriviamo invece a questo risultato

0,53 x 10-10 : 1,535 × 10-18 =
0,000000000053 : 0,000000000000000001535 = 34527687,296416938110749185667752

Se dividiamo questo numero per quello che abbiamo ottenuto quanto all’elettrone abbiamo che

34527687,296416938110749185667752 : 18808,0632 = 1835,791

Ovviamente, ritroviamo ancora una volta il numero che definisce il rapporto inverso fra il raggio e la massa di protone ed elettrone. Se invece dividiamo per 10 il valore riguardante l’elettrone e poi facciamo la radice otteniamo

√(34527687,296… : 10) = √3452768,7296… = 1858,162729

Questo numero assume significato perché sembra stabilire una proporzione fra il raggio della prima orbita e quello di protone ed elettrone, alludendo a un altro misterioso valore costante. Infatti, se dividiamo il valore riguardante l’elettrone per dieci e poi facciamo il rapporto troviamo che

18808,0632/10 : 1858,162729 = 1880,0632 : 1858,162729 = 1,012186.0104…

Se facciamo la proporzione fra 1858,806 e il rapporto fra il raggio del protone e quello dell’elettrone troviamo ancora che

1858,162729 : 1835,791… = 1,012186.4248…

1835,791… x 1,012186…2 = 1880,80628…

Questo numero (1,012186)corrisponde in modo abbastanza esatto al rapporto fra h misurato in joule e in erg (6,55), dato che 6,62559 : 1,012186 = 6,5458. Sappiamo inoltre che le distanze delle orbite degli elettroni dal nucleo sono intimamente connesse con il loro stato energetico, connesso a sua volta con il numero quantico principale. Inoltre, quella divisione per 10 del valore riguardante l’elettrone potrebbe essere in qualche modo all’origine di un sistema di misura metrico decimale Antico Egizio (che a sua volta potrebbe essere all’origine del nostro) Sembra quindi che fra spazio e stato energetico vi sia, a livello microscopico, un’intima connessione, simile a quella che nella relatività generale troviamo fra massa ed energia. La teoria dei campi unificati Antico Egizia sarebbe dunque, per così dire, una sorta di generalizzazione della relatività generale in cui lo spazio, inteso come rapporto fra il raggio classico di elettrone e protone, entra nella definizione della massa, della carica, della distanza fra le orbite e viceversa. Che gli Antichi Egizi fossero arrivati a una concezione di questo genere è una possibilità da prendere in considerazione non solo da tutto quello che abbiamo visto nella prima parte dell’articolo, ma anche da queste nuove scoperte. Fatto 1 il raggio classico dell’elettrone, abbiamo visto che quello del protone corrisponde a 1/1835,791 volte questa misura. Se arrotondiamo questo numero alla cifra superiore (1836) e poi lo dividiamo per il uno dei due numeri tipici del ciclo di Sirio (che erano il 1460 e il 1461) abbiamo che

1836 : 1460 = 1,2575342465753424657534246575342

Se prendiamo questo risultato, lo eleviamo al quadrato e lo moltiplichiamo per 2 abbiamo che

1,25753424657534246575342465753422 x 2 = 3,162784762….

Questo numero è estremamente vicino al coseno moltiplicato per 10 di quell’angolo di 71°,5531526028, che abbiamo visto sopra, la cui tangente è pari a 2,9979246… : cioè praticamente identica alla costante da cui si può ricavare la velocità della luce. Moltiplicando il coseno di quello stesso angolo (0,316424…) per la tangente e poi facendo 1/x, avevamo ottenuto un numero pari a 1,054165…, che corrisponde in modo quasi perfetto ad ħ, il valore con cui molto spesso si sostituisce “h”, la costante di Plank (ħ = h/2π = 1,054571). Considerando che un valore ancor meglio approssimato lo possiamo ricavare sommando seno, coseno e tangente di un angolo pari a π/2, forse possiamo dire di aver scoperto che fra geometria e realtà non vi è più alcuna differenza sostanziale. Tutti quei risultati a cui la nostra scienza è arrivata attraverso lunghe e faticose ricerche empiriche potevano essere dedotti da speculazioni geometriche condotte in modo del tutto aprioristico. Chissà che non sia questo il motivo per cui Platone dava tanta importanza alla geometria.

7. In effetti, se proviamo a riassumere e a mettere un po’ in ordine i risultati raggiunti nel corso di questa forse un po’ troppo tortuosa ricerca, vediamo che sono piuttosto interessanti. Per prima cosa, vediamo in successione i valori di raggio classico e massa di protone ed elettrone

massa a riposo dell’elettrone me = 9,1091*10-31 kg

massa a riposo del protone mp = 1,6725*10-27 kg

raggio classico dell’elettrone re = 2,81777*10-15 m

raggio classico del protone rp = 1,535 × 10-18 m

Come in parte abbiamo già visto, le relazioni che possiamo costruire a partire da questi valori sono molto interessanti. E ancora più interessanti risulteranno quando ci renderemo conto che esse, tolte le potenze del 10, corrispondono in modo praticamente perfetto a relazioni fra π e ɸ

me/re = 9,1091 : 2,81777 = 3,232733686567746835263346547092 ≈ 2ɸ

mp/rp = 1,6725 : 1,535 = 1,0895765472312703583061889250814 x 10-9 ≈ (2ɸ/π)3

Ma, come abbiamo visto sopra, il rapporto 2ɸ/π corrisponde in modo praticamente perfetto al rapporto fra il numero di giorni dell’anno solare con quello delle fasi lunari, dato che 365,25 : 354,36 = 1,0307314.. e 2ɸ/π = 1,030072. La differenza con il valore che viene fuori da mp/rp appare veramente trascurabile. E infatti vediamo che, rimanendo quasi identico il rapporto, siccome (me/re) ≈ 2ɸ, ecco che il rapporto con 3√mp/rp ci da un numero molto vicino a π.

3√mp/rp = 3√1,0895765472312703583061889250814 =
= 1,0290091792098358703976440557729

(me/re)/ 3√ mp/rp = 3,232733686…. : 1,02900917… = 3,1415984928823718306…. ≈ π

8. Questi rapporti hanno delle ovvie conseguenze sulle equazioni in cui vengono messi in rapporto i valori dinamici delle particelle elementari. Da quanto abbiamo visto sopra risulta infatti che la massa dell’elettrone si può derivare dal suo raggio con la semplice equazione

me/re = 9,1091 : 2,81777 = 3,23273… ≈ 2ɸ

abbiamo così che

me = re 2ɸ

In questo modo la celebre equazione sulla lunghezza d’onda dell’elettrone di De Broglie

λ = h/me v

potrebbe essere così trasformata

λv = h/me = (seno π/2° + coseno π/2° + tangente π/2°) x 2π/re x 2ɸ

Ma se facciamo 1 il raggio dell’elettrone (se lo teniamo cioè come unità di misura, come molto probabilmente fu fatto dagli Antichi Egizi) ecco che l’equazione diventa una semplice funzione di π e ɸ

λv = h/me = (seno π/2° + coseno π/2° + tangente π/2°) x 2π/2ɸ

Oppure, il celeberrimo principio di indeterminazione messo a punto da Heisenberg diventerebbe

Δx Δp ≥ 1/2 ħ = Δx Δp ≥ seno π/2° + coseno π/2° + tangente π/2°

oppure

Δx Δp ≥ 1/2 ħ = Δx Δp ≥ 9√ɸ

Con un procedimento di questo genere possiamo ricavare la costante (1,535) che ci serve per determinare il raggio del protone, e la proporzione (1,83591) che lo lega a quello dell’elettrone. Partiremo di nuovo dal π, però nell’approssimazione che troviamo nella Grande Piramide, che corrisponde alla frazione pitagorica 22/7

rp = (22/7 : 2) : {1 + [(1/ɸ3) : 10]} = (3,142857… : 2) : {1 + [1/0,618033…3] : 10]} =
= 1,57142857… : [1 + (0,23606… : 10] = 1,57142857… : 1,023606… = 1,53518…

La costante della massa la possiamo derivare dal raggio classico ottenendo il diametro e dividendolo per la costante (1,835791) che stabilisce che la massa è inversamente proporzionale alle dimensioni del raggio

dp = (rp x 2) = 1,535 x 2 = 3,07

dp : 1,835791 = 1,6725 mp

La carica la possiamo derivare dividendo quella stessa costante (1,835791) per 1 + 1/ɸ4

1,835791 : (1 + 1/ɸ4) = 1,6020….

Due modi possibili di derivare la costante pari a 1,835791 sono questi che vediamo sotto

3√(1/ɸ x 1010) : 103 = 1,835146..

Oppure, in modo più semplice ma più approssimato, possiamo derivarla con questa formula

ɸ2/π + 1 = 1,8333461…

Questo numero – che è un po’ inesatto quanto alla costante che regola il rapporto inverso fra massa e raggio in protone ed elettrone – è però quasi perfetto per definire il rapporto esistente fra la forza magnetica (Fmp e Fme ) e quella gravitazionale (Fgp e Fge) espresse da un protone e quello dell’elettrone. Per comodità rivediamo i calcoli che avevamo fatto sopra

Fmp/Fgp = 4,17 x 1042

Fme/ Fge = 1,24 x 1036

4,17 x 1042 : 1,24 x 1036 = 3.362.903,2258

Facendo la radice quadrata di questo numero avevamo visto che

√3.362.903,2258 = 1833,822…

Un numero che corrisponde in modo che pare significativo a quello visto sopra (ɸ2/π + 1 = 1,8333461…). Qui, naturalmente, stiamo andando avanti a grandi passi con ipotesi molto affascinanti dal punto di vista archeologico e matematico, senza preoccuparci troppo della loro possibile (o impossibile) corrispondenza con i fatti o del loro significato operativo. Ma chissà, forse un giorno questi rapporti fra calendari, costanti geometriche fondamentali e trigonometria potrebbero avere qualche riflesso sulla prassi effettiva della nostra scienza empirica. Certo, dobbiamo riconoscere che se queste ipotesi corrispondessero – non diciamo alla verità – ma anche solo, diciamo così, a qualsiasi altra cosa – questo vorrebbe dire che geni del calibro di Einstein, Bohr, Heisenberg, Hawking, avrebbero passato la vita a cercarsi il cappello che avevano sulla testa. E questa sembra un’eventualità davvero molto, ma molto improbabile.

9. Comunque sia, tratteremo meglio questo argomento in un lavoro successivo, dato che in queste proporzioni – per inverosimile che possa sembrare – potrebbe eppure essere nascosto anche il punto di partenza per giungere a quella teoria dei campi unificati che probabilmente gli Antichi Egizi avevano già conquistato al tempo della costruzione delle Piramidi della cosiddetta IV Dinastia. In questa teoria il campo gravitazionale risulterebbe un’emanazione di una particolare distribuzione nello spazio del campo magnetico; o, viceversa, siccome le grandezze sono connesse per mezzo del raggio, il campo magnetico risulterebbe da una particolare distribuzione nello spazio del campo gravitazionale (e dunque della massa). Questa non è – in senso assoluto – una novità, dato che già la teoria della relatività ci aveva avvertito che l’energia può essere pensata come uno stato della materia, e la materia uno stato dell’energia. In questo modo avremmo anche spiegato l’origine del monofisismo in quanto teoria religiosa: se queste ipotesi corrispondessero a realtà, avremmo che ogni entità è sé stessa e anche tutte le altre, e tutte sono Una. In un ambito come questo lo spazio stesso andrebbe considerato alla stregua di una forza: cambierebbe così completamente di significato il valore di d² in una formula come quella di Newton. Questo valore non sarebbe più da intendersi come l’effetto passivo di un entità amorfa (appunto, la distanza) ma come quello attivo di una forza che si oppone agli effetti della massa su altra massa, e quindi come una sorta di forza di gravità di segno contrario. Questo fatto può sul momento scioccarci e sembrarci del tutto incomprensibile, ma in realtà questa non è altro che la teoria della relatività portata alle sue estreme conclusioni: se la massa può avere un effetto sullo spazio-tempo, perché lo spazio-tempo non dovrebbe avere un effetto sulla massa? (questo è il motivo per cui sopra accennavamo al fatto che, se queste nostre tesi corrispondessero a realtà, gente come Einstein, Bohr, Heisenberg, Hawking, avrebbero passato la vita a cercare il cappello che avevano sulla testa). Per concludere con questo argomento, possiamo dire che in un lavoro successivo avremo modo di dimostrare che il rapporto fra il metro della Grande Piramide e quello attualmente in uso in Occidente è praticamente identico a quello fra G e h. In questo modo avremo anche dimostrato che gli Antichi Egizi possedevano entrambe queste unità, oltre al cubito, il mezzo cubito, etc. (l’origine di tutte le loro unità di misura della lunghezza sembra essere un millimetro pari a 1,0066 dei nostri millimetri). Ricordiamo che la carica magnetica di un elettrone esprime una forza pari a 4,17 x 10-42 rispetto a quella del suo campo gravitazionale, e che la sua massa è pari a circa 1/1835,791 quella del protone. Facendo x = 4,17/1836 e poi 1/x otteniamo 440,28…, che corrisponde numerologicamente in modo quasi perfetto alla lunghezza del lato della Grande Piramide espressa in cubiti. Se invece dividiamo 1835,791 per uno dei due numeri tipici del ciclo di Sirio e poi eleviamo al quadrato il risultato e lo moltiplichiamo per due vediamo che 1835,791 : 1460 = 1,25653…2 x 2 = 3,162064736…, un numero praticamente identico a √10 = 3,162277 e dunque molto simile, come abbiamo già visto, al prodotto di ħ per la costante da cui si ricava la velocità della luce.

10. L’indagine scientifica che ci aspetta per comprendere il significato della Grande Piramide è dunque di questa fatta. C’è da supporre che sarà molto, molto più difficile di quel che ci si aspetterebbe da una cultura cui in via ufficiale si attribuiscono una matematica e un’astronomia a livello delle nostre scuole elementari, o poco più, in specie se consideriamo che già i risultati di questa ricerca spingono a porsi problemi che fino ad oggi erano del tutto inimmaginabili. Nel libro di Graham Hancock “Il Mistero del Santo Graal” (Capitolo Sesto, p. 128) viene riportato un fatto apparentemente insignificante. Alla metà del XIX secolo un delegato del patriarca d’Armenia si era recato in visita Abissinia. Il suo intento era quello di smentire che in tutta la nazione si credesse fermamente che l’Arca dell’Alleanza fosse stata trasportata a Axum e che vi fosse ancora conservata. Dopo aver interrogato a lungo i sacerdoti assumiti il delegato – il cui nome era Dimotheos – era riuscito a farsi mostrare una tavola di marmo rossastra, lunga 24 cm, larga 22 e spessa 3. Secondo i sacerdoti era une delle due tavole di pietra contenute nell’Arca. Il volume di queste due tavole ammonta complessivamente a 1584 x 2 = 3168 cm³. Se dividiamo questa cifra per 10000 abbiamo come risultato 0,3168, che è il coseno di un angolo vicinissimo a quello che ha per tangente la costante da cui si ricava la velocità della luce (71°,5304, che corrisponde a una tangente di 2,9939784) e prossimo anche a √10/10 = 0,3162277. Se lo dividiamo per 3000 abbiamo 1,056, un numero piuttosto vicino ad ħ. Per arrivare a cifre perfettamente congrue con quelle capaci di darci le costanti delle nostre leggi fisiche più importanti è sufficiente immaginare che le misure della tavola di marmo siano state prese in modo (molto) leggermente errato (si noti che il prodotto della costante da cui si ricava la velocità della luce e “ħ” risulta 2,9979246 x 1,054571 = 3,1615243, che diviso per 10 ci da il coseno di un angolo pari a 71°,5696; questo numero – e dunque anche quello che si può ricavare numerologicamente dal volume dell’Arca – moltiplicato per 2 corrisponde con ottima approssimazione alla costante da cui si può ricavare la costante di Newton da ħ (la formula è 2 x 3,1626501… x ħ = 6,670…).

11. Secondo l’Antico Testamento, l’Arca che conteneva le tavole misurava 2,5 cubiti di lunghezza, 1,5 cubiti di larghezza e di altezza. Già così come sono queste misure appaiono molto significative. La lunghezza diviso la larghezza da 1,6666…, un numero molto vicino al numero d’oro (1,618033988…) e che per di più rappresenta la costante per trasformare i sessantesimi di grado in centesimi di grado. Si può ipotizzare allora che queste misure siano state trascritte in modo leggermente sbagliato, per non trasgredire un segreto ermetico, rappresentato da misure ben più significative. Dunque, possiamo immaginare che l’Arca avesse una lunghezza di 2,618033988… cubiti (ɸ²), e una larghezza e un’altezza di 1,618033988… cubiti (ɸ). Teniamo presente che ɸ/π = 0,5150363217120492: numerologicamente questa cifra è molto simile all’inclinazione della Piramide di Cheope che, misurata in gradi e sessantesimi di grado, è pari a circa 51°51’. Comunque sia, anche così come sono le misure dell’Arca conservano delle chiare allusioni sia a ɸ che a π. A livello di ipotesi, possiamo assumere che l’unità di misura dell’Arca fosse il mezzo cubito. In questo modo la sua lunghezza è pari a 5 volte 0,5 cubiti, la larghezza e l’altezza pari a 3 volte 0,5 cubiti. Possiamo costruire così questa proporzione, caratterizzata dal 3 e dal 5 (che, giova ricordare, sono il quarto e il quinto numero della serie di Fibonacci): (2,5 x 1,5 x 0,5) : 3 = 0,625 (1/ɸ = 0,618033988…); 0,625 x 5 = 3,125, un numero molto vicino all’approssimazione a π che troviamo nel sarcofago di Djedefre (3,12179…: ma vedremo meglio quest’argomento in The Snefru Code parte 7; comunque sia, la tangente di un angolo di 3°,125 è pari a 0,054595…, un valore praticamente identico a ħ – 1). I 2,5 cubiti di lunghezza risultano significativi anche rispetto all’angolo giro (e dunque anche rispetto ai giorni “puri” del calendario solare Antico Egizio) perché 360 : 2,5 = 144, un numero che corrisponde a 2 Giorni Precessionali arrotondati alla cifra intera (72 x 2 = 144) e anche al 12° numero della serie di Fibonacci. La radice di questo numero ci da di nuovo il 12, il numero di mesi dell’anno solare Antico Egizio (notiamo che queste relazioni numerologiche, che per noi non sono nulla, nell’antichità era viste quasi come le note di quell’armonia divina che costituiva la legge segreta del cosmo). Il ciclo di Sirio, diviso per due volte la costante da cui si ricava la velocità della luce e poi per 100 da un risultato pari a 1461 : (2,9979246) : 100 = 1,625…: è dunque facile che ciò che si è chiamato “Arca dell’Alleanza” fosse la stella Sirio e i numeri connessi con il suo ciclo, che a loro volta contenevano i numeri fondamentali di quelle conoscenze fisiche che danno all’uomo potere sulla natura (a sua volta, i racconti che parlano dell’Arca che va dall’Egitto a Israele, e poi da Israele all’Etiopia, non sembrano altro che un modo ermetico di alludere a osservazioni astronomiche che sono possibili prima in un luogo e poi in un altro). Questa ipotesi è rafforzata dal fatto che successivamente nella cristianità ci si è riferiti alla Vergine Maria come ad un’Arca dell’Alleanza. E i legami fra la figura della Vergine e quella di Iside – una divinità il cui simbolo astronomico principale era appunto la stella Sirio – sono chiari fin dall’Apocalisse. Fra le molte altre cose che potremmo citare per provare questo fatto storico, pare significativo che in Egitto sia stata trovata una figura che rappresenta Iside coronata di 12 stelle che poggia i piedi sulla Luna (è facile immaginare che il drago di cui parla l’Apocalisse possa essere una trasfigurazione di Seth). In questo modo, avremmo spiegato anche come mai Flegetanis, un personaggio del Parsifal di Wolfram von Eschenbach, «vedeva segreti nascosti nelle costellazioni (e) dichiarò che vi era una cosa chiamata Graal di cui leggeva distintamente il nome nelle stelle».

12. I legami fra la cultura ebraica e quella Antico Egizia sono stati fino ad adesso trascurati o radicalmente sottovalutati. È quindi molto utile in questo contesto ricordare che secondo la legge ebraica viene considerato ebreo chi nasce da madre ebrea. Ma dobbiamo notare che la moglie di Abramo era sterile (anche se poi ebbe un figlio intorno ai 90 anni). Così, la prima Eva del popolo ebraico fu una serva di sua moglie, che però era un’egiziana. Dunque, se seguiamo la testimonianza dell’Antico Testamento, dobbiamo pensare che il popolo egiziano e quello ebreo sono strettamente imparentati, dato che, secondo la concezione matrilineare della discendenza, condividono almeno in parte lo stesso sangue. Dunque non stupisce che anche nei numeri connessi al Diluvio e all’Arca di Noè vi siano probabilmente delle allusioni ermetiche a una sapienza Antico Egizia che può esser stata assorbita dal popolo ebraico per mezzo della mediazione di Mosè che, come tutti sappiamo, secondo la tradizione biblica venne adottato dalla figlia del Faraone ed educato come un nobile egiziano. Prendiamo per esempio i numeri connessi con le date

17° giorno del 2° mese
17° giorno del 7° mese
1° giorno del 10° mese
1° giorno del 1° mese
27° giorno del 2° mese

Se facciamo la sommatoria di quelli riferiti ai mesi (2 + 7 + 10 + 1 + 2 = 22) e di quelli riferiti ai giorni (17 + 17 + 1 + 1 + 27 = 63) e poi facciamo il prodotto viene fuori un numero apparentemente del tutto insignificante, il 1386. Ma se facciamo il rapporto con il numero tipico del ciclo di Sirio abbiamo che 1461 : 1386 = 1,054112554112554, che sarebbe di nuovo un’ottima approssimazione a quel valore di ħ, che noi calcoliamo pari a 1,054571. Un numero molto simile salta fuori anche nel Timeo, quando Platone indica l’intervallo armonico minimo usato dal Creatore per generare il mondo, che è di 256 : 243 = 1,053497. E anche nella Grande Piramide troviamo qualcosa del genere. Se consideriamo che le sue misure in cubiti si possono derivare dal numero di giorni puri dell’anno solare (360) aggiungendo o togliendo 80, possiamo costruire la proporzione (360 : 280) : (440 : 360)= 1,051948… (che corrisponde più o meno a π/3). Con la nostra ricerca saremmo dunque arrivati al punto di capire il significato di quelle strane leggende che circolano intorno all’Arca dell’Alleanza. Se essa contiene simbolicamente, per esempio, segreti scientifici riguardanti la luce e la radioattività, ecco che il fatto che Mosè abbia un viso intollerabilmente luminoso quando discende dal monte Sinai – dove l’ha ricevuta direttamente dal Signore – diventa un’allusione mitica alla potenza scientifica che è ermeticamente contenuta nelle misure e dunque nei numeri che definiscono l’Arca. Come abbiamo visto poco sopra, una banale piastra di ferro, conformata e letta in un certo modo, può contenere in codice i fondamenti della scienza e dunque dei suoi altrimenti inconcepibili poteri. Questo vuol dire che a far crollare le mura di Gerico non sarebbe stata l’Arca stessa, ma la potenza che dalla scienza in essa contenuta fu derivata, che però nel racconto gli viene simbolicamente attribuita. Un modo di esprimersi un po’ strano, ma comprensibile: un po’ come se noi dicessimo che fu Einstein a distruggere Hiroshima e Nagasaki, o che è lui a far funzionare le centrali nucleari. Prese alla lettera, queste descrizioni sono senz’altro fuorvianti. Però, in un senso morale o simbolico sono senz’altro delle verità. In fondo, Einstein stesso si sentì moralmente (e dunque simbolicamente) responsabile del potere distruttivo che venne ricavato dalla sua teoria.

APPENDICE 2: LA TERNA PITAGORICA RICAVATA DAI NUMERI TIPICI DEL SISTEMA CALENDARIO MAYA HAAB’-TZOLKIN IN COMPARAZIONE CON IL PIATTO DI METALLO RITROVATO AL TERMINE DEL POZZO STELLARE SUD DELLA CAMERA DEL RE

I numeri tipici del sistema calendario Maya Haab’-Tzolkin sono, come noto, il 18 e il 13. Da questi numeri, come da qualsiasi coppia di numeri interi, si può ricavare una terna pitagorica cui corrisponde un triangolo rettangolo che ha le seguenti misure

13² + 18² = 169 + 324 = 493 IPOTENUSA

18² – 13² = 324 -169 = 155 CATETO MINORE

2 x 13 x 18 = 468 CATETO MAGGIORE

sen α = 155 : 493 = 0,314401…: si noti che questo valore corrisponde in modo quasi perfetto a π/10 = 0,31415926535897932384626433832795

angolo α = 18°,324694

angolo β = 71°,675305 Si noti che la somma di seno coseno e tangente di questo angolo è pari a 4,28304, mentre 2π – 2 = 4,28318.

(seno α + coseno α)2 = 1,26369…2 = 1,5969… Se a questa cifra sottraiamo 1 arriviamo a 0,596916…, un numero straordinariamente simile al risultato del rapporto fra la costante del momento magnetico del protone 2,793 e quella della sua massa a riposo, dato che 1,6726231 : 2,793 = 0,598862

La tangente dell’angolo β 71°,675305 = 3,019354…

La tangente dell’angolo opposto al cateto maggiore del piatto di metallo ritrovato al termine del Pozzo Stellare Sud della Camera del Re – corrispondente a un angolo di 71°,55315 – era pari a 2,9979246. La differenza fra i due valori è pari a 0,0214.

Il rapporto fra l’ipotenusa e il cateto maggiore è pari a 493 : 468 = 1,0534188…; questo stesso rapporto, nel caso del piatto di metallo Antico Egizio, era pari a 1,05416554, con una differenza pari a -0,00074674. La differenza con ħ = 1,054599 è pari a -0,001180196, cioè a poco più di 11 decimillesimi. Un numero molto simile viene fuori anche nel Timeo, quando Platone indica l’intervallo armonico minimo usato dal Creatore per generare il mondo, che è di 256 : 243 = 1,053497. In questo caso la differenza è di -0,0000782

ANNEXE :

TROIS POÈMES POUR S.

INTERLUDE

A S.

Ah ! cette vie de mon enfance, la grande route par tous les temps, sobre surnaturellement, plus désintéressé que le meilleur des mendiants, fier de n’avoir ni pays, ni amis, quelle sottise c’était. – Et je m’en aperçois seulement !
A. Rimbaud

Varsovie.

Varsovie couverte de neige
et d’invisibles fleurs
que des blancheurs illimités
de la neige se nourrissent
et resplendissent
émerveillées.

Varsovie de le ghetto,
de le carnage.
Varsovie mil fois balayée
et mil fois
comme moi
ressuscitée.

Varsovie ta patrie
ton ciel.
Varsovie dans tes yeux
dans mon amour
comme un voile.

Varsovie de ton rire d’argent
et de ces intimes souffrances
dont je ne souffre pas plus
que presque sont oubli.
Varsovie des pas qui retentissent
dans le silence de spectres d’une rue latérale,
d’une vie quelconque qui passe
fatiguée de tristesse
et dont après personne
jamais ne saura rien.

Varsovie encore en vie
pourtant
sous en déluge de temps
que jamais se retient.

Varsovie
qui s’éloigne
comme une vallée dans une évanescence
des brumes sans destin,
vague labyrinthe
où le cœur
s’égare,
cherchant sens cesse ce qui reste
d’en son perdue et splendide
doleur.

Varsovie,
je le sais,
désormais presque seul en nom
qui dan le ténue s’évanouir de la mémoire
s’évanouit et s’attenue
comme ton visage
dans une pénombre d’une tonnelle en été,
fixant un coin obscure,
là ou je voudrait
rencontrer tes yeux.

Appendice Fotografica

Gabriele Venturi