LA STRUTTURA ARCHEOASTRONOMICA DELLA CAPPELLA DEI LEONI E DEI RINOCERONTI
DI CHAUVET IN RELAZIONE A QUELLE DEL CIRCOLO DI NABTA PLAYA
E DELLA CAMERA DELLA REGINA
A Laura, per esser stata luce
lungo gli anni oscuri.
Quelquefois je vois au ciel des plages sans fin
couvertes de blanches nations en joie.
Un grand vaisseau d’or, au-dessus de moi,
agite ses pavillons multicolores sous les brises du matin.
A. Rimbaud
1. Forse, l’esempio più utile per iniziare la nostra indagine sono delle strutture sacre recenti e ancora relativamente vicine al nostro modo di vedere il mondo, come la volta delle basiliche o dei battisteri bizantini, o quello delle cattedrali del barocco. In questo tipo di strutture oggi si entra attraverso una piccola porta – ricavata da un grande ingresso monumentale che oggi rimane quasi sempre chiuso. Poi, dopo un percorso rettilineo più o meno lungo, si arriva fino a una volta che sovrasta l’altare, in cui viene rappresentato il cielo. Naturalmente, l’immagine del cielo che lì possiamo contemplare non coincide affatto con le rappresentazioni astronomiche moderne, che lo vedono come uno smisurato spazio senza centro, in rapida espansione, in cui il caso ha sparso ammassi di gas che bruciano a temperature altissime, che forse solo per tradizione ancora chiamiamo “stelle”.
Al contrario, al tempo in cui queste volte vennero costruite, lo spazio aveva ancora un centro e una struttura di cieli (o, per meglio dire, di “sfere”) che vi ruotavano attorno. Il cielo più alto, quello per solito rappresentato nelle volte, veniva pensato come una sorta di motore immobile, che faceva ruotare quelli sottostanti. In questo Cielo supremo si pensava abitassero entità divine o divinizzate (le tre Persone della Trinità, gli Evangelisti, Santi, Beati, Angeli ed Arcangeli), che nelle volte barocche e bizantine si offrono alla contemplazione piena di speranza di chi, ancora in vita, tenta di entrare in contatto spirituale con quell’eternità in cui vede la sua futura beatitudine dopo il breve e tormentoso passaggio di questa vita terrena.
In questo genere di strutture sacre, lo splendore del divino e della vita eterna viene molto spesso sottolineato dall’abbondanza di ori e dorature di ogni sorta, al punto che l’oro pare una divina sostanza dalla quale i personaggi emergono come per magia, pur rimanendo di quest’oro profondamente intrisi e quasi in esso confusi (nella statuaria Antico Egizia si nota una simile intenzione estetica, anche se la materia è diversa dall’oro: accade infatti molto spesso che le figure scolpite nella pietra rimangano in parte confuse con essa; il che pare un indizio che quella sostanza divina che nel bizantino e nel barocco è rappresentata dall’oro, nell’architettura e nella scultura sacra Antico Egizia fosse rappresentata dalla pietra).
Nelle basiliche bizantine e nelle cattedrali barocche la dominanza dell’oro era un effetto estetico che veniva rafforzato molto spesso da una vetrata che, lasciando filtrare una luce bianco-giallastra e/o marrone, inclina ancor più l’occhio a – diciamo così – impastare gestalticamente le forme e i colori con gli ori e le dorature. Ancora oggi, ove i luoghi sacri siano conservati in buono stato e l’illuminazione adottata rimanga quella originale, quest’effetto si può ancora contemplare in tutta la sua profondità estetica, religiosa e metafisica.
2. È del tutto ovvio che il cielo rappresentato nelle volte bizantine o barocche, pur non avendo alcuna relazione con il modo “realistico” in cui lo vede qualsiasi occidentale moderno – astronomo o persona di media cultura che sia – non ha però, almeno apparentemente, nemmeno alcuna relazione con il modo con cui veniva visto da culture antiche o antichissime, come gli Antichi Egizi, i Babilonesi, o i Maya. Tutte genti che, proprio come i cristiani del bizantino e del barocco, vedevano nel cielo la sede del divino.
Una prima e del tutto ovvia diversità la possiamo rilevare nel fatto che questi popoli concepivano il mondo divino come composto da una molteplicità di dèi e non da un solo Dio. Ma questa differenza appare davvero trascurabile, in relazione a un’altra che appare ben più radicale e fondamentale. Infatti, queste antiche culture concepivano le entità celesti che si possono osservare nel cielo notturno e diurno – e dunque sole, luna, stelle e pianeti – come divinità in un senso assolutamente letterale e realistico. Tanto per i Maya che per gli Antichi Egizi il Sole, per esempio, non era da concepirsi come un dio in senso lato e metaforico, ma in senso immediato e diretto: vedere il sole era letteralmente vedere la divinità. Lo stesso valeva per qualsiasi altro corpo celeste divinizzato, fosse esso una stella, una costellazione, la luna o un pianeta.
Per fare un altro esempio, che riguarda da vicino l’oggetto di questo scritto, gli Antichi Egizi vedevano la costellazione di Orione letteralmente come Osiride, il dio della morte e resurrezione. A nessun sacerdote-astronomo di quel tempo sarebbe mai venuto in mente quel che oggi pensano tutti gli astronomi e gli uomini di media cultura occidentali, e cioè che questa costellazione, come tutte le altre, non sia nulla di più che un gruppo di stelle più o meno arbitrariamente e convenzionalmente separato dalle altre per dare un ordine qualsiasi al caos del cielo stellato, in cui, a prima vista, risulta del tutto impossibile orientarsi e in cui è molto difficile distinguere un’entità da un’altra.
Questa divinizzazione immediata dei corpi celesti a un cristiano del tempo bizantino sembrava probabilmente una terribile bestemmia (scambiare la creatura col Creatore). Invece, al tempo del barocco, molto prima che come una minaccia alle verità di fede e di ragione, una credenza di questo genere sarebbe stata forse giudicata più che altro come una follia degna di una mente barbara, frutto o di un’irrimediabile arretratezza o di una genuina inferiorità razziale (gli Indios adoratori del sole vennero giudicati privi di anima e ridotti in schiavitù con la stessa naturalezza e buona coscienza con cui lo facevano i Greci Classici con i prigionieri di guerra: con ogni probabilità, le loro credenze religiose, i loro riti e i loro idoli venivano visti come un segno della loro maggior prossimità al mondo animale e demoniaco degli istinti piuttosto che a quello umano).
Oggi come oggi, forse nessuno scienziato si sognerebbe di pensare e men che meno di scrivere che i popoli che chiamiamo “primitivi” siano privi di anima. Ma non vi è dubbio che, messo alle strette, non diciamo ogni scienziato, ma anche solo ogni uomo di media cultura moderno si senta costretto a bollare come una superstizione qualsiasi genere di credenza riguardante stelle e pianeti che li giudichi qualcosa di diverso da un ammasso caotico di sostanze chimiche. Fra gli astronomi vi sono senz’altro dei cristiani ferventi, ma anche loro, quanto alla natura del cielo e dell’universo, hanno radicalmente cambiato opinione rispetto ai loro correligionari di qualche secolo fa.
Infatti, se prendiamo Dante e la Divina Commedia come esempio dell’antica cosmologia cristiana, vediamo che rispetto a quel tempo le cose sono molto cambiate. Oggi come oggi Dio e il mondo divino non vengono collocati dalla teologia in una zona dello spazio oltre le stelle fisse e, in generale, l’al di là viene considerato come un ambito puramente spirituale, totalmente e assolutamente trascendente. Se di uno spazio divino pur si parla, sempre si tratta di uno spazio radicalmente “altro”, per così dire, di uno spazio fuori dallo spazio. Di certo, non si tratta della prosecuzione di quello in cui ci muoviamo tutti i giorni, che è stato radicalmente ed interamente “laicizzato” dalla scienza moderna.
In questo spazio, dove tutto è misurabile e calcolabile, non vi può essere alcun luogo privilegiato ove si possano legittimamente collocare le Tre Persone della Trinità, gli Angeli e gli Arcangeli, i Santi e i Beati. In questo senso, la cosmologia scientifica – oggi pienamente accettata dalla Chiesa Cattolica, che con Giovanni Paolo II giudicò l’idea del Big Bag in linea con il racconto della Genesi – esclude a priori che la Terra o qualsiasi altro luogo nello spazio possano essere considerati il centro dell’universo. Ma, se si esclude il centro, per forza di cose si debbono escludere anche tutte quelle sfere celesti che un tempo si credeva vi ruotassero attorno, compresa quella delle stelle fisse, al di sopra della quale si era soliti collocare Dio e tutte le creature a lui vicine.
3. Volendo adottare una prospettiva evoluzionista, risulta spontaneo attribuire al “selvaggio”, ovvero all’uomo appena uscito dal suo “stato naturale”, la credenza “ingenua” che la Terra sia il centro dell’Universo, e che il cielo sia la sede di divinità, raffigurate come animali o come creature per metà uomini e per metà animali. Queste figure venivano proiettate su sole, luna, pianeti, o forse “ispirate” da gruppi di stelle che suggerivano in modo più o meno diretto le loro forme, reali o fantastiche che fossero.
Ma, pur partendo da una conoscenza del cosmo tanto “primitiva”, lentamente ma inesorabilmente l’uomo “si evolve”. Pur considerando ancora la terra come centro dell’universo, con il paganesimo Greco Classico si cessa quasi del tutto di considerare come divinità le entità che si vedono nel cielo. Così, per esempio, quegli stessi dèi, che un tempo venivano identificati immediatamente con i pianeti, erano diventati al tempo di Aristotele del tutto simili a degli esseri umani, anche se immortali e molto più potenti (a questo proposito Aristotele scrive che “un tempo si credeva che gli dèi fossero pianeti”). La sede dove questi dèi si radunavano era a sua volta vicina e raggiungibile, la cima di un monte sacro, non più il cielo inaccessibile, e invece che con corpi celesti venivano identificati con entità terrestri, naturali o artificiali che fossero (una fonte o un albero erano considerati divinità, ma lo erano anche una porta o il focolare: in pratica, non vi era entità terrestre che non fosse considerata in qualche modo un dio).
Le entità celesti avevano già perso così gran parte di quell’enorme importanza che avevano rivestito nel passato profondo dell’umanità. Anzi, evoluzionisticamente parlando possiamo considerare il paganesimo Greco Classico come il primo passo compiuto dall’umanità verso un radicale abbandono della religione fondata sull’adorazione dei corpi e dei cicli celesti, che nel passato doveva essere assolutamente universale.
Con il cristianesimo però, questa concezione radicalmente “umanistica” e perciò panteistica della divinità introdotta dal paganesimo Greco Classico viene abbandonata, e il cielo torna in questo modo ad essere importante in quanto sede del divino. In effetti, un Paradiso situato oltre il cielo delle stelle fisse rende ancora bene l’idea della trascendenza senza perdere quella concretezza necessaria a un uomo che si suppone ancora non abbastanza “evoluto” per concepire il divino in modo totalmente spiritualizzato.
Ma questo rinnovato interesse del cristianesimo per il cielo non fa sì che il sole, le stelle, la luna ed i pianeti riacquistino alcuna vera importanza teologica. Il Dio uno e trino è un’entità spirituale e trascendente che viene prima del mondo e non nasce insieme ad esso, come accade nelle antiche religioni, che appaiono piuttosto radicalmente panteistiche.
Per esempio, nella visione Antico Egizia prima di Atum – la divinità suprema – vi era il nulla, e il mito non consente di comprendere se Atum sia creato dal Nulla stesso inteso a sua volta come una divinità (come si dice nel Tao, che il Nulla generò l’Essere), o se vi appaia magicamente per autogenerazione. Gli altri dèi dell’enneade vengono invece da Atum, che genera dapprima una coppia di divinità, che ne procreano altre e dalle quali alfine nasce anche l’uomo (che però non ha alcun posto centrale nella creazione, dato che gli Antichi Egizi consideravano che vi fossero animali molto più vicini al divino di qualsiasi essere umano, eccettuato il Faraone: un po’ come accade oggi in India con le vacche, o in altre parti dell’Asia con le scimmie).
Al contrario, il Dio del cristianesimo esiste prima e indipendentemente dal cosmo, e se è vero che ha creato il sole, la luna, le stelle e i pianeti, né lui né alcuno dei suoi angeli si possono identificare con essi, come con nessun’altra creatura immediatamente percepibile con i sensi, eccetto Cristo stesso, la cui permanenza nel mondo in forma umana è stata però di soli 33 anni e, contrariamente a quella di Dioniso, non è destinata a ripetersi. Inoltre, nel cristianesimo l’uomo ha un’importanza assolutamente centrale nella creazione, e i corpi celesti hanno agli occhi di Dio minor importanza dell’uomo. Nel Vangelo infatti, anche il più umile fra gli esseri umani appare creato con un’anima destinata a durare per l’eternità, mentre sole, luna, stelle e pianeti sono destinati a svanire alla fine dei tempi.
Certo, a ben vedere, nelle volte bizantine e barocche ancora restano delle vaghe tracce dell’antica importanza dei corpi celesti e dei calendari connessi. I dodici apostoli ricordano i dodici mesi dell’anno e dunque i dodici segni dello zodiaco, e in molti modi viene fuori il sette, chiara allusione alla settimana lunare (nella Basilica di S. Vitale in Ravenna Cristo viene rappresentato con sette personaggi a destra e sette a sinistra: si tratta probabilmente di un’allusione numerologica al ciclo delle fasi lunari).
Notevole sembra anche il fatto che nelle rappresentazioni bizantine la Santissima Trinità rimanda in modo quasi automatico alle tre stelle polari. I tre bastoni che le figure nella foto sotto tengono in mano non sembrano altro che gli assi polari corrispondenti a ognuna delle tre stelle che, nel corso dei circa 26000 anni di un ciclo precessionale, si succedono come centro di rotazione del cielo stellato. Allusioni al ciclo precessionale sembrano apparire anche nell’icona rappresentante S. Michele, la cui lancia pare indicare l’inclinazione del polo terrestre rispetto a quello dell’eclittica. Né sembra che possiamo spiegare in altro modo le braccia stese dell’Arcangelo e il semicerchio che le sovrasta, se non come simbolo del cerchio percorso dal polo terrestre attorno all’asse dell’eclittica. In modo simile possiamo spiegare anche il particolare angolo della Croce di S. Andrea
Ma, come abbiamo già visto, con un’ulteriore evoluzione del pensiero scientifico, tutte queste allusioni all’antica astronomia e astrologia svaniscono del tutto, al punto che nel cristianesimo moderno il cielo descritto dalla fisica è destinato a perdere anche il ruolo di sede, diciamo così, geografica del Paradiso. Questo in un certo senso pare ovvio. In un cosmo che ha perduto il centro, dove cartesianamente ogni punto equivale ad ogni altro, nessuno può seriamente teorizzare che un luogo possa essere la sede privilegiata del divino.
In effetti, relativisticamente parlando (ovviamente, qui ci stiamo riferendo alla relatività di Einstein, non al relativismo culturale) ogni punto d’osservazione vale l’altro, e dunque ogni stella o ogni galassia vale l’altra. È chiaro che a questo punto non si può più collocare Dio spazialmente “nell’Alto dei Cieli”, se lo spazio non conosce l’alto né il basso, né qualsiasi punto di orientamento oggettivo. Oggi, con tutto quello che sappiamo di fisica e di astronomia, ci sembra assolutamente incredibile che per un numero imprecisato di millenni gli esseri umani abbiano considerato assolutamente ovvio il fatto che la terra fosse il centro dell’universo, e che il cielo e le entità celesti fossero viste addirittura come delle divinità. La questione che affrontiamo in questo articolo è proprio questa: per quanti millenni è andata avanti questa credenza ovvero: da quanti millenni esiste? Da quanto e per quanto tempo astronomia e teologia sono state delle conoscenze complementari, o quasi dei sinonimi?
4. Come il lettore avrà intuito già dal titolo, la tesi che affermiamo in questo articolo è radicale. Con questo lavoro vogliamo mostrare che l’astronomia matematizzata, concepita come contemplazione del divino, è andata avanti come minimo per diverse decine di migliaia di anni, e che in questo momento non siamo in grado di neppur ipotizzare il punto iniziale di questa tradizione.
Entrando maggiormente nel dettaglio, la nostra tesi è che già al tempo di Chauvet, ovvero attorno al 30-32000 AC, tanto l’orizzonte notturno che quello diurno venivano attentamente scrutati e accuratamente (cioè geometricamente) descritti e che ciò avveniva da molte migliaia di anni. Che dunque già allora ci si era resi perfettamente conto dei mutamenti ciclici del cielo notturno, connessi con la precessione degli equinozi. Ancor più in particolare, lo scopo di questo articolo è di mostrare che quella che viene chiamata “la Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti” ha un senso teologico-astronomico – diciamo così – uguale e contrario a quello della Camera della Regina, che si trova all’interno della Grande Piramide di Giza.
Il primo passo che conviene fare per procedere nell’analisi è quello di osservare in quale punto delle cave si collochi e come sia orientato questo antichissimo sito, forse una delle più grandiose espressioni pittoriche che la cultura paleolitica ci abbia lasciato in eredità.
Come possiamo vedere, la Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti, che in questa piantina viene chiamata “End Chamber”, si trova all’estremità nord del complesso di cave che prende il nome dal suo scopritore – Jean-Marie Chauvet. La prima cosa che conviene notare è un fatto del tutto ovvio, tanto ovvio che viene per solito omesso da coloro che si occupano di siti come questo, ovvero che inoltrarsi nelle viscere della terra per quasi cinquecento metri risulta un’impresa di una certa consistenza anche per uno speleologo moderno, attrezzato di tutto punto. Oggi i pochissimi visitatori ammessi possono accedere alla caverna per mezzo di percorsi artificiali e con l’ausilio dell’illuminazione elettrica, con l’assoluta certezza di non perdere l’orientamento e di non fare brutti incontri: eppure, anche in questo modo, penetrare dentro queste viscere rocciose viene descritta come un’esperienza che può rivelarsi molto inquietante, se non proprio terrificante. Così, è facile immaginare che inoltrarvisi privi dei comodi supporti offerti dalla tecnologia moderna debba essere stata già di per sé un’impresa degna di nota, al di là della magnificenza delle pitture che vi furono poi eseguite.
Bisogna infatti considerare che a quel tempo le cave, oltre a costituire un pericolo di per sé, erano certamente frequentate da orsi e presumibilmente da leoni delle caverne, avversari temibili ovunque, ma particolarmente minacciosi in un ambiente di questo genere. Infatti, durante un eventuale combattimento questi e altri simili predatori, sul terreno scivoloso e a volte ripido e dissestato delle cave, avevano il vantaggio fondamentale di avere il doppio dei punti d’appoggio di un uomo. Anche in condizioni difficili come queste per un quadrupede è quasi impossibile perdere l’equilibrio, cosa che invece può accadere molto facilmente a un bipede.
Inoltre, siccome orsi e leoni le armi non dovevano tenerle in pugno, nemmeno potevano essergli di impaccio, o avere il timore di perderle. Le condizioni di buio assoluto davano un ulteriore vantaggio a questi animali, abituati ad orientarsi con l’udito e con il fiuto. Invece l’uomo, il cui organo di senso fondamentale è la vista, non aveva allora a disposizione altro tipo di illuminazione che quella piuttosto incerta delle torce.
Stante ciò, nessuna persona minimamente dotata di buon senso, e in particolar modo uno storico, o un antropologo o un paleontologo, può anche solo ipotizzare che degli esseri umani culturalmente evoluti si siano gettati in un’avventura così terrificante senza avere un obbiettivo più che serio. Il livello estetico delle pitture che sono state ritrovate in queste cave è talmente alto che nessuno può pensare che coloro che ve le hanno tracciate fossero “degli stupidi selvaggi”, ovvero degli incoscienti che spingendosi in quegli abissi non avessero idea dei rischi a cui andavano incontro. Se questi rischi vennero in ogni caso affrontati, dobbiamo per forza di cose immaginare che vi fosse in gioco un obbiettivo che doveva essere per loro molto importante, o, per meglio dire, sacro.
Questo è un pensiero molto arduo per un intellettuale moderno, perché oggi come oggi siamo quasi del tutto incapaci di credere che un essere umano possa rischiare la vita del corpo per degli scopi che hanno a che fare con la vita dello spirito (una parola che, nel clamore del consumismo imperante, ha perso forse qualsiasi reale significato, almeno a livello collettivo). Eppure, ci basterebbe pensare alla vicenda non poi così lontana delle Crociate per renderci conto che nel passato, quella che oggi appare una follia o un’eccezione del tutto straordinaria, era al contrario la più ovvia delle regole.
Quelle migliaia di nobili del Nord Europa che fecero migliaia di chilometri per andare a combattere con addosso decine di chili di ferro arroventati da un sole che passava facilmente i cinquanta gradi, non lo fecero per scopi che oggi giudicheremmo “razionali”, ovvero per una qualche “utilità” (anche perché qualunque utilità diventa inutile quando si è morti). Semplicemente, quelle erano persone che credevano fermamente che le terre che andavano a conquistare fossero sacre e che la loro sacralità dovesse essere difesa con le armi.
Anche i monumenti più splendidi che possiamo trovare nella tradizione cristiana non nacquero per motivi che avessero a che fare con qualche utilità pratica. Per esempio, Piazza dei Miracoli a Pisa, un vero miracolo di proporzioni ed elaborazione decorativa e architettonica, non fu voluta dai potenti del luogo per confermare in questo modo il loro potere (è questo lo scopo “razionale” che spesso si attribuisce a monumenti come le Piramidi): venne voluta dal popolo per ringraziare la Madonna per la vittoria sui saraceni.
In generale, quanto di bello, grande e importante possiamo trovare nel mondo attuale o in quello storico non ha nulla a che fare con qualche genere di “utilità”, o con “scopi pratici”. La gloria non è mai connessa con l’utile, ma con il divino, cioè con delle fedi religiose. Per esempio, la fede più diffusa del nostro tempo è la “fede nel progresso”, ed è proprio questa fede a “spiegare” la produzione di gadget elettronici o automobili dalle prestazioni sempre più mostruosamente esorbitanti rispetto ai bisogni reali di chi li acquista, non la loro presunta “utilità” (in specie se si pensa che utilizzare un’auto moderna al 50% delle sue possibilità in un contesto quotidiano costituisce un reato molto grave, che in certi casi conduce dritti dritti alla galera).
5. Dunque, nelle caverne di Chauvet e nelle altre che furono poi dipinte non ci si avventurò per caso, ma furono invece consapevolmente ed intenzionalmente esplorate. Nel profondo di esse si cercava qualcosa: ma cosa? Invece che procedere per ipotesi fondate sulla mentalità dell’uomo moderno, andiamo a vedere cosa hanno trovato o cosa possono aver creduto di trovare queste persone – che vedevano le entità celesti come divinità – in quella che è stata chiamata Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti.
Entrando, più o meno nel centro della sala, vi è uno spuntone roccioso in forma di stalattite. Nella piantina sottostante viene indicato con il nome “The Sorcerer” a causa della figura che vi è stata tracciata, e che analizzeremo dopo nei dettagli. Questo spuntone roccioso si trova di fronte a una cripta attorniata da pitture piuttosto enigmatiche, quello che nell’immagine sottostante è chiamato “Panel of Liones and Rhinos”
Quella figura che nell’immagine sopra viene chiamata “The Sorcerer” viene anche molto spesso definita come un Minotauro, dato che, come vediamo sotto, se i suoi organi genitali sembrano indiscutibilmente quelli di una donna, sembra altrettanto certo che siano stati collocati fra le gambe di quello che può sembrare un toro (o forse si tratta di un bisonte).
Se la osserviamo con attenzione, vediamo che la strana forma che assume questa figura deriva dal fatto che questo Minotauro non viene rappresentato di fronte o di profilo, ma bensì mentre va ad avvitarsi con il busto intorno alla pietra su cui è dipinto (anzi, guardando ancora più attentamente, si può avere la sensazione che il Minotauro si avviti su sé stesso, o, più precisamente ancora, che ruoti con il busto attorno alle sue gambe posteriori e ai suoi genitali). Infatti, come si può ben vedere dalla serie delle tre foto, la zampa anteriore sinistra – che possiamo senz’altro attribuire al Minotauro – è identica all’altra nel cui incrocio è stato collocato il sesso femminile che verosimilmente dovrebbe trovarsi fra le zampe posteriori. Quindi nel dipinto sembra che troviamo anche quest’altra stranezza, o quest’altro paradosso: che il sesso della creatura viene rappresentato fra una zampa posteriore che è rimasta immobile e una anteriore che assieme al busto ha girato attorno alla pietra.
Sembra che possiamo essere certi che entrambe le zampe appartengono al Minotauro perché non si possono riconoscere nel dipinto altre figure animali o umane a cui poterle attribuire. Infatti, il leone che vediamo nella foto a destra – che pure sembra avere qualcosa a che fare con il Minotauro – ha le zampe anteriori correttamente posizionate sotto al collo (anche se sono appena accennate). Dunque, l’unico modo plausibile di interpretare questa figura sembra questo: che il Minotauro viene rappresentato come un’entità che si avvita o su sé stessa o attorno alla pietra su cui è dipinto, ruotando in senso antiorario (assumendo come punto di riferimento la punta della pietra vista dal basso). E, a questo punto, qualsiasi archeoastronomo avrà sentito risuonare delle corde familiari, dato che proprio questo è il senso di rotazione della precessione degli equinozi.
Ci incoraggia in questa interpretazione anche la particolare forma della pietra, che in specie nella sua ultima parte ricorda decisamente quella di un cono. In questo modo, può essere facilmente paragonata a un fuso, un oggetto che è servito più volte come metafora mitica del ruotare dell’asse polare (e dunque anche delle stelle polari) attorno a un centro che invece rimane immutato, cui non corrisponde alcuna stella. Mettendo accanto le immagini il paragone, che su un piano astrattamente intellettuale può sembrare assurdo, dal punto di vista visivo risulta infine addirittura ovvio
Graham Hancock in “Sciamani” segnala che nelle grotte di Altamira si trova un bisonte dipinto su una simile escrescenza rocciosa, che però, in questo caso, sale dal basso verso l’alto. E’ possibile che essa possa riferirsi al “fuso precessionale” che si trova nell’emisfero Sud del nostro pianeta
L’ipotesi che questa roccia – assieme con il Minotauro che vi è dipinto – rappresenti il “fuso” della precessione diventa praticamente obbligatoria nel momento in cui cerchiamo di dare un senso ai leoni e ai rinoceronti che vediamo dipinti sulla sinistra della cripta, che si trova esattamente ad Ovest del Minotauro. Infatti, le figure che vediamo nella foto panoramica sottostante, a ben vedere, non sembrano ritrarre una molteplicità di animali simili, ma invece un solo leone e un solo rinoceronte – rappresentati però in movimento attraverso una sequenza di quelli che oggi chiameremmo senz’altro “fotogrammi”.
6. Proviamo ad analizzare il leone e il rinoceronte sulla sinistra della cripta. La loro traiettoria, se dal punto di vista “naturalistico” appare molto strana, per non dire del tutto assurda, dal punto di vista astronomico appare invece piuttosto familiare. Osservando l’immagine sottostante potremo avere un’idea più chiara di ciò di cui stiamo parlando
Il leone a sinistra della cripta, con un po’ di fantasia, lo si potrebbe interpretare naturalisticamente come un leone mentre rialza quasi timidamente la testa (o viceversa). Invece, il movimento descritto dal rinoceronte sembra del tutto innaturale, come del tutto innaturale appare anche in molti dei “fotogrammi” la sua postura. Questo rinoceronte – come del resto quasi tutte le altre figure che si possono trovare a Chauvet e nelle altre grotte del paleolitico – pare galleggiare senza peso e senza punto d’appoggio – quasi come un palloncino delle fiere – in un ambito che non sembra di certo quello ordinario. Per di più, la sequenza delle sue posizioni fa sì che esso paia come “tuffarsi” verso il basso ruotando sulla propria parte posteriore. Per un rinoceronte questa è senz’altro una cosa stranissima, che appare ancora più strana se notiamo che, giunto al punto più basso del suo “tuffo”, l’animale pare cominciare a “riemergere”, proprio come trascinato dalla forza di spinta di un liquido in cui si sia immerso, e non dalle sue gambe.
E, a questo punto, non può non venire in mente il Dio biblico nel mentre separa le acque che sono sopra il firmamento da quelle che sono sotto il firmamento.
6Dio disse: “Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque”. 7Dio fece il
firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. 8Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno. 9Dio disse: “Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto”. E così avvenne. 10Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona.
Qui, con ogni probabilità, con la parola “firmamento” si intendono i dodici segni zodiacali su cui il sole sorge durante l’anno. Dunque, “le acque che sono sopra il firmamento” sarebbero in realtà lo spazio cosmico sopra il piano dell’eclittica, mentre “le acque che sono sotto il firmamento” sarebbero lo spazio cosmico che si trova sotto il piano dell’eclittica, intendendo come “sopra” il nord terrestre e come “sotto” il sud.
Questo tipo di interpretazione non deve sorprenderci troppo, dato che la Bibbia fu probabilmente influenzata dal sapere ermetico Antico Egizio dove il Sole e le stelle vengono rappresentati come barche: il che ci fa supporre che lo spazio dove si muovevano venisse interpretato metaforicamente come “acqua”. Quindi è facile che “il mare” sia lo spazio cosmico che sta al di là del cerchio dei dodici segni zodiacali (che nell’Apocalisse diventano le dodici porte della Gerusalemme Celeste) mentre la Terra sia lo spazio cosmico entro questo limite astronomico-simbolico: ed è solo in questo senso, molto raffinato e complesso, che la Terra viene definita “piatta”.
In realtà, sembra che già nell’antichità profonda dell’umanità si avesse un’idea molto chiara della natura dell’universo, al punto che in un sito come quello di Nabta Playa (7000 AC) si sono riscontrate delle prove indubitabili che i suoi costruttori conoscessero le distanze relative delle stelle della cintura d’Orione dalla Terra (cfr. The Snefru Code parte 8). Dunque il rinoceronte di Chauvet dovrebbe essere un’entità celeste che galleggia nelle acque che si trovano sopra la Terra, come del resto il dio Sole degli Antichi Egizi, raffigurato mentre traversa il cielo su una barca: cioè galleggiandovi sopra.
Se teniamo conto di questo, la stranezza della rappresentazione che vediamo nelle pareti della Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti diminuisce di molto, dato che il tutto sembra rientrare nella visione astronomico-religiosa dell’universo che è durata in Occidente e nel Medio Oriente fino a circa un millennio e mezzo fa. Nel secondo “fotogramma” in cui viene rappresentato nel suo movimento di “riemersione”, il rinoceronte si volta dalla parte opposta, quasi a sottolineare in questo modo l’inversione di direzione del suo movimento. L’impressione di enigmaticità o addirittura di assurdità che emana da questa pittura sarebbe intollerabile, se non ci rendessimo conto che l’arco disegnato tanto dai leoni che dai rinoceronti è straordinariamente vicino a quei circa 45°-47° di oscillazione apparente che le stelle compiono all’orizzonte nella metà di un ciclo precessionale, cioè in circa 13000 anni
Qui conviene notare che Hans Georg Bandi, professore emerito all’università di Berna, nel suo articolo dal titolo “Uno straordinario sguardo nella grotta di Chauvet” dice che i felini rappresentati nelle celebri cave francesi (che sono tutti leoni delle caverne, eccetto uno) sono 72: questa è la durata in anni solari di quello che viene tradizionalmente chiamato un Giorno Precessionale, pari a 26000 : 360 = 72,222. Forse adesso ci sarà qualcuno disposto ad accettare che questo è qualcosa di più di un mero caso, come forse non è nemmeno un caso che i mammut siano 66, proprio come le parti in cui è diviso l’Antico Testamento, né che i cavalli siano proprio 40, che è di nuovo il numero più significativo che compare tanto nel Nuovo che nel Vecchio Testamento.
Forse giova ricordare anche un episodio dei Vangeli Apocrifi, raccontato dallo Pseudo Matteo (Seconda Parte, 31), in cui Gesù, passando una strada che da Gerico va verso il fiume Giordano (una strada su cui si diceva si fermasse l’Arca dell’Alleanza), entra in una grotta dove una leonessa nutriva i suoi piccoli. Da quella strada nessuno poteva passare senza correre il rischio di essere assalito. Però Gesù scende nella caverna e gioca coi cuccioli, mentre viene adorato da quelli adulti. Poi, accompagnato da loro, esce alla luce del giorno. Considerando tutte le reminescenze biblico-numerologiche che troviamo a Chauvet, non è escluso che lo Pseudo Matteo conservi tracce di un culto astronomico antichissimo, e che dunque quei leoni che Gesù ammansisce siano proprio quelle divinità stellari che troviamo a Chauvet.
Ma, tornando al nostro argomento principale, vediamo all’interno della cripta attorno alla quale si muovono in modo tanto innaturale queste figure di leone e di rinoceronte, si vede un cavallo, il cui galoppo va in direzione contraria a quel Minotauro che – nella nostra interpretazione – rappresenta il “fuso” disegnato nel cielo dal movimento dell’asse polare intorno a quello dell’eclittica. Lo si intravede nella foto panoramica dell’affresco che abbiamo visto sopra, ma in questa sottostante lo si può vedere ancora meglio
Dunque, un’ipotesi archeoastronomicamente plausibile è che questo cavallo rappresenti il Sole, che percorre ogni anno lo zodiaco in direzione opposta a quella della precessione. Quest’ipotesi è ulteriormente rafforzata dal fatto che in questa stessa cappella troviamo un dipinto che sembra rappresentare uno stesso cavallo con quattro diversi tipi di mantello. Ed è stato da più parti osservato che ogni mantello potrebbe rappresentare il simbolo di una diversa stagione dell’anno. Possiamo osservare questo dipinto nell’immagine sottostante
Che il cavallo possa essere un simbolo solare, e dunque del cosmo che muore e rinasce seguendo il ritmo del sole, lo troviamo confermato anche da uno dei testi di saggezza più antichi di cui la tradizione orale ci abbia tramandato il testo, e di cui ben difficilmente qualcuno potrà mai perscrutare la profondità delle origini. Nei primi versi delle Upaniṣad troviamo scritto
La testa del cavallo sacrificale è, invero, l’aurora, il suo occhio è il sole, il suo respiro è il vento, le sue fauci sono il fuoco Vaiśvānara, il corpo del cavallo sacrificale è l’anno. Il suo dorso è il cielo, il suo ventre è l’atmosfera, il suo addome è la terra, i due fianchi sono le direzioni cardinali, i costati sono le direzioni intermedie, le membra sono le stagioni, le giunture sono i mesi e le quindicine, le zampe sono il giorno e la notte, le ossa sono le stelle fisse e le sue carni sono le nuvole. Il cibo semidigerito è la sabbia, le sue vene sono i fiumi, il fegato e i polmoni sono le montagne, i suoi peli sono le erbe e gli alberi. La sua metà anteriore è il sole levante, la metà posteriore è il sole calante; quando apre la bocca saettano i bagliori; quando scuote la testa, rimbomba il tuono; quando orina, piove. Il suo stesso nitrito invero, è la Voce.
Queste parole sono di solito datate a qualche migliaio al massimo di anni fa, ma non è detto che questa ipotesi corrisponda a una verità storica. Noi siamo abituati a vivere in un mondo proiettato verso il futuro, dove la conservazione del passato è una sorta di passione collezionistica riferita a oggetti o pensieri che non hanno più vitalità alcuna (la parola “museo” deriva dal greco μυδειον, “luogo sacro alle Muse”: ma non è chi non veda che i musei sono invece esattamente il contrario di questo, cioè una sorta di cimitero delle Muse). Ma, proprio a causa della mania occidentale per il collezionismo storicista, abbiamo testimonianze ubique di civiltà millenarie dove il passato veniva visto come la sede di una perduta Età dell’Oro, dove ogni mutamento veniva visto come un segno di decadimento, e dove la conservazione della tradizione coincideva con la vita stessa. Civiltà dunque completamente estranee all’idea di un progresso in cui il passato viene continuante superato proiettandosi verso un futuro che nel pensiero ha già superato il presente in cui eppur si vive. Stando così le cose, non è impossibile che questi versi delle Upaniṣad provengano da profondità temporali ancor più antiche di quelle testimoniate dalle pitture di Chauvet.
7. Seguendo questa linea di interpretazione, potremmo ipotizzare che la cripta con il cavallo che corre in senso antiorario, che si trova ad Ovest, rappresenti questo punto cardinale non “oggettivamente”, in quanto entità geografica convenzionale e astratta, ma miticamente in quanto “porta” attraverso cui il sole (e il cosmo tutto, seguendo l’interpretazione upaniṣadica del cavallo in quanto simbolo di un universo in perenne e ciclico mutamento), tramontando, entra nel mondo sotterraneo.
In particolare, il tramonto all’equinozio d’autunno potrebbe esser stato vissuto come una sorta di morte annuale di un sole divinizzato, dato che da quel momento in poi il tempo in cui compare all’orizzonte comincia ad essere minore di quello in cui rimane sotto l’orizzonte (cioè, miticamente parlando, nel mondo sotterraneo). Questo mutamento nell’equilibrio fra il tempo diurno e quello notturno potrebbe esser stato interpretato in modo religioso, come una vittoria – diciamo così – delle forze delle tenebre su quelle della luce. Questa cosmica sconfitta del sole potrebbe esser stata vista come una morte della divinità da esso incarnata, oppure come un principio di quell’agonia che conduce al solstizio d’inverno, un altro momento topico del ciclo solare, in cui si può simbolicamente vedere tanto la morte definitiva del sole quanto il principio della sua resurrezione (oppure la morte del vecchio sole e la nascita di quello nuovo: si pensi che ancora oggi parliamo di un anno vecchio che muore e di uno nuovo che nasce).
In effetti, attorno al momento del solstizio d’inverno il punto di levata del sole – osservato a occhio nudo – sembra rimanere immobile per alcuni giorni, mentre fino a quel momento procedeva verso Sud. Ed è noto che questo momento di stasi apparente è stato interpretato da molte religioni come una temporanea morte del sole, la cui rinascita viene associata al momento in cui l’inversione della direzione del suo punto di levata comincia a rendersi percepibile.
Dopo il solstizio d’inverno, questo punto comincia a spostarsi verso il Nord, l’altezza massima raggiunta durante la sua traiettoria cresce, mentre le giornate cominciano ad allungarsi sempre di più. L’inversione del ciclo, che è stata interpretata da un numero enorme di culture come un cammino di resurrezione, va avanti fino al momento in cui all’equinozio di primavera la situazione si riequilibra e comincia a ribaltarsi. Da allora in poi, come forse direbbero gli uomini di Chauvet, il tempo in cui il sole “cavalca” all’orizzonte comincia a diventare maggiore di quello in cui “cavalca” nel mondo sotterraneo, e la luce prepara il suo ciclico trionfo che si verifica nel giorno del solstizio d’estate, in cui il sole si leva nel punto più a Nord e la durata del giorno, come anche l’altezza che raggiunge nel cielo, sono massime.
Seguendo questa linea interpretativa, il tramonto all’equinozio d’autunno, oltre a rappresentare miticamente il momento in cui il sole comincia la sua agonia, sarebbe anche il punto di riferimento che questi uomini hanno preso per misurare le variazioni di posizione di almeno un paio di costellazioni – che per il momento non sappiamo come identificare – durante il ciclo precessionale. Il bisonte che si “tuffa” e che poi comincia a “riemergere” dovrebbe quindi rappresentare la variazione della posizione in cui certe stelle diventavano visibili al momento in cui il sole tramontava. E, siccome vi è un completo semicerchio di discesa e uno parziale di ascesa, il bisonte di Chauvet dovrebbe rappresentare un periodo di tempo di circa 15000 anni.
L’affresco di Chauvet risulterebbe dunque, seguendo questa linea interpretativa, come una serie di “fotogrammi del cielo”, visto e sentito come uno spazio sacro in cui divinità dall’aspetto animale – durante l’anno solare come nei millenni – oscillano e si muovono in un circolo inverso: durante il ciclo precessionale, le stelle sullo sfondo oscillano in alto e in basso e si spostano in direzione antioraria, così che al tramonto (come all’alba) dell’equinozio di autunno (e anche di quello di primavera), la costellazione che compare sulla cresta luminosa del sole che svanisce (o sorge) all’orizzonte cambia ogni duemiladuecento anni circa. Invece, durante l’anno, il sole si muove attraverso lo zodiaco in direzione oraria, e il segno su cui sorge cambia una volta al mese.
Sulla parete Est della Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti, a circa due metri di altezza dal suolo e in un punto situato piuttosto a Nord, vi è una sorta di terrazzo – che nella cartina che abbiamo mostrato sopra viene chiamato Belvedere. Questa sorta di terrazzo è di accesso molto difficile. Eppure vi sono prove che gli antichi esploratori lo abbiano più volte raggiunto passando per una via che richiede un’ottima abilità speleologica. Siccome il terrazzo è situato a circa due metri di altezza, da lì si può contemplare questa scena cosmica da una prospettiva sopraelevata, che potrebbe rappresentare il punto di vista di una divinità di qualche genere. È del tutto probabile che l’essere umano che si è spinto fin lì, probabilmente un sacerdote, si volesse identificare con questa divinità, che però non è chiaro quale possa essere. Tutto quel che possiamo dire è che l’angolo che il Belvedere forma con lo spuntone di roccia su cui è dipinto il Minotauro, sembra piuttosto vicino a quello che la Terra percorre da solstizio a solstizio in relazione all’eclittica, sia durante ogni anno solare, sia nel corso della metà di un ciclo precessionale, quando lo stesso punto dell’orbita intorno al sole si trasforma da equinozio di primavera in equinozio d’autunno (o da solstizio d’inverno in solstizio d’estate). Stante l’abitudine degli antichi di divinizzare le entità celesti, può darsi che il polo dell’eclittica fosse considerato un dio. Forse il maggiore di tutti, dato che è quello che è destinato a non mutare per tutta l’eternità, essendo l’immobile centro del cerchio tracciato dalla ruota cosmica che perennemente ritorna su sé stessa.
A questo proposito, nel loro best seller “Custode della Genesi”, Hancock e Bauval fanno alcune osservazioni che possono tornare molto utili al ragionamento che stiamo svolgendo in questa sede
Per esempio, ciò che Reymond chiama «la manifestazione della resurrezione del primo mondo sacro», nei testi di Edfu prese la forma di una colonna o di un’asta verticale «la Pertica» su cui era posato un grande uccello, il Falco Divino. A Eliopoli si ergeva un pilastro (Innu, il nome egizio di Eliopoli, in realtà significa «pilastro») su cui si riteneva che un altro uccello «Divino» – il Bennu o fenice – andasse a posarsi. E’ interessante che il geroglifico di Eliopoli – una colonna sovrastata da una croce sopra (o accanto) a un cerchio diviso in otto parti – sia di fatto identico a un geroglifico che illustra la «Pertica» di Edfu riprodotta da Flinders Petrie ne suo Royals Tombs of the Earliest Dynasties.
G. Hancock, R. Bauval, Custode della Genesi, TEA, 1997, p. 261
E’ del tutto possibile – anzi, secondo noi molto probabile – che questo Falco Divino o Fenice che periodicamente si posa sulla pertica possa non essere altro che la Costellazione del Cigno (di cui ci occuperemo anche in seguito) che si trova vicinissima al cerchio tracciato nel cielo dalla Precessione, come possiamo vedere nell’immagine sottostante
Ora il cielo nell’Antico Egitto, e dunque anche il cielo eterno del Nord, era considerato una divinità femminile, il cui nome era Nut. Nella rappresentazione che vediamo qui sotto vediamo che la costellazione del Cigno corrisponde con discreta precisione all’utero di Nut
Sembra dunque possibile che, quando il ciclo precessionale portava l’asse della Terra a passare accanto (o meglio: sull’ala) di questa costellazione, questo doveva segnare l’inizio di un nuovo ciclo: era probabilmente questo il significato del mito della Fenice che rinasce dalle sue ceneri, o quello del Falco Divino che si posa sulla Pertica.
Comunque, si dirà, queste sono solo supposizioni. Di certo c’è solo che è molto, molto difficile pensare che il fatto che ritroviamo questa stessa inclinazione tipica in molte opere celebri dell’Età della Pietra sia il frutto di un mero caso
Anche in The Snefru Code parte 5 abbiamo visto che allusioni all’asse dell’eclittica si trovano un po’ in tutto il Neolitico. In forma un po’ criptica, si trovano anche in un luogo ove non ci si aspetterebbe affatto di trovarle, ovvero nell’inclinazione del tetto della Camera della Regina, che corrisponde alla sezione aurea dell’angolo descritto dal Polo Terrestre fra solstizio e solstizio (23,5 + 23,5 = 47° : ɸ ≈ 29°). Vedremo poi quanto questo particolare architettonico della Grande Piramide risulterà prezioso per comprendere fino in fondo il significato della Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti di Chauvet
Ritroviamo questo stesso angolo tipico in due famosissime dipinti e in un non meno famoso allineamento fra edifici sacri, opere che sono state realizzate in epoca relativamente recente in Occidente. Forse troviamo qui un indizio che l’eredità ermetica dell’Antico Egitto è qualcosa di completamente diverso e di molto più serio che un mito letterario fra i tanti
Un secondo indizio consiste nel fatto che gli angoli tipici dell’allineamento di San Michele Arcangelo sono al tempo stesso angoli caratteristici dell’atomo di idrogeno: proprio come quelli del circolo di Nabta Playa
Parlando dell’eredità ermetica Antico Egizia, sarà forse utile notare di passaggio che il quadrato che ha per lato ħ (la costante di Dirac, ottenuta dividendo la costante di Plank per 2π) ha un’area pari a 1,0545716882 = 1,112121. Se dividiamo per 2 questa cifra arriviamo a 0,55606. Ora, Se interpretiamo numerologicamente questa cifra come una tangente scopriamo che è proprio quella di un angolo pari a 29,076, estremamente simile alla sezione aurea dell’angolo di 47° e dunque all’inclinazione della Camera della Regina. E, fatto ancora più strano, forse nessuno si è mai accorto che si può ricavare la costante di Newton da ħ con la formula G = 6ħ2 = 6,672. Questo significa che la costante G corrisponde alla superficie di un cubo con spigolo pari appunto a ħ: chissà che non sia proprio questo uno dei possibili significati del cubo inteso come uno dei cinque elementi, la terra, che abbiamo visto nella parte di The Snefru Code part 3 dedicata a Platone .
Per fare un altro esempio, se prendiamo un pentagono con perimetro pari a alla costante di Dirac ħ = h/2π vediamo che la sua area è pari (ħ2 x 0,6882 : 2) = 0,382680. Facendo la radice quadrata di questo numero arriviamo a √0,382680 = 0,61860. Questo significa che possiamo ricavare una buona approssimazione di ħ facendo √[(1/ɸ2 : 0,6882) x 2] = 1,053586, un numero che per di più corrisponde in modo quasi perfetto al rapporto fra anno solare e anno delle eclissi, dato che 365,25 : 346,6 = 1,053808. Si tenga anche presente che √0,382680 = 0,61860 corrisponde in modo quasi perfetto all’approssimazione a ɸ che troviamo nella Piramide di Cheope meno 1, dato che 1,61859 – 1 = 0,61859.
Come noto, il pentagono era una figura geometrica che i pitagorici tenevano per sacra e, analizzando minimamente alcune sue caratteristiche (un’analisi più dettagliata la rimandiamo ad un lavoro successivo) ci rendiamo conto che le relazioni che questa figura geometrica è capace di creare fra le costanti scientifiche e quelle geometriche è veramente impressionante.
Per esempio, se prendiamo un pentagono con lato pari a c = 2,9979246, la costante per calcolare la velocità della luce, vediamo che il doppio dell’area di uno dei suoi cinque triangoli è pari a c2 x 0,6882 = 6,1852 ≈ (ɸCheope – 1) x 10 = 0,61859 x 10 = 6,1859 ≈ 1/ɸ x 10 = 6,18033988. Se invece prendiamo un pentagono con lato pari al numero di Eulero “e” il doppio dell’area di uno dei suoi cinque triangoli è pari e2 x 0,6882 = 5,085148 ≈ πCheope x ɸCheope = 5,086996 ≈ πɸ = 5,0832. È quindi del tutto probabile che le misure della Grande Piramide – che come vedremo in The Snefru Code part 7 contengono tanto ɸ che π che “e” – siano state a stabilite a partire da un pentagono con lato pari a “e”.
Anche l’esagono fu una figura importante per Platone e i pitagorici. E se prendiamo un esagono con area pari a G = 6,6727, vediamo che ognuno dei singoli triangoli equilateri che lo compongono ha un’area pari a 1,1121214, vicinissima a ħ2. Il lato è pari a √6,6727.. : 2,5981 = 1,602595, che è pari alla carica elettrica di protone ed elettrone.
Conoscenze matematiche di questo tipo sono sfuggite fino ad oggi tanto alla nostra fisica che alla nostra geometria. Qui troviamo l’indizio che forse abbiamo molto da imparare da persone che fino ad oggi abbiamo giudicato scientificamente molto più arretrate di noi. E questo non potrebbe valere anche per gli uomini di Chauvet? Non può darsi che in un’epoca in cui noi non vediamo altro che selvaggi appena usciti dallo stato animale vi fossero invece conoscenze astronomiche profondissime, che si sono tramandate di generazione in generazione fino alla costruzione delle Piramidi, che a questo sapere hanno trasformato in meravigliose strutture architettoniche?
8. In effetti, ci fa sospettare una cosa di questo genere il fatto che questo degli uomini di Chauvet sarebbe un modo di disegnare il cielo, per così dire, uguale e contrario a quello che in Egitto troveremo molti millenni dopo, dato che i sacerdoti-astronomi Antico Egizi, fin dai tempi più antichi, sembravano osservare e fissare i mutamenti di posizione delle stelle usando come punto di riferimento il momento diametralmente opposto del calendario, vale a dire l’alba dell’equinozio di primavera.
Da quel che si può capire dal mito e dall’orientamento astronomico del Circolo Megalitico di Nabta Playa, questo punto del ciclo solare era religiosamente vissuto come il momento in cui Osiride – identificato con la costellazione di Orione – e il suo figlio Horus – identificato probabilmente con il Sole – risorgevano, o, per meglio dire, cominciavano un ciclo di resurrezione parallelo. Da un punto di osservazione come quello di Nabta Playa, al tempo in cui il circolo fu costruito (probabilmente in una data attorno al 6000-7000 AC) Osiride-Orione riappariva ad Est in una posizione distesa, tipica dei defunti (la data a cui si riferisce la levata eliacale di Orione all’equinozio di primavera in questa immagine è situata da Brophy al 5820 AC)
Questo riapparire della divinità-costellazione veniva visto come il momento in cui la sorella-sposa Iside – identificata con Sirio – comincia a prendersi cura di lui, ridonandogli la vita. Infatti, la sparizione di Osiride-Orione dall’orizzonte per circa due mesi veniva miticamente interpretata come una morte ciclica della divinità, che ogni anno veniva uccisa dal fratello Seth – una divinità associata alle forze del Caos – e gettata dentro un sarcofago nel Nilo. È probabile che Seth fosse allora identificato con il Toro, dato che nel periodo in cui Orione spariva questa costellazione rimaneva sopra l’orizzonte, come si può arguire anche dall’immagine che abbiamo visto sopra. In effetti nella Pietra di Narmer vi è una scena, rappresentata sotto un simbolo chiaramente equinoziale (i due serpenti identici che si fronteggiano, proprio come i due opposti equinozi, formando un cerchio che potrebbe essere un simbolo solare) in cui il Toro pare calpestare un nemico che potrebbe essere proprio Osiride-Orione, che al momento dell’equinozio ha una posizione chiaramente soccombente rispetto al Toro
I circa due mesi in cui Osiride-Orione svaniva dall’orizzonte alla levata eliacale venivano interpretati come il tempo in cui la sorella Iside-Sirio lo cercava, e quello in cui ricompariva come il momento in cui il suo corpo veniva ritrovato. A quel punto, con le cure della sorella, la divinità cominciava a riprendere vita, una vita che diventa sempre più intensa e possente col passare dei giorni. Diciamo questo perché il percorso annuale di Osiride-Orione avveniva in modo tale che se intorno all’equinozio di primavera la costellazione appariva più o meno in corrispondenza dell’Est completamente distesa, al contrario, in corrispondenza con la levata eliacale al solstizio d’estate si mostrava a Sud, diciamo così, con tutto un altro genere di atteggiamento.
È un fatto questo che si può rilevare da molte immagini sacre in cui il Faraone, che personifica Osiride, viene rappresentato in piedi e con la mazza levata mentre uccide un nemico. Questo nemico forse si può intendere come quel Seth-Toro che lo aveva ucciso, dato che Seth rappresentava quelle forze del Caos contro cui ogni anno gli dèi, l’uomo e l’universo tutto lottano per poter risorgere e tornare alla vita dopo la morte simbolicamente rappresentata dall’inverno. Nell’immagine sottostante prendiamo come esempio la stele di Snefru del Sinai, ma naturalmente potremmo prenderne infiniti altri. L’associazione estetica, per non dire la chiara rassomiglianza della gestualità del Faraone e di quella del Cristo della Cappella Sistina ci da un nuovo spunto di riflessione quanto alla possibile derivazione di buona parte della nostra arte sacra da quella Antico Egizia, almeno sul piano formale. Alzi la mano chi non riconosce nella rappresentazione della maternità di Iside un archetipo di migliaia e migliaia di rappresentazioni della maternità di Maria
La data in cui Osiride-Orione al solstizio d’estate si presentava in questa posizione – cioè al massimo dell’altezza nel cielo da un punto di osservazione come Nabta Playa – viene fissata da Brophy attorno al 4900 AC. È da notare che circa 13000 anni prima la divinità-costellazione, in questo stesso momento del ciclo solare, appariva in una posizione diversa, cioè ruotata di quei più o meno 45°-47° di cui abbiamo visto sopra ruotare tanto il rinoceronte che il leone di Chauvet. È anche del tutto notevole il fatto che la disposizione delle pietre che all’interno del Circolo rappresentano la Cintura di Orione quando si trova al massimo e di quelle che rappresentano le Spalle quando si trova al minimo faccia sì che la scala della rappresentazione cresca e diminuisca con il crescere e il diminuire della sua altezza all’orizzonte. Possiamo vedere chiaramente questa situazione nell’immagine sottostante, dove la medesima costellazione è rappresentata in questi opposti momenti come un gigante al suo massimo e quasi come un nano al suo minimo
Non sarà sfuggito a nessuno che anche il rinoceronte di Chauvet, via via che cala di altezza, in qualche modo diminuisce, anche se non globalmente: a diminuire sono le dimensioni del suo corno, che giunto al minimo della rotazione addirittura scompare assieme alla testa. È un po’ la stessa cosa che accade al leone. Nei “fotogrammi” più in basso vediamo che viene accennato solo il profilo della schiena e poi, quando compare la testa, vediamo che la sua espressione è timida e con le orecchie basse. Il profilo più in alto lo rappresenta invece con le orecchie in posizione naturale, e l’espressione pare farsi aggressiva, quasi feroce. Non è più impaurita e sottomessa come nei “fotogrammi” in cui questa ancora ignota costellazione viene rappresentata in un punto più basso del cielo.
9. Ora, se da Chauvet ci spostiamo a Giza, sembra del tutto chiaro che la struttura mitico-astronomica rappresentata dalla Camera della Regina abbia una parentela abbastanza stretta con quella della Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti, e addirittura strettissima con quella rappresentata a Nabta Playa. Sulla parete Est vi è infatti una misteriosa cripta, che dovrebbe avere dunque un significato opposto a quella di Chauvet, che si trova ad Ovest. La possiamo vedere nell’immagine sottostante
Mentre a Chauvet il cavallo rappresentato dentro la cripta dovrebbe essere il sole che, dopo il tramonto dell’equinozio di autunno comincia a cavalcare nel mondo sotterraneo, al contrario, la cripta della Camera della Regina dovrebbe rappresentare la porta attraverso la quale Osiride-Orione (e dunque anche suo Figlio, il Sole-Horus) “riemerge all’orizzonte” più o meno in corrispondenza con la levata eliacale all’equinozio di primavera. Oppure, siccome Seth aveva gettato il cadavere del fratello nel Nilo chiuso in un sarcofago, possiamo immaginare che la cripta nella Camera della Regina rappresenti il punto della levata del sole all’equinozio di primavera (cioè l’Est) come il sarcofago in cui Iside ritrova il cadavere del fratello-sposo (infatti la cripta della Camera della Regina ha una forma che potrebbe ricordare quella di un sarcofago).
Questa interpretazione è rafforzata filologicamente dall’origine del nome del dio della morte e resurrezione greco, Dioniso. Erodoto ci dice che il culto fallico di questa divinità è giunto ai Greci dall’Egitto. Giovanni Semerano ricostruisce in questo modo l’origine del nome greco
“La prima componente, miceneo diwo-, Διο- etc. è calcata su accadico di’u nel senso di santuario, sancta sanctorum, cripta, cella, che assume ovviamente il significato di divinità, di nume che vi abita; (..) Per la seconda componente -νιδοδva ricordato che, con intuizione, Nisa, dove il dio neonato era stato affidato alle ninfe da Ermes, fu sempre concepita come un luogo di favolosa fertilità, ricco di boschi, di sorgenti, di freschi ruscelli. E tutto questo dice il nome Ninfa, che corrisponde ad accadico nusha, nushu (fertilità, abbondanza).”
Giovanni Semerano, Le origini della cultura europea, vol. I, pp.202-203
Una possibile traduzione del nome “Dioniso” potrebbe essere dunque “cripta della fertilità”. E quella che è stata collocata nella parete a Est della Camera della Regina potrebbe essere proprio la direzione della levata eliaca all’equinozio di primavera (cioè l’Est) in quanto “cripta della fertilità”, o della rinascita, dato che il rinascere di Osiride-Orione veniva inteso come un ritornare alla vita e della vita.
Si tenga presente che il nome del celeberrimo dio greco inizia con una Δ, che è la quarta lettera dell’alfabeto greco, corrispondente alla nostra “D”. Pare assodato che l’alfabeto greco sia stato derivato da quello dei Fenici, un popolo che, per ovvie motivazioni geografiche, ebbe dei contatti con gli Israeliti. Nell’antico alfabeto fenicio, come vediamo nello schema sottostante, la quarta lettera dell’alfabeto ha il significato di “porta” (door), proprio come accade nell’alfabeto ebraico
Ma, come noto, nell’antico linguaggio ebraico la lettera corrispondente alla nostra “D” – Daleth – ha anche un valore numerico, che è il 4. Ora, che il numero 4 venga associato al significato di “porta” rende possibile immaginare che questa lettera – l’equivalente ebraico del Δ greco – si riferisca ai quattro punti cardinali, intesi appunto come porte. Per esempio, l’Est potrebbe essere stato inteso come la porta della fertilità, la porta da cui la vita ritorna trionfante assieme al Sole, il Nord come la porta dell’eternità, perché vi sono le stelle che non tramontano mai, l’Ovest come la porta dell’oltretomba, perché lì i corpi celesti vanno a tramontare.
Dunque, mentre i sacerdoti astronomi Antico Egizi erano interessati tanto a Giza che a Nabta Playa a fissare il momento della rinascita del Sole-Horus e di Osiride-Orione, nella End Chamber i loro antenati si erano preoccupati di fissare quel che avveniva nel momento opposto del ciclo solare, al tramonto dell’equinozio d’autunno.
Ma vi è anche un’altra radicale differenza nel pensiero astronomico-religioso che sembra manifestarsi fra gli uomini che dipinsero la Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti a Chauvet e quelli che costruirono a Giza la Grande Piramide e dentro di essa la Camera della Regina. Infatti, gli uomini di Chauvet non costruirono uno spazio architettonico (e dunque artificiale) per rappresentare per mezzo di esso il cielo e dipingervi l’immagine delle loro divinità stellari. Al contrario, essi si gettarono nella rischiosissima esplorazione di cave come quella di Chauvet per trovare un ambito la cui struttura – senza alcun bisogno dell’intervento umano – si offrisse naturalmente e spontaneamente come simbolo della struttura del mondo celeste. Se il motto degli Antichi Egizi fu “così in cielo così in terra”, quello degli uomini di Chauvet dovette essere: “così nel mondo celeste, così in quello sotterraneo”.
In effetti, una cappella come quella di Chauvet ci mostra che lo scopo dell’esplorazione delle cave sembra proprio quello di cercare nel mondo sotterraneo un’immagine di quel mondo celeste che potevano contemplare stando sopra la terra. In questo senso, la vicenda umana e religiosa di Chauvet sembra straordinariamente simile a quella di Altamira ed è probabilmente comune a tutto il Paleolitico. Infatti ad Altamira, proprio come a Chauvet, la celebre immagine di un bisonte che sembra raggomitolarsi su sé stesso (in modo diverso eppure molto simile al Minotauro della End Chamber) non è stata disegnata in un punto qualsiasi, ma invece su una protuberanza di roccia che suggeriva quella forma che poi di fatto vi venne dipinta, come possiamo ben vedere nelle immagini sottostanti. Di nuovo, troviamo che questa forma sembra un’immagine del movimento della precessione.
Il bisonte che si arrotola su sé stesso, proprio come il Minotauro di Chauvet, sembra un’immagine del cielo del Nord che ruota attorno a un punto che si trova all’interno del cerchio tracciato dalla precessione, su cui si trovano le tre stelle polari. Quest’ipotesi, all’apparenza molto arrischiata, viene legittimata dal fatto che, come si vede nel disegno sopra a sinistra, se andiamo a poggiare il profilo di questo strano bisonte sul cielo del nord noi vediamo che esso va a coincidere con più di venti stelle. Esso pare dunque una mappa del cielo in un certo momento del ciclo precessionale tracciata in modo tale che mito e astronomia coincidano perfettamente.
10. Fra l’altro, che la costellazione del Drago sia stata immaginata dagli uomini di Altamira come un bisonte – cioè come un animale con le corna – potrebbe essere un fatto molto importante anche perché sembra creare un legame fra quella che potremmo chiamare la loro immaginazione gestaltica con quella di uomini di molti millenni successivi, addirittura quelli del presente, dato che il Drago viene rappresentato ancora oggi con le corna. Questo ci ricorda che anche la testa del Minotauro che si avvita sulla stalattite di Chauvet è un essere cornuto. Dunque, è facile che anch’esso rappresenti la costellazione del Drago che nei millenni si avvita interminabilmente su sé stessa.
Una cosa del genere sembra valere anche per il celebre leone (o leonessa) di Hohlenstein-Stadel, una statuetta di avorio alta circa 29,5 cm e pesante circa 750 gr, che possiamo vedere qui sotto
A questa statuetta era stata attribuita inizialmente un’età di circa 32000-35000, ma più di recente è stata “invecchiata” di 5000 anni: si crede dunque attualmente che abbia circa 40000 anni. Ovviamente, ci si è interrogati e ancora ci si interroga sul possibile significato magico-religioso di questo manufatto, ma fra le molte ipotesi non è stata fatta quella che, nel contesto della presente indagine, sembra la più logica, o persino la più ovvia. Che, dato che circa 40000 anni fa, o, per essere ancora più precisi, intorno al 36.500 AC si era appunto nell’Era del Leone, questo oggetto rappresenti la costellazione che in quel periodo “regnava all’orizzonte” nel fatidico momento della levata eliaca dell’equinozio di primavera. Siccome questa costellazione era considerata dalle religioni astronomiche dell’antichità come quella più potente fra le altre dodici dello zodiaco sembra del tutto logico ipotizzare che tale teriantropo, mezzo uomo e mezzo leone, rappresentasse appunto la costellazione che in quel momento, per così dire, “era in carica”. Attualmente siamo nell’Era dei Pesci, e, come noto, Cristo venne associato appunto a questo segno
Ma in tempi antichissimi, il Gran Dio dei Galli, Uno e Inconoscibile, era chiamato Belen, perché il Sole, nella sua corsa precessionale, all’equinozio di primavera passava nella costellazione dell’Ariete, che in gallico e in alto francese si chiamava “bélin”.
Louis Charpentier, I Misteri della Cattedrale di Chartres, Edizioni Età Dell’Acquario, p. 22
E’ del tutto chiaro, che accanto a questa ipotesi, ne debba andare anche un’altra: che almeno negli ultimi 40000 anni i segni dello zodiaco e la concezione del mondo ad essi associata sono rimasti più o meno gli stessi. Se una cosa di questo genere dal punto di vista dell’uomo moderno sembra assurda, forse all’uomo del Paleolitico non desterebbe molto stupore, anche se fra Chauvet e Altamira corrono oltre 15000 anni di distanza, anche se fra l’Uomo Leone di Hohlenstein-Stadel e il tempo presente ne corrono quasi 40000. Il fatto è che qui, molto probabilmente, stiamo parlando di culture in cui la tradizione e il passato vengono valutati in altissimo grado, e che perciò la pensano in modo diametralmente opposto a noi quanto al significato del tempo.
Per fare un esempio che è ancora a noi piuttosto vicino, si pensi a come i Dogon sono stati capaci di conservare per migliaia di anni tratti profondi della scrittura e della religione stellare Antico Egizia. Tanto il cielo e i suoi cicli sono importanti per loro che sono andati ad abitare una zona dell’Africa arida, dove la vita è particolarmente difficile, solo perché da lì certe osservazioni astronomiche sono più facili (dato quanto ci è dato di sapere dell’antichità preistorica, non è escluso che la migrazione di Abramo verso la Cananea sia stata motivata dall’inseguire, diciamo così, una certa figura del cielo – che poi verrà chiamata “la Gerusalemme Celeste” – che forse a Babilonia era impossibile osservare, oppure era andata perduta con il mutare del cielo nei millenni).
Al contrario, in una cultura come la nostra, dove il tempo viene pensato come progresso, tanto il passato che il presente sono radicalmente svalutati in relazione al futuro. Ma in culture dove nel passato si colloca un’Età dell’Oro, e dunque una perfezione perduta, tanto il presente che il futuro vengono svalutati rispetto al passato, che dunque viene conservato in vita con la stessa passione con cui noi lo seppelliamo nei musei (oppure ne facciamo in vario modo mercato, ridonandogli una vita artificiale inserendolo nel vorticoso giro del denaro e del prodotto interno lordo, che pare l’unico simbolo capace di interessare profondamente l’Occidente moderno). È del tutto chiaro che per una cultura come quella Antico Egizia (e presumibilmente anche per quelle di Chauvet, Altamira, come per tutto il Paleolitico) la conservazione della tradizione era lo scopo stesso della vita, quanto il continuo mutamento lo è per la nostra. Per queste genti diecimila anni di immobilità culturale erano diecimila anni di vita, come per noi dieci minuti senza un telegiornale che annuncia una qualche sconvolgente novità sono dieci minuti di morte.
Come secondo spunto di riflessione, possiamo aggiungere che è difficile non notare che la “testa” della costellazione del Drago è piuttosto simile a quella della costellazione che venne in tempi successivi identificata con il Toro. Questo è un fatto che sembra alludere a una comune inclinazione dell’immaginazione gestaltica degli esseri umani, e dunque potrebbe essere il sintomo che caratteristiche simili di costellazioni diverse venivano interpretate allo stesso modo (in questo caso, la similitudine delle due “teste” ha dato luogo all’immagine di due esseri cornuti).
La somiglianza fra le due “teste” può aver spinto gli esseri umani ad associare in modo intimo due costellazioni che hanno una posizione molto diversa nel cielo e dunque anche delle vicende precessionali diverse. Infatti, il Drago è una costellazione che, siccome si trova all’estremo Nord del cielo, ruota su sé stessa e non cambia mai di molto la sua posizione e la sua altezza rispetto alle altre costellazioni. Le sue stelle sono perciò tutte “imperiture”, che è il modo con cui gli Antichi Egizi definivano le stelle che non tramontano mai. Invece – per esempio da un punto di osservazione come Nabta Playa – il Toro è destinato a stare sopra o sotto Orione, e quindi a trionfare o a morire simbolicamente nella lotta con la costellazione precessionalmente rivale.
Non è perciò impossibile che la lunga tradizione iconografica e religiosa che ha visto nel Drago un bisonte, cioè una figura simile a quella di un toro, abbia avuto un eco nel pensiero teologico-astronomico Antico Egizio, e abbia potuto spingere i sacerdoti-astronomi Antichi Egizi a vedere in quello che per noi è il gran Gran Carro – una costellazione che si trova piuttosto vicina al Drago – una figura che chiamavano la Coscia del Toro, che doveva avere una grande importanza a livello religioso.
Era infatti uso degli Antichi Egizi di sacrificare i tori dopo averli privati della zampa anteriore sinistra, e sembra chiaro che questo modo di procedere pare alludere a una castrazione del Toro in quanto costellazione divinizzata (dunque la Coscia del Toro potrebbe essere il simbolo stellare dei testicoli che Seth perde nella sua battaglia con Horus). Nel momento in cui nel cielo del Duat Orione uccideva il Toro (cioè lo dominava all’orizzonte) veniva colpita anche la sua Coscia, cioè anche la divinità-costellazione del Nord, che forse veniva intesa come un suo alter ego immortale (e quindi come un alter ego di Seth).
È quanto si può arguire dallo zodiaco di Semnut, dove una divinità con la testa di Falco (probabilmente molto vicina a Orione-Horus, e forse associata con la costellazione del Cigno, come nella mitologia celtica Lohengrin, il figlio di Perceval, che viaggia su una barca trascinata da un cigno) sembra colpire con la sua lancia la Coscia del Toro che però, come si è detto, è posizionato nel cielo del Nord (e si noti come l’inclinazione della lancia rispetto alla verticale del disegno sia più o meno quella dell’asse polare della terra rispetto a quello dell’eclittica)
Questo antico zodiaco ci da anche la possibilità di comprendere il senso di quel celebre mito celtico a cui abbiamo or ora accennato, che è diventato molto importante per l’Occidente moderno: stiamo ovviamente parlando del mito del Re Pescatore. Come è noto, quando Perceval arriva al Castello sul Lago (e qui con la parola “lago” non si deve intendere affatto un lago terrestre situato qui o là, ma il piano dell’eclittica al di là delle 12 costellazioni dello Zodiaco) viene a sapere che il Re Pescatore, padrone del castello, soffre a causa di una ferita alla coscia che non si può curare: e questa ferita gli è stata inferta da un colpo di lancia. Come non vedere nel mito celtico una versione un po’ diversa del mito stellare Antico Egizio? Che dubbi possiamo più avere sul fatto che il Castello del Re Pescatore non è altro che l’ambito cosmico che si trova entro le 12 costellazioni dello zodiaco, cioè la Terra e il sistema solare?
In tutto il mondo sono sparsi miti che raccontano di divinità – molto spesso in forma di serpente – che sprofondano in un lago, la cui versione più celebre in Occidente è senz’altro quella del cosiddetto “Mostro di Loch Ness”: qui sembra chiaro che tali divinità non sono altro che corpi celesti che sprofondano sotto la superficie di un “lago” che è la mitizzazione (nel senso di una rappresentazione figurata) del piano dell’eclittica.
11. Tutto questo insieme di considerazioni ci spinge a pensare che l’astronomia come parte essenziale della teologia sia una forma di pensiero antichissima, iniziata un numero imprecisato di decine di migliaia di anni fa e che è proseguita più o meno ininterrottamente fino all’avvento della cultura pagana, che ha radicalmente umanizzato le divinità stellari. La cultura Greco Classica sembra infatti un momento in cui questa tradizione religiosa viene abbandonata e rapidamente dimenticata. Il bisogno di affermare divinità vicine, terrestri ed umane, è talmente forte che si arriva al punto che in epoca periclea gli osservatori astronomici vengono proibiti. Il qui e ora, l’eterno presente e lo spazio “vicino” della visione del mondo pagana non arriva a tollerare che prosegua neppure per scopi meramente scientifici una tradizione di osservazione del cielo che, con ogni evidenza, in origine era legata essenzialmente a esigenze di tipo religioso.
Al termine di questa indagine scopriamo che, seguendo il filo conduttore dell’archeoastronomia, uno degli enigmi più inquietanti che pesano sui lasciti iconografici che ci vengono dal Paleolitico si scioglie quasi da sé. Gli uomini di Chauvet e di Altamira – che mostrano un’arte pittorica in certi casi talmente mirabile da rendere assolutamente necessaria l’ipotesi che in quelle culture la pittura fosse un’istituzione dotata di scuole, maestri, allievi e tutto quanto compete a una tradizione di arte sacra altrettanto seria che quella cristiana o buddista – non si gettarono nelle viscere della terra per tracciarvi più o meno a caso delle forme di animali più o meno insignificanti. Al contrario, queste persone facevano parte di una casta di sacerdoti-astronomi che andavano sottoterra a cercare delle cripte ove si potesse gestalticamente ri-conoscere un’immagine del cielo. Il compito che essi si attribuivano era quello di proseguire l’opera divina tracciandovi quei segni con cui quest’immagine veniva resa umanamente intelligibile, e poi mutata con il mutare del cielo nei millenni. Se andiamo a Les Trois Freres troviamo un affresco che fino ad adesso è apparso completamente enigmatico, dato che è composto di figure che si sovrappongono in modo apparentemente caotico l’una sull’altra
Ma se interpretiamo astronomicamente questa immagine ecco che possiamo vedere in essa la registrazione dei mutamenti di una zona del cielo, in cui nei millenni diverse costellazioni, ovvero diverse divinità stellari, occupano il posto che prima era stata quello di un’altra.
Lo scopo teologico di questa esplorazione delle viscere della terra sembra quello di una ricerca di ciò che noi chiameremmo “la vita dopo la morte” e che forse queste genti chiamavano “la vita dopo il tramonto”, oppure “il mondo di là dall’ovest”, che forse era immaginato come il luogo ove si custodiva il segreto dell’eternità, intesa come un interminabile ritorno del ciclo della vita. Se il mondo sotto la terra, dove ogni giorno va a svanire il sole, contiene un’immagine, quasi uno stampo (o un “progetto”) di quello celeste, al punto che possiamo trovare in esso le sue forme (sia pure solo accennate) ecco che questo mondo sotterraneo è quello in cui si prepara – ad ogni anno solare e precessionale – l’alba della rigenerazione dell’universo e dell’uomo che lo abita. Esso non è dunque da pensarsi come il luogo in cui le cose si annientano, ma quello in cui si rigenerano e si preparano così al loro eterno ritorno.
La nostra indagine su Chauvet ci da anche la possibilità di chiarire il significato dei rilievi che si trovano in un sito come Gobekli Tepe. A Gobekli Tepe troviamo infatti dei pannelli posti in serie, che rappresentano animali con caratteristiche molto simili a quelli di Chauvet e delle altre grotte paleolitiche, in particolare, gli animali sembrano galleggiare in qualche sorta di liquido piuttosto che stare appoggiati sul terreno (per quanto possa sembrare strano, questa è la stessa impressione che si può ricavare dalla contemplazione di molte delle figure del Giudizio Universale di Michelangelo Buonarroti, che col loro moto ascendente-discendente sembrano una per quanto lontana derivazione dell’osservazione dell’oscillazione precessionale dei corpi celesti, oppure del loro comparire/scomparire sotto l’orizzonte, interpretato come superficie di un lago, o ingresso/uscita dal mondo sotterraneo). A partire da quanto abbiamo visto adesso, sembra chiaro che questi pannelli a “T” non siano altro che una rappresentazione mitologica di scene celesti in momenti cruciali dell’anno (come la levata eliaca all’equinozio di primavera o al tramonto di quello di autunno, oppure ai due opposti solstizi) che durante il ciclo precessionale mutano lentamente ma inesorabilmente. Li possiamo vedere nelle foto sottostanti
A Chauvet troviamo che si è costruita una simile successione, appoggiandosi però alla configurazione naturale della grotta. Mettendo vicine le due strutture siamo capaci di renderci conto piuttosto facilmente tanto delle differenze che delle somiglianze
È possibile che si sia scelta la forma a “T” per questi pannelli perché il pilone che fa da sostegno rappresenta probabilmente l’asse dell’eclittica, che nelle visioni mitiche dell’antichità è stato più volte rappresentato come il pilone, o la colonna portante che sorregge il cielo. Forme di questo genere sono comuni anche nel Sud America Precolombiano
Forse in questo contesto è utile ricordare che l’asse dell’eclittica è stato spesso immaginato nell’antichità come un albero, e che la Croce di Cristo è stata a sua volta molto spesso paragonata a un albero. Dunque l’eredità della religione astronomica non è stata completamente cancellata dall’avvento del cristianesimo, dato che possiamo vedere nella serie di pannelli a forma di “T” di Gobekli Tepe una serie di croci a forma di “T”, a tutt’oggi molto diffuse fra i cristiani e comunemente indossate da chi predilige lo stile francescano.
Tenendo in considerazione queste riflessioni, possiamo ipotizzare che i due Alberi sacri che troviamo nell’Eden raccontato dalla Genesi – l’Albero della Vita e l’Albero della Conoscenza – potrebbero essere l’asse dell’eclittica e quello terrestre sacralizzati. L’Albero della Vita dovrebbe essere l’asse dell’eclittica, perché con la sua perenne immobilità si presta bene a simbolizzare la vita eterna. Invece, l’asse polare terrestre potrebbe rappresentare l’Albero della Conoscenza, perché, a quel che ci è dato sapere, l’astronomia è stata a fondamento della conoscenza scientifica non solo nell’era moderna (come è noto, la teoria gravitazionale di Newton è stata alla base di tutti gli sviluppi della nostra scienza) ma anche nel passato profondo dell’umanità, seguendo la dottrina che Platone espone nel Timeo.
Il polo dell’eclittica e quello polare sono stati immaginati anche come dei vortici, o come gorghi marini. E, dopo il peccato originale, Dio pone due angeli con spade di fuoco vorticanti davanti alle porte dell’Eden, perché Adamo ed Eva non possano rientrarvi mai più. In questo caso, possiamo immaginare che i cicli cosmici connessi al ruotare dell’asse dell’eclittica e di quello polare, siccome rappresentano il trascorrere del tempo, rappresentano anche la condanna di Adamo e Eva a essere nella storia, e dunque consegnati al lavorare con sudore e al partorire con dolore, per sempre esclusi dalla pace eterna che è attributo dell’immobilità divina.
appendice 1: UN ESEMPIO DI INTERPRETAZIONE ARCHEOASTRONOMICA DEI COSIDDETTI “DISEGNI ASTRATTI” DELLE GROTTE DEL PALEOLITICO
La maestria dei pittori che migliaia di anni fa si sono avventurati nelle profondità della terra per decorarli con opere che sfidano – per realizzazione tecnica e potenza stilistica i capolavori della modernità è forse altrettanto conosciuta quanto è negletta la presenza in quelle stesse cave di disegni di cui nessuno ha mai saputo spiegarsi il significato. Vi è chi li ha scambiati per scarabocchi tracciati da persone in preda all’estasi – che cercavano di riprodurre le immagini entottiche di cui erano in quel momento ossessi – chi come scarabocchi di selvaggi, stupiti come bambini di fronte al fatto che – impugnando un carboncino – al gesto fuggevole della mano potesse corrispondere la fissità del segno. La nostra idea è completamente diversa, ma prima di esporla possiamo dare un’occhiata alle figure che ci interessano
Le due foto sopra rappresentano disegni che si possono ritrovare nelle cave di Altamira, ma disegni di questo genere si riscontrano un po’ dappertutto per le cave che furono esplorate e decorate nel Paleolitico. In forma stilizzata li possiamo vedere nell’immagine sottostante
L’ipotesi che vogliamo tentare di dimostrare in questo breve scritto è che questi che sono stati interpretati come “disegni astratti” sono in realtà dei codici a barre, in cui si vogliono rappresentare dei cicli cosmici per mezzo di schemi calendario. Una trattazione complessiva del problema prenderebbe troppo spazio e quindi, per ragioni di brevità, ci occuperemo soltanto di quel disegno che abbiamo evidenziato con il cerchio rosso, che sembra un sistema misto solare-lunare e che vediamo di nuovo nell’immagine sottostante
Effettueremo il conteggio delle barre della prima striscia e delle ultime due includendo nel conto anche gli estremi del simbolo, dato che partiamo dal presupposto che in queste strisce sia stato effettuato un conto lunare: sembra allora logicamente significativo includervi anche gli estremi del sistema, perché la luna arriva a sorgere e a tramontare in punti estremi che si trovano più a Nord e a Sud che i due solstizi, così che il ciclo lunare sembra contenere dentro di sé quello solare. Dunque, considerando questo sistema di conteggio come una sorta di immagine dell’orizzonte astronomico, e considerando la traiettoria lunare quasi come una “parentesi vivente” che include dentro di sé i punti di levata del sole, si arriveranno a contare 27 barre: e il ciclo delle levate e dei tramonti della luna da nord a sud è giusto di 27.2 giorni. La striscia inferiore invece conta 29 barre: e il ciclo delle fasi lunari ne dura 29.5. Nella parte centrale di questa complessa struttura matematica si contano invece ventiquattro barre – molto più lunghe delle altre e piuttosto inclinate, di cui 17 vanno da sinistra a destra, e 7 da destra a sinistra: queste 24 barre sembrano rappresentare i 24 mesi di due anni solari, che si possono misurare con 24 mesi solari più o meno “normali” o con 24.75 mesi lunari di 29.5 giorni ciascuno. E i nostri lontani progenitori devono aver messo in relazione l’anno solare con quello lunare proprio in questo modo, o in un modo simile, dato che nella striscia incompleta, che sembra rimanere all’esterno del sistema, si trovano 18 barre, che diventano 20 se includiamo nel conto anche quei due tratti che uniscono la striscia al resto del sistema. Queste 20 barre potrebbero rappresentare proprio quello 0,75 % di mese lunare che manca al ciclo lunare per accordarsi in modo più o meno “perfetto” con quello solare (in effetti anche in questo modo rimane un errore di circa due giorni, dato che 29,5 x 0,75 = 22,125). Osservando le 24 barre centrali, lunghe e inclinate, si nota che l’ultima, ovvero la settima da destra, in connessione con la sesta da sinistra forma una sorta di “freccia”, che sembra “puntare” all’ottava barra della striscia superiore, quella dove nella nostra ipotesi si conta la durata del ciclo delle levate e dei tramonti della luna: e, curiosamente, quando il ciclo dei due anni solari finisce, il ciclo delle levate e dei tramonti della luna è trascorso più o meno all’80%. Più esattamente, dopo due anni solari è arrivato a 26 cicli interi che fanno 27.2 x 26 = 707,2 giorni, a cui mancano ancora 22.8 giorni per accordarsi con il conteggio dei due anni solari. In un ciclo di levate e tramonti della luna 22,8 giorni sono pari a 22,8 : 27,2 = 0,8382, ovvero più o meno pari a quella percentuale che sembra indicata dalla “freccia” che il sistema delle barre inclinate sembra formare al momento in cui va a terminare.
Così, sulle pareti di Altamira noi non troviamo dipinti dei “segni astratti”, ma sistemi calendari creduti “segni astratti” a causa dell’ovvia mancanza di familiarità con l’apparato simbolico della matematica di molti millenni fa. Lo stesso vale per il modo per noi inconsueto con cui gli Antichi Egizi usavano Alta Geometria per disegnare le loro steli, che noi abbiamo frainteso come un abbozzo di arte figurativa.
In conclusione dell’articolo sulla Cappella dei Rinoceronti e dei Leoni di Chauvet abbiamo visto che nelle culture nordiche di epoca precristiana (ma, aggiungiamo in questa sede, anche in innumerevoli culture sparse in tutto il mondo) il polo dell’eclittica veniva interpretato come un albero, ma che in altre culture veniva visto come una croce. Se guardiamo l’immagine sottostante non possiamo fare altro che interpretare questo “disegno astratto” che troviamo a Chauvet come una rappresentazione antichissima del polo dell’eclittica
Tracce di un’astronomia ancora più antica si sono riscontrate anche in pitture e monili attribuiti all’uomo di Neanderthal, che sono stati oggetto di una prima indagine in due articoli pubblicati da Gabriele Venturi su World Mysteries. Un ulteriore approfondimento del tema dell’astronomia Neanderthal sarà pubblicato quanto prima su questo sito, come parte di un lavoro sui rapporti fra la cultura Maya e quella Antico Egizia.
Gabriele venturi
APPENDICE FOTOGRAFICA:
Gabriele Venturi