LE STELI ANTICO EGIZIE E “IL CODICE DI SNEFRU”: PRIME CONSIDERAZIONI STORICO-SIMBOLICHE E NUOVE SCOPERTE GEOMETRICHE
A Stéphanie Fesneau, ballerina e maestra di tango,
per aver dimostrato ovvio l’impensabile
– Est-ce en ces nuits sans fond que tu dors et t’exiles,
Million d’oiseaux d’or à future Vigueur ? –
A. Rimbaud
1) UN POSSIBILE SIGNIFICATO ESOTERICO DELLA STELE DEL SINAI A PARTIRE DALLA SCOPERTA DEL “CODICE DI SNEFRU”
Nell’articolo di Antika del 3 gennaio 2013 (“IPOTESI DI LETTURA DELLA STELE DI SNEFRU”) venivano per la prima volta mostrate e commentate delle immagini in cui si evidenziava come le cinque piramidi più celebri della IV Dinastia – le tre di Giza e le due di Dahshur – fossero state geometricamente codificate nella stele che proprio il capostipite Snefru fece scolpire in una cava del Sinai attorno al 2600 AC (almeno se accettiamo le datazioni della storiografia e dell’archeologia ufficiali, che proprio da questa scoperta venivano messe radicalmente in questione). In pratica, in quelle tavole si vedeva come allineando la base delle piramidi a quella del rilievo e disegnandole in una scala e in una posizione tali per cui la cuspide andasse a coincidere con l’occhio del Faraone, si sviluppava un interessante sistema di intersezioni fra il disegno della piramide (compreso il prolungamento dei suoi assi caratteristici) con quello della stele, sistema che già a quel punto non sembrava affatto casuale. Ma questo si rivelava solo l’inizio di un inaspettato quanto stupefacente gioco geometrico, dato che variando la scala delle piramidi e poggiando la loro base e la loro cuspide in posizioni anche molto diverse, il sistema di intersezioni si ricreava sistematicamente e inesorabilmente, dando adito all’ipotesi di una matrice geometrica comune, da cui sarebbero state dedotte tanto le misure caratteristiche della stele quanto quelle delle piramidi che vi apparivano codificate. Qui sotto possiamo vedere alcuni esempi di quel che accade con la Grande Piramide, attraverso delle immagini che nell’altro articolo non avevamo avuto modo di mostrare
Invece, fra quelle che abbiamo già mostrato, forse l’immagine più interessante è risultata infine quella in cui sull’occhio del Faraone veniva puntata la cuspide della Piramide di Micerino
In questo caso vediamo come quella galleria superiore che viene di solito interpretata come un lavoro incompiuto perché, diciamo così, va a morire in modo confuso nella roccia, una volta sovrapposta al rilievo di Snefru trova immediatamente un senso religioso-simbolico che sembra piuttosto chiaro: essa va infatti a disegnare un pene in posizione rilassata sul pube del nemico del Faraone, un personaggio il cui atteggiamento appare sottomesso e come implorante pietà. Ora, chi si occupa di problemi storici e antropologici sa bene che un pene in posizione non eretta, un pene che si perde nella roccia, può ben essere interpretato come un ancestrale simbolo di castrazione e dunque di morte. È infatti esperienza comune fra gli esseri umani come l’eiaculazione produca, dopo l’attimo di piacere, un profondo senso di vuoto, esperienza che ha dato luogo al detto universalmente celebre “animal semper triste post coitum”, che pare sottolineare la fondamentale connessione spirituale fra la massima felicità che l’uomo può sperimentare nella vita con il fatale presentimento della morte. In effetti, anche la psicologia moderna registra inesorabilmente questo fenomeno: la potenza virile pare disperdersi al termine del coito con lo sperma disperso nel organo genitale femminile, che se oggi viene visto come un puro e semplice meccanismo biologico, nell’antichità tanto storica che preistorica veniva invece interpretato come un simbolo religioso, comunemente identificato con la pietra. Quest’idea, per quanto arcaica, è a quanto pare ancora piuttosto comune, dato che per una donna amata non vi è dono simbolicamente più profondo che quello di un gioiello con incastonata una pietra preziosa, preferibilmente un diamante, che unisce in sé i doni delle profondità oscure della terra con le altezze celesti simbolizzate dalla luce. Un diamante che splende è pietra in simbiosi con il sole, il femminile che si congiunge perfettamente con il maschile: la sua lucentezza e la sua durezza alludono senz’altro a quell’eternità che si può almeno parzialmente conseguire con la generazione di un figlio, il simbolo insieme più universale e più potente di una fede nel valore e nell’interminabile proseguire della vita.
In effetti, non vi è studioso o anche solo appassionato di archeologia che non sappia che centinaia di figure di organi sessuali femminili, o di nudi femminili più o meno completamente definiti, sono state ritrovate scolpite o incise in ossa, o sassi, oppure nelle profondità più inaccessibili delle cave paleolitiche e neolitiche a partire dal 30.000 AC circa. Ma se la pietra viene interpretata come una sorta di metafisica vagina, abisso da cui tutta la vita viene e a cui tutta la vita ritorna, diventa chiaro come la scena rappresentata dalla stele di Snefru in connubio con la piramide di Micerino debba essere una scena di vita e di morte metafisica, non certo la rappresentazione di quel che di solito si intende come “un fatto reale”. Dunque, in contrapposizione al pene in posizione di riposo, rappresentato dalla galleria “incompiuta”, possiamo senz’altro immaginare che l’altra galleria rappresenti un pene vigorosamente eretto, che punta, con ogni verosimiglianza, verso quelle stelle del Nord che per gli Antichi Egizi erano la sede della la vita eterna. Ci basta immaginare di spostare la cuspide della Piramide un po’ a sinistra per comprendere come possa cambiare di significato la figura del personaggio vinto e sottomesso, che rappresentato con un grande pene in erezione sarà più difficilmente inteso come un essere destinato all’annientamento.
Questo modo di intendere simbolicamente il corpo e la sessualità umana appare molto spesso allo storico moderno, in modo conscio o inconscio (questo non ha molta importanza) come uno stupefacente segno di arretratezza in un mondo che per altro verso siamo inclini a rispettare profondamente – quasi come una bestialità degna di gente molto primitiva che si sia misteriosamente conservata nell’ambito di una civiltà tanto avanzata da poter scolpire rilievi di quel livello – e per di più usando un codice matematico che appare piuttosto raffinato. Ma è facile che questo genere di valutazioni e gli atteggiamenti di pensiero connessi, lungi dall’avere a che fare con qualcosa come una “realtà oggettiva”, dipendano invece dai pregiudizi protestanti e controriformisti che ci sono stati inculcati dalla nostra cultura, che anche in quella fase che è stata battezzata con lo strano nome di “modernità” ha cominciato ad accettare il nudo come uno spettacolo facilmente accessibile solo dal momento in cui la sessualità è stata radicalmente sganciata dal concepimento e dunque dal rapporto con il sacro. Ma è nozione comune che fino all’avvento dei metodi anticoncezionali la società borghese occidentale, come peraltro anche quella cosiddetta comunista, o socialista, ha considerato la rappresentazione del nudo e della sessualità umana come un tabù che poteva essere legittimamente oltrepassato solo in situazioni del tutto eccezionali, dopo che la non facilmente comprensibile pruderie controriformista era arrivata al punto di considerare osceni statue e dipinti che erano stati per lungo tempo tranquillamente esibiti in chiese o altri spazi sacri, anche ove si trattasse di veri e propri capolavori ammirati e rispettati da generazioni di fedeli come simboli assolutamente degni di incarnare la storia sacra raccontata nella Bibbia. È questo il fondamento dei pregiudizi culturali che ci fanno apparire una quasi-bestialità quel simbolo che appare puntando la Piramide di Micerino sull’occhio del Faraone.
Per liberarci completamente da questi pregiudizi, è bene ricordare che in tempi antichi e in altre culture le cose non andavano necessariamente così e, anzi, la pruderie Occidentale sembra scarsamente diffusa anche in un passato storico neppure poi così lontano. Nella Sparta degli eroi, che ancora oggi viene venerata da studiosi di ogni orientamento culturale quale insuperato esempio di abnegazione e di nobile dedizione ai valori virili più universalmente riconosciuti – il coraggio, la lealtà, la stoica accettazione del dolore e della morte, la calma e la misura anche nei pericoli più estremi – era uso comune tanto per gli uomini che per le donne – in specie quelle giovani e non sposate – andare in giro nudi “per modestia”, come dicevano i loro anziani agli stupefatti e scandalizzati stranieri, che non riuscivano a credere che esibendo il corpo formato dal quotidiano lavoro ginnico le giovani e i giovani Spartani non facessero altro che “andare in giro vestiti della loro virtù”. Ma se dall’austerità di Sparta passiamo alla raffinatezza di Atene, scopriamo un po’ stupiti che quella stessa donna maritata che in pratica non poteva mai uscire di casa, e di cui era considerato sconveniente anche solo pronunciare il nome in un luogo pubblico, vedeva l’ingresso della sua casa consacrato a una divinità simbolizzata da un fallo eretto, auspicio di fertilità e di fortuna, divinità a cui si dedicavano anche delle feste che, contrariamente a quanto crediamo oggi, non erano delle carnevalate messe in scena da ricconi con la passione per il porno unito a quello del burlesque, ma riti assolutamente seri, che avevano la stessa dignità di tutti gli altri. Se dalla Grecia Classica ci spostiamo in Asia, subito ci ricordiamo di come si possano ammirare in India degli splendidi templi le cui mura e le cui torri sono interminabilmente decorate da sculture di stile finissimo, che rappresentano scene di accoppiamenti di ogni sorta, o spazi sacri al cui centro domina gigantesca la figura di un fallo eretto – e altrettanto comune era a quanto pare la rappresentazione sacra della vagina (simboli di cui fra l’altro è facile intuire anche il possibile significato archeoastronomico, dato che l’asse dell’eclittica, quello attorno a cui gira la ruota della precessione, può essere interpretato come un fatto eternamente eretto, dato che rimane il centro costante nel mutare delle stelle polari, mentre la vagina può facilmente essere intesa come un simbolo della terra, che da questo cosmico fallo viene perennemente attraversata). Ora, nessuna persona minimamente dotata di senno può immaginare che opere similmente splendide siano la realizzazione di un tiranno folle e debosciato o di una civiltà di estenuati esteti dal fine gusto pornografico. Al contrario, lavori di questo genere ci spingono a pensare che nel passato più o meno remoto dell’umanità siano esistite culture anche molto sviluppate in cui gli organi genitali, l’attività sessuale e la corporeità nel suo complesso, lungi dall’esser tenuti come vergogne quasi innominabili, erano senz’altro adorati come visibili manifestazioni del divino nell’umano.
Una volta che ci ricordiamo di questo, non abbiamo nessun motivo di stupirci se anche per gli Antichi Egizi, una cultura giudicata oramai da secoli elaborata e raffinatissima – e che prove sempre meno questionabili ci spingono a ritenere anche tecnologicamente molto avanzata – la corporeità venisse considerata come un simbolo religioso, e non necessariamente come simbolo di scandalo. Erodoto ci racconta che in occasione di una festa di Dioniso (e dunque, presumibilmente, di Osiride) le donne egiziane portavano in giro una marionetta che rappresentava la divinità il cui fallo eretto – di una lunghezza leggermente inferiore a quella dell’altezza della statua – si muoveva continuamente avanti indietro per mezzo di un ingegnoso meccanismo. A parte questa testimonianza oculare, sono rimaste immagini sacre in cui, per esempio, si vede Iside mentre ridona la vita allo stesso Osiride per mezzo di un rapporto orale, una scena assolutamente impensabile nella nostra cultura se non come oltraggio e blasfemia. La sacralizzazione della sessualità e del corpo umano arrivava al punto che in uno dei loro miti della creazione troviamo che il dio Atum genera il mondo masturbandosi, inghiottendo lo sperma e generando poi il secondo e il terzo degli dei dell’Enneade, Geb e Nut (che sarebbero da intendersi, a quanto sembra, un qualcosa come l’umido e l’asciutto) orinando e defecando.
Quindi non solo non è affatto sorprendente, ma è invece storicamente congruo scoprire che le gallerie della piramide di Micerino rappresentano in successione il pene in riposo e poi eretto (o viceversa) come simbolo di morte e resurrezione di una divinità raffigurata in un rilievo di cui condivide il codice. Nulla di più conseguente che ipotizzare che i corridoi di quella Piramide siano stati fatti in quel modo proprio per essere sovrapposti al rilievo (o viceversa: che il rilievo sia stato fatto a quel modo per poterci sovrapporre la piramide) per rivelare così a degli iniziati uno dei messaggi esoterici che sono stati criptati in questa stele (e dunque anche nelle piramidi che ne condividono il codice). In effetti, se immaginiamo di spostare la piramide di Micerino un po’ sulla sinistra, ecco che la divinità soccombente non ha più un pene rilassato, un che si perde nella pietra, cioè nella morte, ma invece una decisa erezione, segno di vita e potenza, pronta per quell’eternità il cui simbolo cosmico erano per gli Antichi Egizi le stelle del nord, le stelle che non conoscono il tramonto. Nel suo complesso, la Piramide di Micerino, sovrapposta alla stele di Snefru, sembra mandare proprio questo messaggio: la morte, che appare all’occhio umano come un perdersi nella Pietra-Madre, è invece il passaggio verso una vita che non finisce, “la vita dei milioni di anni” di cui più volte si parla nei Testi delle Piramidi, e il cui concetto rimanda inevitabilmente alle interminabili ruote del pensiero indù.
2) IL CODICE GEOMETRICO DELLE STELI ANTICO EGIZIE
Naturalmente, oltre a dare motivo a riflessioni di ordine simbolico e religioso, la scoperta di quello che si è in tutta fretta battezzato come “il codice di Snefru” ha incoraggiato delle ricerche di tipo puramente geometrico, per controllore se questo stesso codice non potesse riguardare anche altre steli Antico Egizie: come era peraltro facilmente prevedibile subito si è visto che le cose stavano davvero così. Se osserviamo le tavole che seguono, in cui prendiamo in considerazione la stele conosciuta col nome di “Djoser running”, subito ci rendiamo conto che anch’essa è stata progettata con lo stesso codice, dato che contiene non solo le piramidi della IV Dinastia (che, lo ricordiamo, se seguiamo la storiografia ufficiale doveva aver inizio solo alcuni secoli dopo e proprio con il Faraone Snefru), ma anche le figure e i geroglifici che compaiono nel rilievo del Sinai. Addirittura, nella quarta figura, si evidenzia come anche la costellazione di Orione, i cui Angoli Sacri facevano parte a pieno titolo del codice di progettazione di tutte le piramidi e di tutte le statue della IV Dinastia (sul tema degli Angoli Sacri di Orione come base progettuale delle Piramidi si veda l’articolo di Gabriele Venturi, comparso su World Mystery il 7 novembre del 2012 dal titolo The Descending Corridors of Pyramids and the Narmer Stone: an Archaeoastronomical and Theological Perspective) sia molto probabilmente contenuta nel codice
Queste immagini danno indubitabilmente da pensare, e sarebbe facile gioco l’andare avanti a mostrarne altre per accrescere lo stupore più o meno superficiale che si può provare di fronte a un fenomeno inaspettato. Ma è forse meglio rimandare il lettore alla gallery per osservare altri esempi dei giochi geometrici che si possono ricavare dalle steli Antico Egizie, e in questa sede conviene invece concentrarci sul problema puramente geometrico che sembra posto da simili fenomeni – che potremmo definire di “intersezione significante”. In effetti, il primo pensiero che viene osservando queste immagini è che i due rilievi devono per forza di cose essere stati derivati da una matrice comune, dato che le intersezioni significanti si ripetono non solo sovrapponendo immagini diverse, ma, come ci apprestiamo a vedere qui sotto, anche nel caso in cui l’immagine venga, diciamo così, sovrapposta a sé stessa, ovvero muovendola in modo da andare a “incastrare” certe sue parti – che appaiono geometricamente significative – con altre che paiono congruenti
Il fenomeno appare abbastanza impressionante, sulle prime addirittura sconvolgente. Ma – almeno chi è esperto di problematiche connesse alla matematica e alla geometria – oppure anche alla musica – è di solito perfettamente cosciente del fatto che ciò che appare a prima vista anche molto complesso può avere e di fatto ha quasi sempre delle fondamenta piuttosto semplici, anche se magari non semplicissime. Tutti sappiamo quanto siano quasi mostruosamente complesse le operazioni matematiche necessarie agli esperimenti della meccanica quantistica, che sarebbero assolutamente impossibili senza l’ausilio di computer molto potenti. Eppure, gli esperimenti più semplici, quelli in cui si descrive il moto di una sola particella, si possono rendere geometricamente e dunque visivamente comprensibili a un pubblico anche non ferrato quanto all’alta matematica mediante un metodo di rappresentazione che risulta accessibile a chiunque abbia un minimo di istruzione e di intuizione (questo è un genere di esemplificazioni in cui riesce molto bene Feynman per esempio). Ma, ahimè, già passando dal caso più semplice a uno che coinvolge quattro o otto particelle le cose cominciano a diventare molto più difficili, fino a che i fenomeni in questione diventano solo pochi passi oltre semplicemente inimmaginabili, al punto che la fisica moderna di fatto può essere pensata solo mediante l’astrazione delle formule matematiche. Heisemberg sosteneva, forse non del tutto a torto, che in relazione al suo significato profondo tutto l’apparato iconografico con cui viene di solito divulgata la meccanica quantistica risulta una via di mezzo fra una falsificazione, una volgarizzazione e una truffa. Il caso dei rilievi Antico Egizi – pur non sembrando arrivare alla quasi irreale astrattezza della meccanica quantistica – potrebbe essere però simile; simile nel senso che la complessità dei fenomeni osservati o costruiti – come di quelli costruibili – potrebbe essere il risultato di una base infine piuttosto semplice, se fosse vera quell’ipotesi che in prima istanza, ancor prima di enunciare, ci accingiamo a mostrare per mezzo di immagini
Anche in questo caso, è doveroso avvertire il lettore che gli esempi che potremmo fare di congruenze di tipo aureo fra gli elementi del rilievo di Snefru sono più numerosi di quelli che di fatto abbiamo mostrato a esemplificazione della nostra ipotesi (per esempio, il geroglifico che sta davanti al falco coronato altro non sembra che una parte di una stella costruita dentro un pentagono, una figura geometrica intrinsecamente dominata dai rapporti aurei). Ma sarà bene lasciare ancora una volta alla gallery il facile compito di moltiplicare gli esempi, perché in questo momento ci sembra molto più utile mostrare come quello stesso genere di relazioni che caratterizza la stele di Snefru sembra caratterizzare anche altri rilievi Antico Egizi, appartenenti per di più a epoche del tutto diverse: una volta mostrato che la sezione aurea ha nell’apparato geroglifico e figurativo Antico Egizio nel suo complesso quello stesso peso che sembra avere nella stele di Snefru, ciò che appare evidente all’irriflessa immediatezza dell’intuizione si mostrerà vero anche alla ponderata lentezza dell’analisi. Osservando le tavole che seguono il lettore potrà dunque convincersi della plausibilità della nostra ipotesi, che possiamo riassumere in queste proposizioni:
I RILIEVI ANTICO EGIZI DI OGNI EPOCA SONO STATI COSTRUITI UTILIZZANDO LA SEZIONE AUREA IN MODO CHE:
1) OGNI MINIMA PARTE DI OGNI SINGOLA FIGURA E DI OGNI SINGOLO GEROGLIFICO SI TROVI IN UN RAPPORTO AUREO CON LA TOTALITÀ DEL GEROGLIFICO O DELLA SINGOLA FIGURA DI CUI SONO PARTE
2) OGNI SINGOLO GEROGLIFICO E OGNI FIGURA VADANO A COLLOCARSI NELLA TOTALITÀ SPAZIALE DEL RILIEVO SEMPRE E SISTEMATICAMENTE RESTANDO IN UNA RELAZIONE AUREA E CON GLI ALTRI ELEMENTI E CON QUESTA TOTALITA’ SPAZIALE STESSA.
3) QUESTO VUOL DIRE CHE FRA I PUNTI DI QUESTO SPAZIO NON ESISTE QUEL GENERE DI RELAZIONE – DICIAMO COSI’ – VUOTA, INFORME E MERAMENTE QUANTITATIVA CHE SI TROVA NELLO SPAZIO CARTESIANO, MA BENSI’ UNA COSTANTE RELAZIONE AUREA, TENUTA EVIDENTEMENTE COME SACRA.
4) CIÒ SIGNIFICA CHE IN QUESTO SPAZIO SI VA VERSO L’INFINITAMENTE GRANDE COME VERSO L’INFINITAMENTE PICCOLO SEGUENDO IL “PASSO” DI UNA SPIRALE DI FIBONACCI
5) QUINDI, IN UN CONTESTO DI QUESTO GENERE, SEMBRANO IMPENSABILI QUEGLI INFINITI TIPI DI INFINITO CHE CARATTERIZZANO LA NOSTRA MATEMATICA, IN PARTICOLARE QUELLO CONTINUO-LINEARE, CHE INVECE RISULTA ALL’OCCIDENTALE MEDIO COME IL PIÙ OVVIO E FAMILIARE
Ma, come sempre accade sempre nel campo della geometria, nessuna tesi e nessuna proposizione esplicativa può riuscire a spiegarsi meglio che la loro rappresentazione grafica
Come si vede analizzando le immagini, la sezione aurea appare caratterizzare lo spazio di rilievi Antico Egizi di epoca molto differente fra loro, da quello più antico, conosciuto con il nome di “Djoser running” fino a quello di Ramses – scolpito in un’epoca nella quale l’architettura sacra aveva preso una strada del tutto diversa da quella della IV Dinastia, passando dalla forma piramide a quella del tempio a colonne. Ma quel che sembra restare immutato è quel codice aureo da cui le dimensioni, le forme e i rapporti spaziali vengono derivati. Ancora più impressionante sembra il fatto che anche uno spazio architettonico vasto come il Plateau di Dahshur – e perfino quella “rozza” meridiana precessionale conosciuta con il nome di Circolo di Nabta Playa – sembrano rispondere a quelle medesime, “magiche “ proporzioni che caratterizzano le piramidi e i rilievi.
Che il Circolo di Nabta Playa sembri rispondere alle proporzioni della sezione aurea non ci risulterà poi così strano quando nelle immagini che seguono avremo osservato che i suoi angoli caratteristici sono inclusi anche nel rilievo di Snefru del Sinai, in quello conosciuto come Djoser Running, come anche nella Grande Sfinge, nel profilo della celeberrima statua in diorite che ritrae Chefren seduto sul trono, come anche nei condotti discendenti di due piramidi, una delle quali è la famosa Piramide Rossa; opere queste che, stando alla storiografia ufficiale, apparterrebbero a un periodo molto più tardo di quello in cui venne costruito e frequentato il Circolo di Nabta Playa. Per parte nostra, riteniamo che il modo in cui ordinariamente si vede lo sviluppo della forma piramide sia sbagliato, e che ci siano buone ragioni di ordine stilistico-morfologico per collocare sia il Plateau di Giza sia quello di Dahshur in un’epoca di molto anteriore al 10.500 AC, mentre le piramidi a gradoni, come peraltro quelle attribuite alla V Dinastia, ne dovrebbero essere un’imitazione tanto tardiva quanto rozza e malriuscita, realizzata in un’epoca in cui da molti millenni la tecnica per costruire opere del calibro della Grande Piramide era stata dimenticata o trascurata fino al punto che le piramidi attribuite alla V Dinastia sembrano a quanto pare essere crollate su sé stesse a pochi secoli dala loro costruzione. Eppure, anche se la tecnica architettonica era andata perduta, restava ancora vivo il codice geometrico per poterle progettare in senso formale, cioè per poterle costruire geometricamente. Ma rimandiamo l’analisi di questa complessa problematica storico-morfologica a un lavoro successivo per continuare a concentrarci sulle questioni, certo di non piccola portata, che si possono senz’altro si possono aprire immediatamente a partire dalle immagini che seguono
L’insieme di queste evidenze ci spinge dunque a ritenere che quella che a seconda dei punti di vista può essere considerata come la scoperta o l’invenzione dell’alta geometria debba essere retrodata almeno fino ai tempi di Nabta Playa, ovvero in un periodo da collocarsi fra il 5000 e il 7000 AC. Ma è nostra opinione che questo genere di geometria – come peraltro l’astronomia connessa – sia enormemente più antico, ovvero che provenga dal profondo di ciò che siamo soliti chiamare Paleolitico, tempi in cui – secondo la nostra ipotesi – si è voluto ricreare l’armonia della perduta Età dell’Oro attraverso una produzione architettonica e artistica fondata sul Numero d’Oro, un’entità matematica che nel nostro passato ancestrale ha molto probabilmente rappresentato un simbolo esoterico-religioso potentissimo, ritenuto capace di rigenerare – almeno nell’anima del fedele – quel paradiso perduto, variamente immaginato dalle diverse culture, in cui l’armonia regnava spontaneamente nella natura e fra gli uomini, e di difendere il mondo dalle onnipresenti e minacciose forze del caos. Per esempio, il celebre bisonte di Altamira non pare altro che una figura ricavata unendo circa 22 stelle del cielo del Nord, il cielo che sarà considerato dagli Antichi Egizi sede della vita eterna
Anche quel sistema di segni che si trova sempre nelle cave di Altamira, che è stato variamente interpretato come una massa informe di scarabocchi, come esempio di disegno astratto, o come frutto di visioni mistiche di sciamani in preda all’estasi, a ben vedere non sembra altro che un sistema di calendari, in cui si possono notare gli antenati della nostra parentesi graffa (sia pure usata dall’alto verso il basso e non da sinistra a destra), le parentesi tonde e vari esempi di codici a barre: ne riportiamo sotto solo due esempi, che però rendono bene l’idea, rimandando a un lavoro ulteriore la prova matematica di quanto andiamo dicendo[1].
[1] Per dare un’idea del lavoro che si può fare su questi simboli, possiamo analizzare il primo a sinistra, che siccome è piuttosto complesso ci apparirà al termine dell’analisi come il più significativo. Effettueremo il conteggio delle barre della prima striscia e delle ultime due includendo nel conto anche gli estremi del simbolo, dato che partiamo dal presupposto che in queste strisce sia stato effettuato un conto lunare: sembra allora logicamente significativo includervi anche gli estremi del sistema, perché la luna arriva a sorgere e a tramontare in punti estremi che si trovano più a Nord e a Sud che i due solstizi, così che il ciclo lunare sembra contenere dentro di sé quello solare. Dunque, considerando questo sistema di conteggio come una sorta di immagine dell’orizzonte astronomico, e considerando la traiettoria lunare quasi come una “parentesi vivente” che include dentro di sé i punti di levata del sole, si arriveranno a contare 27 barre: e il ciclo delle levate e dei tramonti della luna da nord a sud è giusto di 27.2 giorni. La striscia inferiore invece conta 29 barre: e il ciclo delle fasi lunari ne dura 29.5. Nella parte centrale di questa complessa struttura matematica si contano invece ventiquattro barre – molto più lunghe delle altre e piuttosto inclinate, di cui 17 vanno da sinistra a destra, e 7 da destra a sinistra: queste 24 barre sembrano rappresentare i 24 mesi di due anni solari, che si possono misurare con 24 mesi solari più o meno “normali” o con 24.75 mesi lunari di 29.5 giorni ciascuno. E i nostri lontani progenitori devono aver messo in relazione l’anno solare con quello lunare proprio in questo modo, o in un modo simile, dato che nella striscia incompleta, che sembra rimanere all’esterno del sistema, si trovano 18 barre, che diventano 20 se includiamo nel conto anche quei due tratti che uniscono la striscia al resto del sistema. Queste 20 barre potrebbero rappresentare proprio quello 0,75 % di mese lunare che manca al ciclo lunare per accordarsi in modo più o meno “perfetto” con quello solare (in effetti anche in questo modo rimane un errore di circa due giorni, dato che 29,5 x 0,75 = 22,125). Osservando le 24 barre centrali, lunghe e inclinate, si nota che l’ultima, ovvero la settima da destra, in connessione con la sesta da sinistra forma una sorta di “freccia”, che sembra “puntare” all’ottava barra della striscia superiore, quella dove nella nostra ipotesi si conta la durata del ciclo delle levate e dei tramonti della luna: e, curiosamente, quando il ciclo dei due anni solari finisce, il ciclo delle levate e dei tramonti della luna è trascorso più o meno all’80%. Più esattamente, dopo due anni solari è arrivato a 26 cicli interi che fanno 27.2 x 26 = 707,2 giorni, a cui mancano ancora 22.8 giorni per accordarsi con il conteggio dei due anni solari. In un ciclo di levate e tramonti della luna 22,8 giorni sono pari a 22,8 : 27,2 = 0,8382, ovvero più o meno pari a quella percentuale che sembra indicata dalla “freccia” che il sistema delle barre inclinate sembra formare al momento in cui va a terminare.
Ma è chiaro che le problematiche connesse a quest’ipotesi – che, ci rendiamo conto – appare sulle prime tanto radicale quanto archeologicamente infondata – non si prestano a essere sviluppate nel breve spazio di un articolo, e c’è da pensare che saremo costretti a ricorrere alla forma libro per poter dimostrare in modo inoppugnabile una tesi che a prima vista può legittimamente apparire come una fantasticheria priva di ogni fondamento. Ma, comunque sia, già dal materiale che abbiamo esposto in queste pagine sembra risultare inevitabile un radicale ripensamento dell’ultima fase preistorica dell’umanità, quella che precede l’epocale invenzione del segno scritto: se la sezione aurea caratterizza davvero un’opera come il Circolo di Nabta Playa allora davvero tutto quanto credevamo di sapere sul Neolitico si svelerebbe come un’illusione, e saremmo d’ora in poi costretti a pensare che quegli esseri umani – che abbiamo tanto a lungo immaginato come selvaggi più vicini alla condizione animale che a quella umana – siano stati al contrario tanto simili e tanto diversi da noi quanto lo erano, per esempio, Marco Polo e i Cinesi da lui descritti nel Milione.
Gabriele Venturi