LA PIETRA DI ALATRI
Al racconto di Josè Louis Borges : « L’IMMORTALE »
Dans les clapotements furieux des marées,
Moi, l’autre hiver plus sourd que les cerveaux d’enfants,
Je courus ! Et les Péninsules démarrées
N’ont pas subi tohu-bohus plus triomphants.
A. Rimbaud
PARTE PRIMA: problemi di ermeneutica storica connessi con la datazione dei reperti archeologici
1. Una delle più gravi difficoltà di quel ramo del sapere, a molti familiare fin dall’infanzia ma in realtà piuttosto complesso ed enigmatico che chiamiamo “archeologia”, è quella di datare in modo certo i reperti di cui si entra in vario modo in possesso. Questo vale non solo per l’archeologia in senso stretto ma, in molti casi, anche per la storia, ove si serva di documenti scritti che appartengano a culture cui sia estranea una concezione del tempo e degli avvenimenti storici simili alla nostra. Per offrire al lettore un esempio tipico, in The Snefru Code part. 1 avevamo analizzato i problemi ermeneutici che ci vengono posti dal rilievo in cui viene descritta la vittoria di Ramses II a Qadesh. In particolare, ci eravamo soffermati sull’assoluta impossibilità di prestar fede al resoconto del presunto scontro in campo aperto con l’esercito Ittita, che sarebbe stato disfatto dal solo Faraone senza alcuna collaborazione da parte del suo esercito. Ci eravamo interrogati dunque sul senso profondo che potesse avere questo strano racconto, che a noi appare quasi incredibilmente infantile e che perciò solo con molta fatica possiamo attribuire ai costruttori di opere architettoniche di quasi inumana perfezione, quali il tempio di Luxor o le Piramidi di Giza.
Ma è chiaro che vi sono dei casi in cui ci risulta più facile prestar fede in modo immediato al contenuto dei documenti Antico Egizi. Per esempio, in un rilievo trovato ai piedi della Sfinge si legge che Tuthmosis IV l’avrebbe fatta restaurare dopo che la Sfinge stessa gli era apparsa in sogno, promettendogli il regno in cambio della sua opera riparatrice. In questo caso sono pochi gli storici che hanno dubitato dell’attendibilità della notizia, che in effetti non contiene elementi di inverosimiglianza tali da mettere anche solo minimamente in allarme il nostro senso comune. Certo, qualcuno può sospettare che Tuthmosis IV si sia inventato di sana pianta questo sogno per motivi propagandistici. Ma che la Sfinge l’abbia fatta effettivamente restaurare sembra probabile più o meno a tutti, perché pensiamo che se non l’ha fatto per devozione, lo abbia fatto almeno per procurarsi fama e consenso (è notevole come qualsiasi tratto di cinismo renda immediatamente digeribile qualsiasi notizia storica anche al più delicato degli stomaci moderni: di solito, i tratti di devozione religiosa autentica hanno la tendenza a sembrarci a priori falsi e questionabili, anche se magari sono riferiti a un popolo e a un’epoca in cui la fede religiosa era una cosa tanto ovvia e diffusa come nel presente lo è il culto del potere fine a se stesso).
Ma, anche una volta presa per buona la storia che leggiamo nel rilievo, in questo caso come in altri simili, tutto quel che sappiamo o che possiamo credere di sapere è che Tuthmosis IV ha trovato la Sfinge già scolpita. Da ciò possiamo anche dedurre che la sua realizzazione deve essere per forza di cose precedente al suo regno, ma resta aperto il fondamentalissimo problema di chi l’abbia costruita e quando. E tutti sappiamo come questa situazione di ambiguità e oscurità valga per gran parte della storia degli Antichi Egizi, in particolare per l’Antico Regno. In questo senso, le Piramidi della cosiddetta IV Dinastia – in particolare le tre che insieme alla Grande Sfinge costituiscono le parti più rilevanti del complesso di Giza – come anche le due di Dahshur – rimangono i casi più famosi ed inquietanti.
2. Nella Grande Piramide, in una delle cosiddette “camere di scarico” o “camere superiori” della Camera del Re, si trova il cartiglio – cioè una sorta di stemma personale – del Faraone Cheope. Questo cartiglio viene inteso dall’archeologia ufficiale come una testimonianza certa che questo edificio fu fatto costruire da un Faraone di nome Cheope, che avrebbe regnato in Egitto intorno al 2600 a.C. Questa pare a molti storici una cosa ovvia, ma a ben vedere potrebbe non essere così ovvia come sembra. Il cartiglio viene preso infatti come una sorta di firma in calce a un documento autenticato dal notaio, di cui non sia legittimo per nessun motivo dubitare. Come se non fosse mai capitato a nessuno di incontrarsi con un notaio disonesto, o con un documento falsificato magari per motivi del tutto innocenti (si pensi a quelli che vengono usati per realizzare un film o un’opera teatrale: magari proprio per una messa in scena sacra).
In effetti, se all’egittologia ufficiale risulta ovvio il significato storico di questo cartiglio, a quella indipendente risulta invece meno chiaro. Sono molti gli archeologi di questa corrente che pensano che, in mancanza di maggiori informazioni, l’attribuzione della Grande Piramide necessiti di ulteriori indagini. In effetti, come possiamo esser certi che il presunto nome di questo Faraone non fosse in realtà uno dei suoi molti titoli onorifici, forse riferiti a delle qualità divine o anche a delle divinità in senso stretto? Alla fine, questo è quello accade con l’appellativo “Ra” – il nome del dio Sole – che compare come parte conclusiva di nomi di Faraoni molto celebri, come Khaf – Ra e Menkau – Ra, che noi di solito chiamiamo Chefren e Micerino. Dunque, a ben vedere, non possiamo essere certi che del nome che si è trovato nelle camere di scarico non si siano fregiati molti altri regnanti nel corso della storia Antico Egizia. Una storia che – se diamo retta a tutto quel che ci dice Manetone e non solo a quel che a noi pare ragionevole a partire dai pregiudizi evoluzionistici – dovrebbe essere durata addirittura per più di 30000 anni. Considerando la tradizione Antico Egizia di restaurare monumenti antichissimi, che cosa ci sarebbe di strano se un sovrano del 2600 a.C. possa aver preso quel nome proprio per attribuirsi un edificio che stava lì da molti millenni? Magari, proprio come Tuthmosis IV, per conquistarsi il regno in base al merito di averlo fatto restaurare.
3. In effetti, se avessimo a disposizione una molteplicità di fonti incrociate di vario genere il cartiglio potrebbe risultare la prova definitiva della validità del complesso dei documenti storici di cui disponiamo. Ma nel caso delle Piramidi di Giza non abbiamo nessun documento coevo alla presunta epoca della loro costruzione che possa fare da contesto e dunque dare un senso compiuto al cartiglio ritrovato nella camera di scarico. Né, in questo caso, l’archeoastronomia ci può essere di alcun aiuto per datare il monumento, come invece si era creduto fino ad adesso.
Come del resto c’era da aspettarsi, data la natura delle credenze di queste genti da noi tanto diverse, in The Snefru Code part. 5 abbiamo scoperto delle prove – che nel loro insieme appaiono difficilmente questionabili – che la data a cui sembrano alludere i pozzi della Camera del Re e quelli della Camera del Regina non corrisponde affatto a un momento e a un fatto storico nel senso euroccidentale del termine. Al contrario, proprio come il rilievo di Ramses si riferisce a un evento mitico-cosmico destinato ad un eterno ritorno (il dio che corre in aiuto all’inettitudine dell’uomo e che combatte e vince al suo posto), l’inclinazione dei pozzi mira alla sezione aurea di un semiciclo precessionale di ascesa o di discesa all’orizzonte di Sirio, Alnitaki, Kochab e Thuban. Ma, siccome il ciclo precessionale e la sezione aurea erano considerati sacri, ne viene di conseguenza che anche la sezione aurea di un semiciclo precessionale fosse a sua volta considerata sacra. Quindi è legittimo supporre che i pozzi mirino a questo punto del ciclo di Sirio, Alnitaki, Kochab e Thuban per dei motivi che non hanno nulla a che fare con la data in cui furono realizzati (e, come vedremo fra poco, la prova del radiocarbonio conferma che la data “ufficiale” sia errata come minimo di molti secoli).
Infatti, appare del tutto ovvio che la sezione aurea di un semiciclo precessionale non sia affatto un momento storico nel senso euroccidentale del termine, ma invece un momento dei cicli cosmici destinato ad un eterno ritorno. Dunque è parimenti ovvio che il 2450 a.C. è solo una delle date a cui i pozzi alludono. Oltre a questa troviamo anche il 18500, il 23500 o il 31000 a.C. (e naturalmente anche il 10500 d.C. etc.). Né un periodo come il 31000 a.C. ci deve sembrare troppo antico come data possibile della costruzione della Grande Piramide o, almeno, della frequentazione di Giza in quanto osservatorio sacro-astronomico. Abbiamo ben visto in The Snefru Code part. 6 che il culto stellare a cui allude la struttura archeoastronomica della Camera della Regina abbia dei punti di contatto molto stretti con quello della Cappella dei Leoni e dei Rinoceronti di Chauvet, che è stata realizzata proprio intorno al 31000 – 32000 a.C.
4. È chiaro che la mancata considerazione del punto di vista altrui tende a causare errori di prospettiva nella lettura di documenti e personaggi che non appartengono alla nostra cultura. In un contesto culturale come quello Antico Egizio nessuno ne sapeva nulla né di un tempo lineare né di personaggi ed eventi storici unici e irripetibili, dato che questi, per quanto ne sappiamo, sono una caratteristica praticamente unica della visione della storia dell’Occidente moderno. Dunque, in un contesto del genere, il cartiglio con il nome “Cheope” dice tutto e non dice nulla, dato che le probabilità che si riferisca a un individuo sono praticamente pari a zero.
Per avere un’idea dei possibili fraintendimenti che si possono generare associando in modo immediato figure di periodi storici diversi possiamo fare un esempio molto celebre. Non c’è storico occidentale che non sia incline ad associare figure come quelle di Giulio Cesare e Napoleone Bonaparte. E, in effetti, l’associazione ha anche un certo fondamento e un certo potere esplicativo. Solo che per gente della nostra epoca è facilissimo dimenticare che se l’ambizione di Napoleone Bonaparte era quella di passare alla storia (cioè: di essere ricordato) proprio in quanto Napoleone Bonaparte (ovvero: in quanto essere umano unico e irripetibile), un uomo come Giulio Cesare ambiva invece con le sue imprese a identificarsi e ad essere identificato con Dioniso, così come prima di lui era riuscito a fare Alessandro Magno. Una cosa logica, dato che in epoca pagana si credeva che per diventare immortali bisognasse in qualche modo confondersi con gli déi, che sono gli unici esseri del cosmo a godere del dono dell’immortalità. Questo intimo legame col divino veniva rivendicato da Cesare anche per dare lustro alla sua casata: senza alcun senso dell’ironia sosteneva infatti di essere un discendente di Venere. È vero, forse lui non ci credeva, e lo faceva solo per motivi propagandistici: ma è chiaro che contava sul fatto che i cittadini Romani ci credessero, perché la cultura del tempo accettava tranquillamente che gli déi si accoppiassero con gli esseri umani e generassero con loro dei figli.
A ben vedere, queste sono cose solo apparentemente stupefacenti. Se consideriamo che nella cultura pagana, pur tanto diversa da quella Antico Egizia, era ancora viva l’idea di un tempo ciclico-mitico, in cui gli stessi personaggi e le stesse vicende erano destinati a ritornare inesorabilmente, l’atteggiamento di Cesare ci sembrerà del tutto ovvio. Ci voleva proprio un egocentrismo del calibro di quello di Nietzsche – il più occidentale dei filosofi occidentali – per poter credere di essere stato il primo a vedere la storia come un eterno ritorno dell’uguale. Un’idea che ancora al tempo dei Greci Classici era ancora comune come l’acqua.
5. Stante ciò, noi non possiamo attribuire al cartiglio di Cheope un valore esplicativo-probatorio maggiore di quello che si può legittimamente attribuire alla celebre statua in diorite di Chefren o a quelle di Micerino, che sono a loro volta le uniche prove in base alle quali attribuiamo un nome ai costruttori della seconda e terza Piramide di Giza. In questi casi, l’assoluta sicurezza con cui l’egittologia scolastica da per scontate queste attribuzioni pare davvero sorprendente, in specie considerando il fatto che queste statue sono state ritrovate nei Templi in Valle, e non nelle Piramidi. Davvero non si capisce come a nessun professore possa essere venuto in mente che siano state messe lì in epoca di molto successiva, magari per dei motivi che nemmeno siamo in grado di raffigurarci in modo chiaro. Che diremmo se fra cinque o diecimila, o quindicimila anni – consunte le lapidi e le carte – qualcuno dicesse che Roma è stata costruita dagli Antichi Egizi perché in una delle sue piazze principali si è ritrovato un obelisco perfettamente conservato (è bene ricordare che in un periodo di questo genere l’obelisco è più o meno l’unico monumento che abbia una qualche possibilità di durare intatto)?
Un fraintendimento non molto minore lo avremmo anche nel caso che si attribuissero a Marco Aurelio i palazzi relativamente moderni che circondano attualmente il suo monumento equestre, o all’epoca di Caravaggio gli impianti elettrici dei musei dove sono conservati i suoi quadri.
6. Abbiamo portato come esempio il caso delle Piramidi di Giza solo perché è molto famoso, e di solito chiunque si interessi anche in modo non particolarmente profondo dei problemi gnoseologici legati all’archeologia lo conosce abbastanza bene. Ma in tutto il mondo possiamo trovare reperti importantissimi che risultano completamente o quasi completamente muti. Scavando un certo sito tutto quel che si può ottenere con i metodi tradizionali è una stratigrafia dei ritrovamenti. Da questa si può giungere a una datazione relativa dei reperti piuttosto affidabile, almeno per quanto riguarda un medesimo scavo o una medesima zona, ma nulla di più.
Ma, per quanto interessanti, queste conclusioni sono del tutto inservibili quando si voglia stabilire una data assoluta. Supponiamo che in una grotta paleolitica si trovino in due strati successivi prima delle conchiglie e poi dei denti di leone forati. Da questo possiamo dedurre che le conchiglie sono state usate come decorazione in un tempo successivo ai denti, e fin qui siamo tutti d’accordo. Ma a quando risalgono questi reperti, al 10.000, al 20.000, al 30.000 o al 70.000 a.C.? Il problema può parere in prima istanza non molto importante, ma invece è connesso a problemi ermeneutici e storico-filosofici di primaria importanza. Se un determinato tipo di manufatti si debbano collocare – supponiamo – nel 15000 invece che nel 2500 a.C. – vi sono degli interi capitoli dei nostri libri di storia, archeologia e paleontologia che andrebbero riscritti. Se poi dovessimo retrodatarli di 100000 o 200000 anni a saltare non sarebbero solo i singoli capitoli, ma tutta quanta la nostra visione del mondo e della storia.
7. In questo senso, è diventato piuttosto celebre il caso degli strumenti di pietra ritrovati a Hueyatlaco (Messico) in uno strato geologico che – testato con metodi quantitativi ritenuti di solito attendibili – è stato giudicato addirittura più antico del 200.000 a.C., anche se alcuni risultati spingono la data possibile fino al 570000 a.C.
A queste notizie la comunità accademica ha avuto una reazione piuttosto strana. Invece che prendere atto che le idee comunemente accettate quanto all’evoluzione e alla diffusione del genere umano sulla Terra erano diventate discutibili (fino a quel momento si era creduto che l’uomo fosse arrivato in Sudamerica partendo dall’Africa in una data fra il 10000 e il 15000 a.C.) si è pensato bene di intimidire in vario modo tutti quegli studiosi che non si rendessero disponibili a ritrattare o ad ammorbidire le conclusioni delle loro ricerche. Eppure questi scienziati dovevano esser stati considerati fino a quel momento autorevoli ed affidabili, altrimenti nessuno si sarebbe dato la pena di trovare i soldi per farli venire dagli Stati Uniti fino in Messico, fargli eseguire le stratigrafie, i test, etc. Che cosa era successo perché di colpo degli stimati studiosi si fossero trasformati in degli incompetenti, o in dei mattoidi, o addirittura in dei megalomani fraudolenti, disposti a falsificare i risultati dei loro test pur di conquistarsi un giorno di notorietà?
Occorre sottolineare che non tutti questi studiosi si sono piegati alle ingiunzioni o alle minacce della comunità accademica. Ciò ha fatto si che una geologa – Virginia Steen-McIntyre – rea di aver reso pubblici i risultati delle sue analisi a dispetto degli avvertimenti ricevuti, sia stata espulsa prima dalla sua università e poi ostracizzata dalla comunità scientifica. In questo modo la sua carriera accademica si è inopinatamente e tristemente conclusa per dei motivi che, seppure all’apparenza possono sembrare scientifici, su un piano più profondo possono invece essere considerati tipicamente religiosi.
Diciamo questo perché un tal modo di comportarsi ci fa sospettare che la data “standard” che la paleontologia accademica attribuisce alla colonizzazione del Sudamerica da parte dell’uomo non venga vissuta come un dato scientifico qualsiasi, soggetto a falsificazione e correzione. Al contrario, essa sembra considerata e difesa come un dogma. Uno dei tanti dogmi della cosiddetta “teoria evoluzionista” che, pur indossando le vesti “razionaliste” di una teoria scientifica, non sembra in realtà essere altro che uno strano genere di fede religiosa. Una fede che, pur non promettendo salvezze di alcun genere, qualche privilegio eppure lo concede a chi se ne fa discepolo ortodosso. Per esempio, quello di occupare un posto nella gerarchia che conserva la fede accademica e da tale posizione “autorevole” ostracizzare qualsiasi studioso o anche qualsiasi dato empirico possa contraddirla, compresi quelli ricavati per mezzo di test derivati addirittura dalla fisica, la regina delle scienze empiriche. In effetti, non c’è storico che non si renda conto di come in questo caso la comunità scientifica (“scientifica”?) si sia comportata verso un suo membro come la tanto detestata e retriva Chiesa Cattolica avrebbe fatto un tempo nei confronti di un eretico (c’è da dire però che, oggi come oggi, la Chiesa Cattolica risulta molto meno intollerante di un certo genere di “razionalismo”).
8. Il problema della datazione dei reperti sembra quindi della massima delicatezza ed importanza, non foss’altro che per le conseguenze personali che minaccia di avere sugli scienziati e sugli intellettuali dissenzienti. E sembra oramai assodato che risposte attendibili non si possano trovare affidandosi a mezzi puramente critico-estetici. Per fare un esempio ancora una volta molto famoso, i dipinti delle Cave di Chauvet appaiono al nostro giudizio estetico di fattura molto più raffinata di quelli di culture di cinque o anche dieci millenni successivi (dipinti come quelli di Pech-Merle, tanto per fare un nome). Addirittura, in alcuni dettagli di queste pitture si nota che i pittori di Chauvet dovevano avere un senso della prospettiva piuttosto sviluppato, sia pure a un livello che pare solo istintivo. Eppure tutti sappiano che quelli di Chauvet sono fra i reperti più antichi che ci abbia lasciato in eredità l’arte figurativa, dato che risalgono addirittura al 32000 a.C. Ora, se è vero che la storia naturale e umana è una storia evolutiva, cioè un succedersi più o meno rapido di progressi, perché la tecnica pittorica da quel momento in poi ha subito quella che noi definiremmo senz’altro come un’involuzione? Come è che solo ai tempi di Altamira e Lascaux ha recuperato le capacità sviluppate ben quindici millenni prima?
9. Questo problema però potrebbe essere mal posto perché, a ben vedere, un prodotto artistico che a noi pare “raffinato”, “evoluto” e “sviluppato” può non apparire tale a popoli di culture diverse dalla nostra. Se un cinese del diciannovesimo secolo dopo Cristo avesse ascoltato una sinfonia di Beethoven forse avrebbe udito solo un’assordante cacofonia composta non è ben chiaro se da suoni o da rumori o da che altro. Eppure molti storici occidentali pensano che fino al sedicesimo secolo la Cina fosse il paese culturalmente e tecnologicamente più avanzato del mondo.
Parimenti, l’architettura di stile euroccidentale non pare adatta a esprimere l’anima di popoli che hanno un senso dello spazio radicalmente diverso dal nostro. Rimanendo in Cina e nelle culture circostanti, vediamo che la forma dei tetti dei templi e di altri edifici sacro-monumentali è spesso caratterizzata da un profilo arcuato, con gli spigoli che “rimbalzano” verso l’alto con una curva simile a quella della parte discendente. Questa forma (che in certi casi ritroviamo anche negli elmetti degli eserciti dell’età del ferro) pare alludere a una visione dello spazio tale per cui le nozioni di alto e di basso tendono a scivolare l’una nell’altra. Così, edifici come quelli che vediamo nella foto sotto sembrano dirci: l’alto tende verso il basso, il basso tende verso il l’alto.
Questa visione dello spazio architettonico sacro ha naturalmente un profondo significato spirituale. Ci ricorda in primo luogo “Il Libro dei Mutamenti”, in cui il mondo viene visto come un passaggio da un contrario all’altro, ma anche il Tao-Thè-King. Così come il santo taoista governa il regno (cioè: svolge un compito alto) andando ad occupare la posizione più umile (cioè: la più bassa), così lo spazio architettonico dei templi tende ad assimilare le direzioni contrarie. Il basso punta verso l’alto, e dunque contiene in nuce l’altezza. L’alto punta verso il basso, e dunque contiene in nuce la bassezza. In generale, vediamo che nella cultura antica cinese – proprio come nella filosofia di Eraclito – ogni contrario contiene l’altro.
Nulla di più diverso dallo spirito Euroccidentale, il cui simbolo più potente è senz’altro la violenta tensione monodirezionale tipica delle cattedrali gotiche, che alludono a uno slancio verso l’alto e verso l’infinito che per principio non può mai ritornare su sé stesso. Che altro possono significare due strutture come quelle rappresentate nelle foto sottostanti?
Si noti che a questa interpretazione dello spazio architettonico sacro corrispondeva perfettamente l’interpretazione gotica del cristianesimo in quanto esperienza spirituale. Ciò che ha fatto si che, per esempio, fino all’avvento di Papa Francesco i capi della Chiesa abbiano occupato sempre e comunque il posto più elevato e si siano sempre e comunque rivolti ai fedeli – appunto – dall’alto in basso. Una cosa del tutto logica, dato che in questa visione del mondo non c’era posto per commistioni fra autorità e popolo, almeno per quanto riguardasse la struttura gerarchica e dunque la gestione del potere temporale e dottrinale. È vero che sul piano spirituale molti santi hanno esercitato un influsso potentissimo proprio spogliandosi di ogni potere e ricchezza terreni. Ma questi dovevano invece rimanere come attributo imprescindibile di ogni soggetto appartenente alla gerarchia propriamente detta, che tanto più si trovava in alto tanto più doveva accrescere anche in questi attributi – che in questo senso non erano affatto “mondani” – per confermare in questo modo la sua lontananza dal mondo comune e la sua prossimità col divino.
Sembra chiaro dunque che il papato di Francesco segna una svolta epocale della Chiesa, che si prepara a un’interpretazione del Vangelo che, presumibilmente, avrà ben poco a che fare con quella gotica, che ben presto diventerà un passato non è più chiaro se più glorioso o più scomodo.
A volte basta una frase – magari una frase che appare ai più banale – a segnalare l’abisso che separa un’epoca storica da un’altra. Parlando con i giornalisti sull’aereo che lo portava nella Sri Lanka papa Francesco ha lasciato andare un inciso che sul momento nessuno ha notato, dicendo che “dire quel che si pensa è un dovere, per dare un contributo al miglioramento della società”. I giornalisti – in teoria – avrebbero dovuto mettersi a gridare per lo stupore: ma come, un papa che invita tutti – fedeli e non – a dir quel che pensano per migliorare il mondo? Ma se fino ad adesso la Chiesa aveva invitato tutti – e in particolare i fedeli – a ripetere acriticamente i dogmi stabiliti “motu proprio” dall’autorità e a lasciar perdere o a far tacere il pensiero e la riflessione individuale, e dunque anche la coscienza? Non c’era fino a qualche tempo fa l’indice dei libri proibiti, non si era arrivati a bruciare addirittura le “Lettere a un provinciale”, non si scoraggiava persino la lettura delle Sacre Scritture? Cosa sta succedendo alla Chiesa? E cosa sta succedendo al nostro mondo, dato che per secoli la storia del mondo occidentale e quella della Chiesa si sono praticamente sovrapposti?
Già, cosa sta succedendo? Sta succedendo che l’Occidente si sta volgendo dal tramonto al crepuscolo, e non è chiaro se nelle parole del papa si debba leggere l’estrema decadenza di qualcosa di vecchio oppure la nascita di qualcosa di nuovo. Solo il posteri saranno in grado di dirlo, ammesso che ai posteri importerà qualcosa della Storia nel senso Occidentale del termine, e dunque anche di quella dell’Occidente che lo ha preceduto e della propria. Il tempo che occorrerà al nostro mondo per tramontare definitivamente andrà molto al di là di questa generazione, e dunque per i contemporanei è davvero difficile farsi un’idea qualsiasi, magari anche completamente falsa, del futuro.
10. Considerazioni come queste ci danno a intendere che concetti come quelli di “progresso”, “evoluzione” e simili dovrebbero essere intesi da uno storico dallo spirito veramente aperto in maniera un po’ meno assolutistica di come di solito accade fra gli intellettuali occidentali. Forse al mondo non c’è e non c’è mai stata una e una sola linea evolutiva, naturale o umana che sia. Forse tanto la natura che l’uomo si sviluppano da sempre in direzioni molteplici, diverse o parallele, in una successione di forme paragonabili eppure sempre irriducibilmente uniche e diverse.
Quindi non c’è più di tanto da stupirsi se in The Snefru Code part. 7 abbiamo trovato nel disegno della Grande Piramide le tracce di una teoria dei campi unificati che ancora oggi noi non siamo riusciti a sviluppare. Questa scoperta dimostra che la scienza empirico-matematica non è un patrimonio esclusivo della modernità. Né dunque essa rappresenta un punto di arrivo irreversibile del sapere umano: essa è esistita in altra forma migliaia e migliaia di anni fa, è stata dimenticata e poi è stata reinventata. È dunque molto probabile che in futuro il suo destino sarà ancora una volta questo. Infatti, constatando quel che è successo nel passato, non è difficile immaginare che fra molte migliaia di anni gli uomini avranno dimenticato tutto quel che hanno imparato, e che poi lo apprenderanno di nuovo, forse in forma un po’ diversa. E naturalmente crederanno di nuovo, come noi lo abbiamo creduto, di essere i primi a scoprire e a impadronirsi dei segreti della natura per mezzo della matematica.
Mostrare che quella dell’assoluta unicità e superiorità scientifica della nostra cultura non è altro che un’illusione: il senso della nostra ricerca non è infine proprio questo? Che civiltà che hanno raggiunto un grado di conoscenza scientifica pari o superiore al nostro sono esistite e scomparse senza che fino ad ora si sia avuto il sentore della loro esistenza: non è proprio questo che siamo riusciti a dimostrare? Dunque il senso dell’uomo nel cosmo e nella storia va ben al di là dei ristretti limiti imposti dall’evoluzionismo. Anzi. L’evoluzionismo stesso si rivela infine come un’idea infantile e pre critica dell’Occidente, che si trova ancora agli albori della comprensione del passato profondo dell’umanità, e quindi anche delle proprie origini – non meno che del proprio destino.
PARTE SECONDA: il test del carbonio 14 e i problemi gnoseologici connessi con la sua applicazione
1. Riprendendo il filo del ragionamento storico-ermeneutico che stavamo facendo all’inizio di questo articolo, è bene ricordare che la condizione di estrema incertezza quanto all’età assoluta dei reperti archeologici è durata fino agli anni sessanta del secolo scorso, quando si è trovato il modo di risolvere il problema con la datazione dei reperti in base al decadimento del Carbonio 14. Questo nuovo metodo, sebbene abbia costretto paleontologi e archeologi a rivedere ripetutamente delle datazioni che si credevano assodate, non ha però raggiunto e toccato tutti i siti archeologici del mondo in modo indistinto. Questo è accaduto perché il metodo funziona solo con resti di natura organica, ed è impossibile applicarlo ove ci si trovi a dover datare reperti come la pietra, la terracotta, o i metalli. Un tal genere di oggetti vengono datati non direttamente, ma induttivamente, solo ove si possano ad essi associare in modo ragionevolmente certo dei reperti di natura organica. Ma questo non accade sempre e, anzi, vi sono dei casi estremamente rilevanti per il dibattito storico-archeologico in cui non si trova il modo di arrivare a conclusioni degne di nota.
Questo è il caso di tutti quei luoghi ove strutture che si possono supporre come molto antiche sono state occupate e riutilizzate da popolazioni successive a quelle che le hanno costruite. In questo modo il sito subisce quel che potremmo definire un “inquinamento biologico”, che rende totalmente inaffidabile la prova del Carbonio 14. Per fare un esempio immediatamente comprensibile a tutti, se qualcuno pensasse di datare la Cattedrale di Milano in base a un test effettuato su una sedia in legno acquistata negli anni sessanta, stabilirebbe in modo assoluto l’età della sedia, non quella della cattedrale. Lo stesso accade ogni volta che nuovi popoli si impadroniscono delle costruzioni di loro magari del tutto sconosciuti predecessori. I nuovi abitanti tendono a cancellare le tracce biologiche di quelli precedenti, di modo che il test del Carbonio 14 si trova ad avere sempre e comunque a che fare con dei resti che appartengono alle culture più recenti, e mai o quasi mai a quelle originarie.
2. Questo sembra essere ancora una volta il caso delle Piramidi di Giza. Quando si è ritrovato nei pressi della Grande Piramide un reperto che è risultato del 5000 a.C., questo ritrovamento non ha avuto in pratica conseguenze di tipo storico-teorico. Questo è accaduto perché, quanto al resto, la generalità dei ritrovamenti indica sempre e comunque delle date successive, che si crede che possano confermare le idee correnti quanto alla storia dell’Antico Egitto. Ma domandiamoci: come possiamo essere sicuri che i resti di epoche anche molto più antiche (tipo il 7000 a.C., più o meno corrispondente all’età del Circolo di Nabta Playa) non siano stati distrutti e/o coperti da quelli di epoche successive (dunque anche da quelli del 5000 a.C.)? È del tutto ovvio che certezze di questo genere sono impossibili.
La prova del Carbonio 14 eseguita su frammenti organici estratti direttamente dalla Grande Piramide e da altri edifici vicini ha dato a sua volta risultati contraddittori. Se in molti casi ha indicato sistematicamente una data attorno al 3100 a.C., in un caso ha però segnalato un piuttosto inquietante 3800 a.C. Di una datazione come questa ovviamente nessun professore sa bene cosa fare, dato che l’egittologia accademica colloca la costruzione delle Piramidi della IV Dinastia in una data attorno al 2500 a.C. D’altra parte, nemmeno coloro che pensano che queste Piramidi appartengano a un’epoca molto più antica è incline a prendere in considerazione questo ritrovamento. Molti di questi archeologi accettano infatti le idee di John Anthony West, e fanno risalire l’origine delle Piramidi a un’epoca pari o antecedente al 10000 – 11000 a.C. Dunque il 3800 a.C., visto che non supporta le idee di nessuno, è stato rapidamente messo nel dimenticatoio. Come se la prova del radiocarbonio – cioè un rilievo scientifico i cui risultati di solito si giudicano oggettivamente e indiscutibilmente certi – in questo caso particolare non significasse proprio nulla.
Invece, prendendo sul serio questo ritrovamento, ci si potrebbe o addirittura ci si dovrebbe domandare se la costruzione delle Piramidi di Giza non sia iniziata 1300 anni prima della data “canonica” (ovvero nel 3800 invece che nel 2500 a.C.). In secondo luogo, dovremmo chiederci se i lavori non siano stati conclusi circa 6 secoli prima di quanto fino ad oggi non si credesse (come suggeriscono i molti reperti che danno come risultato il 3100 a.C.). A questo punto, non solo saremmo costretti a spostare indietro la datazione delle Piramidi, ma anche a rivalutare il tempo che fu necessario alla loro costruzione: da pochi decenni ad almeno sette secoli (un periodo di tempo che appare fra l’altro un po’ più ragionevole dei venti anni che sono di solito attribuiti a un’impresa inumana come quella di tirar su la Piramide di Cheope).
Ma, naturalmente, una volta rotto l’argine dell’interpretazione tradizionale, potremmo porci anche un altro genere di questione. Ovvero: l’intervallo di tempo stabilito da queste date – quello cioè fra il 3800 e 3100 a.C. – si riferisce alla costruzione delle Piramidi oppure al loro restauro? E se si riferisse al loro restauro, su quale fondamento potremmo stabilire la data in cui i lavori vennero per la prima volta iniziati?
Di nuovo, nessuno può dire sensatamente di avere certezze solide e definitive al riguardo, in specie se consideriamo che al convegno dei geologi statunitensi del 1991 venne accettata la tesi di West e Schoch, ovvero che i segni di erosione sulla Sfinge sono spiegabili solo con piogge torrenziali. Questa nuova teoria ha messo radicalmente in crisi la datazione tradizionale del monumento, dato che piogge di questo genere in Egitto si sono verificate solo fino al 7000 a.C. Dunque non solo dovremmo retrodatare di molti millenni la costruzione della Sfinge, ma anche e soprattutto l’uso del Plateau di Giza come luogo di culto.
3. Una situazione molto simile vale per siti precolombiani come Cuzco, Sacsaywaman, Macchu Picchu, e molti altri. Casi in cui anche un occhio non molto esperto nota immediatamente una rilevante discontinuità tecnica e stilistica fra le strutture costruite dagli Inca e quelle di cui gli stessi Inca, interrogati dai conquistadores, ne respingevano vigorosamente la paternità, dicendo che “ovviamente” erano state costruite dagli dèi in epoche lontane. Dobbiamo riconoscere che questa è una risposta che nessun archeologo occidentale – accademico o indipendente che sia – è disposto a prendere per buona, anche perché dalle nostre parti nessuno crede più agli déi da almeno una quindicina di secoli (al massimo si trova qualcuno disposto a credere che la tradizione incaica faccia passare per divinità quelli che per noi sono i molto più tranquillizzanti extraterrestri). Forse è per questo che l’archeologia accademica, non avendo a disposizione altri canditati, ha pensato bene di attribuire anche i monumenti ciclopici agli Inca, senza preoccuparsi più di tanto di giustificare il fatto che ne rifiutassero la paternità.
Ora, questa non pare una posizione di quelle che potremmo definire come scientificamente fondate. Come prima cosa, dobbiamo osservare che non vi è notizia che gli Inca stessi abbiamo mai mostrato di possedere la capacità di costruire opere del genere o anche solo di saperle restaurare. In effetti, si nota che quando le strutture ciclopiche presentavano dei vuoti, venivano sistematicamente riempiti con pietre di piccola dimensione, incastrate o cementate fra di loro in modo approssimativo. Quindi, se quei monumenti non li hanno costruiti gli déi, sono probabilmente da attribuire a culture che con quella Inca non hanno nulla o quasi nulla a che fare.
Sfortunatamente però anche questo sembra un caso in cui pare del tutto inutile tentare di risolvere il problema con la prova del Carbonio 14. Siccome questi siti sono stati occupati per molti secoli da popolazioni relativamente recenti, il materiale biologico che si ritrova appartiene quasi per principio a queste popolazioni, che per l’appunto sono quelle che dicono che a costruire le mura ciclopiche furono gli déi. Dunque la discussione su questa tema può per il momento essere portata avanti solo sul piano del confronto stilistico, e, soprattutto, di quello delle differenti tecniche costruttive connesse con i differenti stili.
4. In effetti, è stato più volte e da più parti notato come le costruzioni che gli Inca attribuirono a sé stessi mancano del tutto di quei tratti “ciclopici” che sono invece tipici delle costruzioni che inglobano, o a cui si appoggiano. Lungi dal parere di origine divina, i muri Inca sembrano proprio le strutture più banali del mondo, formati come sono da pietre che di solito non superano il peso che risulta sollevabile e collocabile da una o due persone al massimo. Queste pietre sono state lasciate molto spesso allo stato grezzo, oppure sono state grossolanamente squadrate, prima di essere incastrate alla belle e meglio con altre pietre simili, spesso senza l’ausilio di alcun tipo di calcina. Mura di questo genere, che si trovano con grande facilità in ogni epoca e in ogni parte del mondo (compreso nei campi e negli orti dell’Occidente moderno), coabitano con gigantesche strutture megalitiche poligonali, costituite da pietre di granito lavorate in modo finissimo. Questi poligoni raggiungono un peso che in certi casi viene stimato in 400 tonnellate e il numero di ben quindici angoli (ma c’è chi sostiene di averne viste una che raggiunge l’incredibile record di 32).
Anche se questi poligoni fossero stati accoppiati con tolleranze dell’ordine di qualche millimetro l’impresa di mettere in piedi queste mura sarebbe stata davvero ciclopica. Invece, come tutti sappiamo, gli accoppiamenti raggiungono una precisione tale che risulta impossibile inserire una lama per quanto sottile nelle intercapedini (nessuno fino ad ora è mai riuscito a stabilire in modo soddisfacente il grado di tolleranza con cui furono in origine realizzati gli incastri: c’è però da dire che ci sono dei casi in cui si fa molta difficoltà a distinguere il punto di giunzione dalla roccia viva, almeno ad occhio nudo).
5. Per di più, queste pietre mostrano di essere state assicurate fra di loro per mezzo di un sistema di “chiavette” del tutto simile a quello che è stato rilevato nell’Antico Egitto, di cui possiamo osservare due esempi nelle foto sottostanti (nella foto a sinistra possiamo vedere una chiavetta in cui è stato ritrovato un residuo del metallo che vi è stato colato)
Questo è un particolare costruttivo che aggiunge difficoltà di lavorazione di tipo metallurgico a quelle già enormi e almeno per noi fin quasi inimmaginabili riguardanti la lavorazione e la collocazione della pietra. Osservando queste immagini sembra del tutto chiaro che i poligoni venivano per prima cosa incastrati perfettamente. Solo a questo punto, vi veniva incavata la sede per la chiavetta in cui infine si versava il metallo liquido, che comunemente si crede fosse rame o bronzo. Un’operazione di questo genere presuppone che queste persone fossero in grado di liquefare il metallo con dei forni in grado di essere spostati nei punti del cantiere in cui vi era via via bisogno di versare il metallo, che in un posto come Sacsaywaman sono distanti anche centinaia di metri. Oppure dobbiamo pensare che avessero a disposizione dei crogiuoli in grado di mantenere il metallo allo stato fuso anche dopo un bel po’ di tempo che fosse stato estratto dal forno.
6. Tutto questo insieme di difficoltà tecniche ha spinto molti storici ed archeologi indipendenti a concludere che fra queste strutture e le costruzioni Inca vi debba essere per forza di cose una netta discontinuità tanto cronologica che culturale. E questa sembra un’osservazione assolutamente ragionevole, per non dire del tutto ovvia. Talmente ovvia che, se non fosse per l’opposizione che trova nella storia e nell’archeologia ufficiali, non si perderebbe tempo neppure a discuterla. Tanto per fare un parallelo facilmente comprensibile, se un turista vede nel bel mezzo della savana africana una carcassa di Jeep riutilizzata da una tribù “primitiva” come pollaio, di certo non gli viene in mente di attribuire la costruzione dell’automobile alle stesse persone che la riutilizzano come pollaio. Ma mentre noi conosciamo benissimo chi ha costruito la Jeep (e abbiamo anche un’idea dell’apparato tecnico occorrente per costruirla), nel caso delle strutture ciclopiche sudamericane non pare esser rimasta alcuna traccia della cultura o delle culture che le hanno costruite. Tutto quel che sappiamo è che in relazione alle strutture ciclopiche le mura incaiche sembrano appunto quelle di un pollaio. Questo ha spinto molti studiosi a pensare che non solo la cultura che le ha costruite sia diversa, ma anche che sia enormemente più antica di quelle che per solito vengono definite “precolombiane”. Però non risulta chiaro a nessuno quanto lontano nel tempo si possa o si debba spingere questa datazione.
Per altro verso, le immagini che possiamo vedere qui sotto, scattate a Macchu Picchu, a Ollantaytambo e a Cuzco, sembrano non lasciare luogo a dubbio alcuno. Davvero ci si domanda come si possa ragionevolmente credere che i costruttori dei muri che si sovrappongono e/o inglobano quelli inferiori possano essere gli stessi. Oppure, che le loro conoscenze generali quanto alla lavorazione della pietra – e quindi la loro scienza, la loro matematica, la loro tecnica, i loro strumenti e canoni di lavoro – non meno che lo spirito, il senso che davano alle loro costruzioni – possano avere le stesse radici
Naturalmente, in campi come la storia o l’estetica nulla si può imporre a nessuno, neppure l’evidenza. È per questo che l’archeologia ufficiale – facendosi forte dell’autorevolezza che senza altro fondamento scaturisce dall’ufficialità delle sue affermazioni – sostiene tranquillamente che, per esempio, quel gigantesco blocco di granito rosa di Ollantaytambo, che vediamo nella prima fila di foto a destra, del peso di qualche decina di tonnellate, lavorato in modo finissimo, sia stato messo in opera dalle stesse persone che lo hanno adoperato per appoggiarvi in modo approssimativo delle pietre grezze o lavorate alla meno peggio. Poco vale obbiettare che perfino il primo cronista giunto a Sacsaywaman dopo la conquista spagnola, Garcilaso De Vega, non riuscisse a capire come quelle pietre potessero esser state messe insieme senza l’aiuto del diavolo. Ancora meno vale far notare che non ha alcun senso – né architettonico né tantomeno estetico – costruire fondamenta colossali fino al punto di apparire quasi disumane per poi utilizzarle per costruzioni tanto comuni e banali, di cui qualsiasi pensionato in buona forma fisica può costruire una perfetta imitazione nel giardino di casa propria. Tanto varrebbe mettere il motore di una Ferrari nel telaio di una motocarrozzetta, si vorrebbe dire. Ma la cultura accademica, in casi come questi, tende ad abbandonare il senso comune collettivo per salvaguardare quello storico-archeologico. Così, nelle università di tutto il mondo, i professori di archeologia ripetono, con il tono di chi ha Dio dalla sua parte, che gli Inca sono gli autori di entrambe le strutture.
7. D’altra parte, a dispetto dell’ostinazione con cui viene ancora oggi difesa da certa “ufficialità” la tesi che mura poligonali come quelle di Macchu Picchu o Ollantaytambo siano opera degli Inca, si è creata oramai da tempo una corrente ermeneutica, sempre più diffusa e maggioritaria, che contro un certo genere di cecità accademica riconosce nella chiara diversità qualitativa e stilistica delle strutture un’altrettanto chiara e distinta stratificazione culturale e cronologica. Questa corrente attribuisce senza alcuna esitazione le mura poligonali megalitiche a una civiltà preesistente a quella Inca – anche se, ovviamente, risulta poi difficile trovare un accordo quanto alla natura di questa civiltà e all’epoca della sua nascita e sparizione. In effetti, l’unica struttura che ha fornito un appiglio a un tentativo di datazione è quella di Tiahuanaco. Qui, per mezzo dell’archeoastronomia, si è arrivati a ipotizzare che questa città fosse stata costruita attorno al 13000 a.C., perché si è scoperto che l’allineamento del tempio ai solstizi – che oggi risulta sia pur di poco inesatto – fosse giusto in quel momento del ciclo precessionale.
Si è giunti a questa ipotesi perché, come abbiamo visto abbondantemente nelle parti precedenti di questo lavoro, l’angolo di inclinazione del polo terrestre rispetto a quello dell’eclittica oscilla nei millenni fra i 21°,5 e i 23°,5. E questa oscillazione ha ovviamente un effetto anche sull’angolo che risulta fra i due opposti solstizi. Per questo, se immaginiamo che il tempio di Tiahuanaco fosse stato costruito attorno al 13000 a.C. l’allineamento del tempio sarebbe stato perfetto. Questo fatto ha spinto a ipotizzare che la sua costruzione sia stata effettuata in quell’epoca, perché davvero si fa fatica a pensare che i costruttori abbiano commesso e accettato un errore di quel genere. Infatti, da quel che si può capire tanto dai reperti archeologici che dalla tradizione mitica, per queste genti l’allineamento ai solstizi non era una banale decorazione estetica, ma un elemento rituale-religioso importantissimo, forse il più importante di tutti. Allineare il tempio al Sole era legare sacramentalmente la città e il popolo con la divinità protettrice, rendergli omaggio, glorificarla, conformarsi al suo volere onnipotente. Un errore nell’allineamento doveva dunque essere inteso come una specie di sacrilegio: come si può pensare che i costruttori lo abbiano fatto passare come un difetto qualsiasi, in specie dopo aver accoppiato le pietre in modo tale da non farci passare un capello?
Ma, a parte queste considerazioni di tipo culturale, la collocazione di Tiahuanaco nel 13000 a.C. ha dalla sua il fatto che rende possibile pensare che la misteriosa cultura che eresse le mura ciclopiche si sia estinta già molti millenni prima degli Olmechi, la civiltà che si suppone all’origine di tutte le culture precolombiane di cui siamo in vario modo a conoscenza. Un fatto di questo genere giustificherebbe perfettamente che gli Inca non sapessero nulla dei costruttori delle mura ciclopiche al momento in cui vennero interrogati dagli Spagnoli. Questo ci spingerebbe anche a pensare che non ne sapessero nulla nemmeno gli Olmechi, che sono presumibilmente a fondamento di quella tradizione mitica che le voleva costruite dagli dèi in tempi lontani. Un’interpretazione che non deve stupire nessuno, se persino Garcilaso De Vega – che secondo la teoria evoluzionista apparteneva a una cultura enormemente più avanzata di quella degli Inca – non sapendo far di meglio, l’attribuì senz’altro al demonio. Che è una creatura maligna, certamente, ma pur sempre dotata di poteri magici.
8. Questa associazione delle strutture di ciclopiche al divino, comune tanto agli Inca che agli invasori Europei, ci fa sospettare che la misteriosa cultura che le ha costruite, pur essendo tanto antica da esser stata totalmente dimenticata, dovesse essere però tecnicamente e scientificamente molto più avanzata – almeno in alcuni tratti – di quella di chi si sentì costretto ad ascriverne la paternità agli déi. Questa sarebbe una nuova conferma che l’evoluzione non procede secondo una linea unica e irreversibile. Al contrario, se questa datazione e la nuova attribuzione risultassero giuste, questa sarebbe una prova che quel dogma della religione evoluzionistica che avevamo discusso sopra – cioè che l’uomo abbia colonizzato il Sudamerica attorno al 10000 – 15000 a.C. – debba essere senz’altro riconsiderato. O, meglio: che tutto quel che credevamo di sapere quanto a storia e preistoria e quanto alla posizione e al destino dell’uomo nel cosmo deve essere messo in dubbio, ripensato. E vedremo come i reperti archeologici che ci accingiamo ad analizzare ci daranno una spinta ulteriore e forse decisiva in questa direzione. Sarà l’inquestionabile evidenza empirico-osservativa a costringerci a rivedere i nostri dogmi, le nostre idee fisse, le nostre stantie abitudini di pensiero. Dalle mura ciclopiche della Cinta di Alatri, tanto ingiustamente lasciate passare come un monumento piuttosto insignificante di epoca Romana, ci giungerà la prova indubitabile che le conoscenze chimiche di queste persone si trovassero diversi passi avanti rispetto alle nostre (almeno in certi settori).
Dalle foto che mostreremo il lettore potrà facilmente concludere che per questi antichi costruttori la pietra non era un materiale duro, difficile da cavare, da trasformare e da trasportare. Al contrario, per queste persone la pietra era una sostanza familiare, tanto familiare, comoda ed economica come lo è nel nostro tempo la plastica. E avremo modo di vedere come questa scoperta potrà servire a gettar luce sul mistero della tecnica costruttiva adottata per le opere megalitiche Antico Egizie e Precolombiane.
Da ultimo, speriamo che queste scoperte possano spingere i nostri chimici e i nostri fisici a mutare la direzione delle loro ricerche, in modo tale da riuscire a comprendere e dunque a utilizzare delle possibilità di trasformazione della materia che sono ancora del tutto fuori della nostra portata. Possibilità che forse saranno capaci di salvare il nostro mondo da una delle sue tante prospettive di autodistruzione: quella di soffocare nei suoi rifiuti, tanto brutalmente simile a quella per cui un organismo può soffocare nei suoi stessi escrementi.
PARTE TERZA: una possibile datazione della Cinta di Alatri in base al confronto stilistico con altre culture del Mediterraneo
1. I casi di cui abbiamo parlato fino ad adesso sono famosissimi, al punto da rappresentare quasi un luogo comune delle attuali ricerche e discussioni storiche e archeologiche. Ma vi è un caso molto meno famoso, eppure forse non molto meno importante, che dovrebbe in teoria interessare gli storici e gli archeologi italiani molto più dei resti delle culture precolombiane. Si tratta della Cinta Superiore di Alatri, alla cui sommità si trova attualmente una chiesa, appoggiata sui resti più interni e più elevati dell’antica struttura megalitica. Davanti ed intorno ad essa vi è un giardino, adattato a parco giochi per bambini. A parte queste, che sono le parti meglio conservate del complesso, vi è una cinta più esterna, lunga circa quattro chilometri. Anche questa, almeno a tratti, si trova ancora in condizioni molto buone. Entro i suoi limiti è stato costruita quella che, adeguandoci a un uso comune, possiamo chiamare “la città vecchia”.
Ad Alatri dunque, proprio come è successo nel Sudamerica Precolombiano, i poderosi resti delle mura ciclopiche non sono finiti sotto un cumulo di detriti. In ragione della loro straordinaria robustezza e della loro favorevole collocazione, sono stati invece rioccupati e riutilizzati da genti che presumibilmente, anche in epoca molto antica, erano completamente all’oscuro quanto all’identità di chi li avesse costruiti. È successo ad Alatri proprio quel che è successo a Cuzco, o ad Ollantaytambo. Laggiù, dopo gli Inca, anche gli Spagnoli hanno riutilizzato le antiche mura in mezzo alle quali tanto i discendenti degli indigeni che dei conquistadores vivono a tutt’oggi la loro vita quotidiana. Presumibilmente, senza saperne di più di quel nulla che oramai quattrocento anni fa mostravano di saperne i loro antenati.
2. È del tutto ovvio che in un contesto del genere il metodo di datazione col Carbonio 14 non abbia alcuna possibilità di essere impiegato con un minimo di fondamento. Dunque, a meno di clamorosi colpi di fortuna o di non meno clamorosi sviluppi del metodo di datazione scientifico-quantitativo, non abbiamo alcuna possibilità di datare scientificamente queste strutture, che paiono ancor più mute e anonime delle Piramidi di Giza. A parte lo stile delle mura infatti, i soli segni leggibili dell’identità culturale dei suoi costruttori sono dei simboli fallici che vennero scolpiti su un’entrata minore, forse per questo tradizionalmente chiamata Porta della Fertilità. Dai simboli fallici possiamo concludere con una certa sicurezza che in questa cultura l’organo sessuale maschile fosse sacralizzato, perché associato a una concezione della sessualità umana che la associava intimamente al divino.
Questo è un fatto per noi molto strano, dato che l’Occidente della Riforma e della Controriforma ha connotato la sessualità nel rango delle cose di cui tacere è bello, se non proprio di quelle da demonizzare. Perciò da molti secoli entro gli spazi sacri tanto cattolici che protestanti il nudo non viene più per nessun motivo tollerato, ammesso che non si tratti di un’opera antica, con un qualche interesse storico-turistico. Ma se l’orrore dei genitali appare come del tutto ovvio al senso del pudore etico-religioso della nostra cultura, non vi è storico e archeologo che non abbia contezza del fatto che in altre culture anche molto raffinate – fra cui quella Antico Egizia, quella Pagano Classica e quella Indù – gli organi genitali venivano considerati sacri, o addirittura assimilati a delle divinità in senso stretto. Una cosa che, una volta abbandonati i nostri pregiudizi, si capisce molto bene. La potenza di generare può essere infatti spontaneamente assimilata alla capacità dei mortali di trascendere la morte, e dunque anche il tempo e la caducità della condizione umana. Un fallo eretto e una vagina, siccome sono gli strumenti della generazione, invece che come una vergogna possono ben figurare come simboli della vita eterna cui è destinato l’uomo, come anche della condizione degli déi, che per loro essenza non conoscono la morte.
Dunque, siccome la porta su cui i falli furono scolpiti si allinea con il sole dell’equinozio, possiamo ipotizzare che questo fosse un modo di associare la capacità del fallo di fecondare la vagina a quella del Sole di fecondare la terra. Ma se queste indicazioni svelano pur qualcosa, rimangono però molto, molto generiche. Infatti, come noto, questo modo di considerare il Sole lo troviamo diffuso in tutto il mondo e in tutte le epoche. Solo in casi rarissimi il Sole non è stato considerato una divinità, oppure è stato considerato una divinità femminile. Dunque, per mezzo dell’interpretazione di questi simboli non arriviamo a sapere nulla di veramente specifico quanto all’identità culturale degli autori delle mura, e nulla di nulla quanto all’epoca della loro costruzione.
3. Stante la situazione, chi voglia indagare sull’età della Cinta Muraria di Alatri si trova nelle stesse condizioni di quegli archeologi che ancora non avevano a disposizione il metodo del Carbonio 14. Tutto quel che ancora oggi si può fare è dunque osservare le mura e cercare di stabilire se il loro stile sia da considerarsi o meno omogeneo e continuo rispetto a quello delle costruzioni che le hanno inglobate, o che si sono ad esse sovrapposte. E questo è un compito che si esaurisce immediatamente, dato che anche il più distratto e disinformato degli osservatori si rende immediatamente conto che le strutture megalitiche non hanno nulla a che vedere con quelle successive, comprese quelle di epoca romana, che si possono vedere nella zona.
Ma in aggiunta a ciò, possiamo effettuare un paragone stilistico con strutture che si possono considerare, almeno in via euristica, di epoche vicine, e di cui sia legittimo supporre che possano aver avuto un’influenza su queste costruzioni. In questo modo possiamo sperare di arrivare a una datazione che – sia pure su una base cognitiva assai meno solida del Carbonio 14 – soddisfi almeno quei parametri stratigrafico-stilistici che hanno caratterizzato l’archeologia fino agli anni sessanta.
Disponendosi dunque a uno studio di questo genere, sarà difficile fare a meno di associare le mura di Alatri con quelle greche di stile Miceneo, datate comunemente intorno al 1000 -1200 a.C. Mura che, proprio come quelle di Alatri, si possono ancora ammirare in buone o, in certi casi, in ottime condizioni di conservazione. Come è ovvio, le mura poligonali non sono un tipo di struttura capace di caratterizzarsi in uno stile ben definito, distinguibile e riconoscibile a prima vista, come quello del tempio Antico Egizio in confronto a quello Pagano Classico. Pure, anche questo genere di costruzione, in quella che può parere una banalità geometrica del progetto complessivo, ha un suo particolare andamento. I singoli poligoni mostrano un loro stile – per quanto sommario – che è differente a seconda dei luoghi e delle culture, e nell’incastrarsi fra di loro danno luogo a qualcosa come un ritmo caratteristico. Ma siccome, appunto, un tal genere di somiglianze e differenze non può essere facilmente definito, conviene, per così dire, “dar la parola” ai monumenti stessi e osservare attentamente le foto sottostanti
Anche a uno sguardo superficiale, non è difficile notare la straordinaria somiglianza fra questi due segmenti di mura, al punto che chi non sia specialista della materia potrebbe facilmente pensare che le due foto siano state scattate in due punti diversi della stessa struttura. Invece si tratta in un caso (la foto a sinistra) di un tratto della Cinta Muraria di Alatri, nell’altro di quella di Micene. Ma il compito che ci eravamo prefissi era proprio questo: associare tanto a livello storico-cronologico che stilistico-culturale la Cinta di Alatri con altre strutture simili in base al fatto che
1) presentino un’evidente parentela di tipo tecnico ed estetico-stilistico;
2) si trovino in una posizione geografica compatibile con la possibilità di più o meno reciproche influenze
A questo punto, troviamo che le mura micenee o di stile miceneo sono le prime che dovremmo prendere in considerazione. Invece, sia pur con qualche perplessità, dovremmo escludere le mura Antico Egizie, che pure paiono per altri motivi almeno paragonabili a queste. I poligoni Antico Egizi infatti hanno una forma individuale e dunque danno luogo a un rimo geometrico complessivo del tutto diverso da quello tipico di Alatri e di Micene. Il numero di angoli appare statisticamente molto inferiore (il più delle volte rimangono 4, anche se in casi che paiono piuttosto rari si arriva a 12), e la struttura risulta molto più lineare, così che se ne nota l’eterogeneità solo in certi punti. Per il resto queste mura appaiono piuttosto simili a mura “normali”, ovvero con andamento tendenzialmente ortogonale con qualche interruzione qua e là, come si può vedere nella foto sottostanti
Per ragioni completamente diverse, è difficile prendere in considerazione le mura ciclopiche Sudamericane, come quelle di Cuzco e Sacsaywaman, sebbene incerti punti si possa individuare una qualche parentela di tipo estetico. Però in questo caso si esita ad associare queste costruzioni, perché il Sudamerica si trova geograficamente troppo lontano per poter ipotizzare, senza altri fondamenti, che possa aver scambiato influssi culturali con un luogo come Alatri, mentre un’ipotesi del genere è stata fatta, e con ottime ragioni, nel caso dell’Antico Egitto. Diciamo questo perché nell’Antico Egitto come in Sudamerica troviamo costumi religiosi simili, come la mummificazione dei cadaveri, la deformazione craniale, e la costruzione di piramidi (sia pure di stile radicalmente diverso). Invece, nel caso di Alatri si può individuare come unico punto in comune con il Sudamerica il culto del Sole. E questo pare davvero un punto d’appoggio troppo vago per ipotizzare una reciproca influenza.
4. A parte la Grecia Micenea, anche a Malta, Tiro, Hattusa, e in altri siti del bacino mediterraneo possiamo osservare delle mura che mostrano avere con Alatri e Micene un sistema di quelle che Ludwig Wittgenstein avrebbe forse chiamato “somiglianze di famiglia” (la foto sottostante è del tempio di Gozo)
È proprio per questa ragione che, almeno a un primo sguardo, si vorrebbero senz’altro prendere in considerazione anche questi reperti per la nostra ricerca, a cui aggiungerebbero anche un elemento di ulteriore fascino e interesse. In particolare, l’associazione allo stile miceneo dei templi maltesi consentirebbe di retrodatare l’origine di questa particolare tecnica costruttiva di almeno duemila anni. Però, quando si cessa di osservare questi monumenti in modo, diciamo così, “panoramico”, e si cerca di vedere più nel dettaglio, diventa difficile stabilire se la qualità della lavorazione e quella degli accoppiamenti fosse la stessa di quella di Alatri e Micene. Mura come quelle del Tempio di Ggantija, tanto per fare un esempio, sono talmente erose che in dei punti si può tranquillamente far passare una mano attraverso il muro. In questo caso, per arrivare a delle conclusioni ragionevolmente certe, occorrerebbe un’accurata indagine in loco per rendersi conto se vi sono giunzioni in buono stato di conservazione. E, se vi fossero, controllare se la loro qualità sia paragonabile a quella delle mura di Alatri.
A ben vedere, anche le giunzioni della Cinta di Alatri in alcuni punti possono sembrare a un primo sguardo rozze e approssimative, poiché nella parte più esterna i giunti risultano a volte anche molto danneggiati. Così, si può avere l’impressione che i blocchi siano separati da fessure di diversi millimetri o addirittura di diversi centimetri di spessore. Ma si tratta, appunto, solo di un’apparenza molto ingannevole. Scrutando appena più in profondità ci si rende immediatamente conto che le facce dei poligoni risultano accoppiate con una precisione che non si può definire altro che vertiginosa. In certi casi, anche con una lente 10x, si fa fatica a distinguere la linea di giunzione.
Nelle foto sottostanti mettiamo un accoppiamento Antico Egizio accanto a uno di Alatri. Possiamo assicurare il lettore che, tolti i difetti esterni dovuti alla maggiore erosione, le mura di Alatri non hanno nulla da invidiare a quelle dell’Osireion, o della Camera del Re, o ad altri giustamente celebrati capolavori dell’architettura Antico Egizia. Le mura di Alatri sono quelle della foto di destra, e il punto in cui la giunzione è ancora intatta lo abbiamo indicato con una freccia. In entrambi i casi, si noti come risulti molto difficile distinguere il punto di giunzione dalla roccia viva (successivamente mostreremo altre immagini, in grado di corroborare ulteriormente la fondatezza di questo paragone)
Dunque ad Alatri il difetto esterno– ove sia riscontrabile – non sembra la conseguenza di una cattiva qualità costruttiva, ma invece dell’esposizione secolare a processi erosivi di vario genere. Questi processi, ovviamente, hanno agito in modo più cospicuo proprio in prossimità della parte esterna delle giunture, che sono il punto debole di questa per quanto robustissima struttura, che è stata realizzata con un calcare che pare di buona qualità.
5. Le mura di Alatri dunque, analizzate col “vecchio” metodo dell’attribuzione stilistica, appaiono delle opere di influenza micenea, da situarsi in un’epoca che dovrebbe stare all’incirca fra il 1200 e l’800 a.C. Ma, a dispetto di quella che pare un’indiscutibile evidenza, si è formata una consolidata tradizione ermeneutica – che è diventata col tempo uno dei tanti dogmi minori di cui è costellata la moderna teologia archeologico-evoluzionista – che considera la Cinta di Alatri come un’opera costruita dai Romani. Di conseguenza abbiamo datazioni che la collocano al primo o al secondo secolo avanti Cristo. Non stupisce affatto che tale tradizione non si sia formata a partire dall’osservazione e dal confronto degli stili e delle tecniche costruttive nel bacino mediterraneo, ma invece sull’interpretazione di alcuni scritti di epoca romana, che da molte parti vengono giudicati piuttosto oscuri e di interpretazione dubbia.
Naturalmente, nessuno vuol mettere alla berlina gli scrittori e gli scritti antichi né chi li studia e li interpreta. Men che meno si vuol negare l’aiuto che possono offrirci quanto alla ricostruzione di eventi accaduti in epoche passate. Quel che ci preme sottolineare è invece una delicata questione di metodo quanto all’impiego di tali fonti nella datazione su un monumento come quello di Alatri. Una questione che assomiglia molto a quella che abbiamo affrontato all’inizio, quanto all’utilizzo del cartiglio di Cheope per l’attribuzione e la datazione della Grande Piramide.
Supponiamo che nei dintorni di Alatri si trovasse un autore romano che in uno scritto perfettamente conservato affermasse in modo tale da non dar luogo a incertezza alcuna che la Cinta è stata costruita, supponiamo, da un esimio patrizio suo parente. Anche in questo caso avremmo non solo e non tanto il diritto, ma anche e soprattutto il dovere di dubitare della veridicità di una tale affermazione. Infatti, pare oramai assodato che i Romani, fin dal V secolo a.C., preferissero metodi costruttivi diversi dalle mura poligonali. Queste costruzioni sembrano invece appartenere a una cultura, a uno stile ed una tecnica che, per quanto ne sappiamo fino ad oggi, non paiono affatto tipiche né dei Romani, né del vasto e variegato mondo pagano che si è formato nel bacino del mediterraneo a partire dalla fine del Medio Evo Ellenico (cioè intorno al 600 a.C., l’epoca della prima versione scritta dell’Iliade e dell’Odissea).
Si ricordi che anche i Greci Classici, proprio come gli Inca, hanno costruito alcuni dei loro monumenti più celebri poggiando o inglobando i colossali resti dell’architettura ciclopica, che noi attribuiamo alla civiltà micenea. Il problema è che tali resti i Greci non li consideravano affatto come noi, cioè come “resti dell’architettura micenea”, perché loro non vedevano la storia come un succedersi di culture e dunque anche di tecniche di costruzione destinati a sorgere e a tramontare lungo una linea evolutiva unica e irreversibile. Men che meno si immaginavano che pochi secoli prima delle Guerre Persiane fosse esistita sulla loro terra qualcosa come una “cultura micenea”.
Al contrario – come ben si può constatare anche dalla lettura di Erodoto – i Greci Classici ritenevano che a quel tempo il mondo fosse popolato da degli esseri divini, i Giganti di Tracia. Quindi risulta logico che Pausania, un autore del II secolo a.C., riferendosi alla Cinta di Tiro, scrivesse con il tono di chi sta parlando di un fatto del tutto ovvio e assodato che
“Il muro, e tutto ciò che resta delle rovine della città, è opera dei Ciclopi: è costruito con pietre così grandi che un giogo di muli sarebbe incapace di smuovere anche la più piccola di esse”.
Il contenuto e il tono di queste frasi ricordano immediatamente le riflessioni di Garcilaso De Vega e, soprattutto, il modo con cui gli Inca risposero alle domande dei conquistadores quanto alle mura di Sacsaywaman. E da questo possiamo senz’altro dedurre uno dei motivi per cui tanto nel Sudamerica precolombiano quanto nella Grecia classica si è deciso di costruire sui resti degli inspiegabili colossi. In ragione della divinità o semidivinità attribuita ai loro costruttori, i resti ciclopici e i luoghi in cui si trovavano erano considerati sacri, cioè prossimi agli dèi. D’altra parte, si nota che – a parte quella di Alatri – molte importanti strutture sacre del Lazio sono state costruite sui resti di queste mura. Basti solo pensare alla celeberrima abbazia di Cassino, che vi poggia parte delle sue fondamenta, proprio come un tempo faceva il tempio romano, che l’abbazia ha sostituito.
6. In effetti, chiunque confronti i resti di mura micenee risalenti al 1200-1400 a. C. con gli edifici che vi si sono in vario modo poggiati in momenti successivi, si rende subito conto di come fra queste strutture vi sia una discontinuità stilistica che pare radicale. È un po’ quel che accade nel presente quando si accostano dei mobili d’epoca restaurati a dei mobili moderni in formica o in metallo lucidato. L’effetto estetico può anche essere molto convincente, e a suo modo armonico: ma si tratta di un’armonia che risulta da un contrasto. Questo è anche il caso delle mura poligonali che si possono ammirare a Delfi che, notiamo di passaggio, assomigliano in modo evidentissimo a quelle della Cinta di Alatri.
Invece, le costruzioni tipiche della cultura che si è sviluppata in Grecia a partire dal sesto-settimo secolo avanti Cristo, non assomigliano neppure alla lontana a quei resti su cui pure sono stati poggiati, come possiamo chiaramente constatare nella foto sotto. La regolarità e la perfetta simmetria dei colonnati, degli architravi, dei muri e delle scalinate della Grecia Classica fanno davvero ai cozzi con la radicale disomogeneità dei singoli componenti delle mura ciclopiche, dove non si trova un solo pezzo uguale all’altro, e dove pietre enormi sono incastrate con pietre relativamente piccole
Naturalmente, nessuno si sogna di negare che una tale incorporazione sia avvenuta in modo men che egregio, e che abbia dato luogo a un risultato estetico nulla di meno che straordinario. Al contrario, un’immagine come quella sopra ci dimostra come i Greci Classici seppero costruire i loro edifici sacri in modo tale da risultare armonici tanto con il paesaggio che con le rovine che utilizzarono come fondamenta. Ma, comunque sia, nemmeno si può fare a meno di notare una chiarissima discontinuità stilistica, che ci suggerisce che la visione del mondo di chi ha immaginato quelle diverse strutture fosse profondamente diversa. Il simbolo architettonico non appare esprimere un medesimo sentimento della vita o, come si dice a volte con un termine più strettamente filosofico: una medesima Weltanschauung.
Perciò, anche se uno storico greco avesse attribuito i resti di Tiro al genio di un architetto del suo tempo (e magari avesse “illuministicamente” deriso chi li attribuiva ai Ciclopi della Tracia), proprio per questo motivo uno storico attuale – trovandosi fin troppo a proprio agio in tanta modernità – avrebbe il dovere di dubitare della notizia. Infatti, i differenti stili della costruzione che fa da fondamento e di quella che vi è appoggiata mostrano una stratificazione e dunque per forza di cose anche una lontananza culturale. Differenti idee quanto allo spazio sacro corrispondono inevitabilmente a idee differenti della vita, che nei differenti stili architettonici e artistici trovano un’espressione altrettanto profonda e decisiva che nell’etica e nei dogmi religiosi o nei sistemi metafisici.
Lo stesso ragionamento vale anche per il caso che stiamo trattando. Anche supponendo che il passo di Vitruvio e la lapide dell’Acropoli del Ferentino – che sono i documenti scritti su cui si basa sostanzialmente l’attribuzione ai Romani della Cinta di Alatri – fossero stati interpretati in modo assolutamente corretto, ugualmente noi avremmo il dovere di dubitare della loro veridicità. Questo perché nessuna fonte storica o d’altro genere può essere giudicata attendibile indipendentemente dal suo contenuto. E non è chi non veda come l’attribuzione delle Mura di Alatri agli architetti Romani entra in palmare conflitto con quel che complessivamente conosciamo e possiamo ancora osservare riguardo alla storia e all’evoluzione dell’architettura Pagano Classica in generale e Romana in particolare (fra l’altro, i Romani erano particolarmente attenti alla tecnica ove essa potesse essere utile per la guerra: non si capisce come mai, essendo in grado di costruire fortificazioni tanto poderose in un tempo relativamente breve, non abbiano applicato questa tecnica in altri luoghi che in Alatri).
7. Un’altra attribuzione tradizionale della Cinta di Alatri (anche se in questo momento non particolarmente in voga) è quella che la vuole eretta dai Pelasgi, un popolo la cui esistenza non appare dal punto di vista storico molto più fondata che quella dei Giganti della Tracia. Ai Pelasgoi si riferiscono antichi scrittori Greci, come Ecateo, Erodoto, Tucidide, e pare fosse già nota allo stesso Omero. Per quel che si può capire, con questo nome ci si riferisce in modo generico agli abitanti della Grecia nell’epoca micenea, e vengono considerati dunque come greci autoctoni. Storici più moderni invece collocano le loro origini in Anatolia, intorno al XII secolo a.C. I Pelasgi vengono descritti come genti di cultura genericamente Ittita, che si sarebbe poi spinta verso ovest, giungendo infine anche ad Alatri. Quest’attribuzione, per quanto storicamente quasi del tutto priva di fondamento, pare a dispetto di ciò senz’altro più ragionevole di quella che attribuisce la Cinta Muraria ai Romani. Se non altro, consente di rendersi in qualche modo ragione della parentela fra lo stile e la tecnica che sono stati utilizzati ad Alatri e in altri siti del Centro Italia, e quelli della Grecia Micenea.
Secondo la versione più comune i Pelasgi, spostandosi dall’Anatolia verso ovest, avrebbero potuto in questo modo venire in contatto con la cultura micenea, e assorbirne tanto lo stile architettonico che lo spirito religioso. Anche se si potrebbe pensare che, al contrario, siano stati i Pelasgi a influenzare gli antichi popoli della Grecia preclassica, o che le differenti culture siano uscite entrambe profondamente cambiate dal reciproco contatto.
Ma, naturalmente, con argomentazioni di questo genere siamo ancora nell’ambito del puro gioco delle ipotesi. E quanto poco ci chiarisca le idee un gioco di questo genere lo possiamo scoprire provando a fare un breve esperimento mentale. Supponiamo di chiamare questo popolo, invece che “i Pelasgi”, “il popolo X”. Inoltre, supponiamo di dover definire “X” in altro modo che con la pura e semplice attribuzione di un nome[1]. Privi di questo fin troppo comodo strumento di definizione ci rendiamo conto che di questa gente non conosciamo le istituzioni politico-religiose, né i loro usi e costumi, né le loro conoscenze pratiche o tecnico-scientifiche. Inoltre, ci rendiamo conto di non saper nulla nemmeno quanto al luogo effettivo di provenienza di questi conquistatori o colonizzatori che fossero. Davvero venivano dall’Anatolia, o la loro migrazione è iniziata ancora più a est? E cosa sappiamo delle influenze che possono aver ricevuto, oltre che dato, nel corso della loro (lenta?) migrazione dall’Anatolia verso il centro Italia?
[1] In effetti, fagocitati dall’idea molto occidentale che conoscere una cosa significa conoscerne il nome, alcuni esploratori europei hanno scambiato per nomi delle espressioni indigene che non lo erano affatto. Per esempio, quando uno spagnolo chiese alla guida quale fosse il nome della splendida valle che si apriva innanzi ai suoi occhi, la guida gli rispose “Yucatan”: una frase che nel suo linguaggio voleva dire “non ha nome”. Oppure, quando un inglese chiese all’aborigeno australiano come si chiamasse quello stranissimo animale con una coda enorme, che sembrava potersi muovere solo saltando, l’aborigeno gli rispose “kan-ga-roo”, una frase che si può tradurre più o meno con “non lo so”.
PARTE QUARTA: due scoperte archeologiche che rendono possibile ipotizzare la derivazione della Cinta di Alatri dalla cultura Antico Egizia
1. Questa situazione di totale oscurità quanto alle origini della Cinta di Alatri ha di recente trovato una possibilità di progresso, in prima istanza per quanto riguarda la tecnica usata nella lavorazione della pietra. Come abbiamo già visto sopra, osservando gli incastri nei punti in cui sono ancora intatti a malapena si riesce a intravedere un filo sottile che separa le pietre poligonali (che arrivano ad avere fino a quindici lati, anche se per solito sono “solo” 8-10). A dispetto di questo, si può notare come la linea di giunzione sia quasi sempre piuttosto discontinua e in alcuni punti quasi incredibilmente tormentata, come si può ben vedere nelle foto sottostanti (ma potremmo mostrarne molte altre). In particolare, la giuntura della foto a destra è talmente sottile che, a dispetto dell’uso della lente x10, abbiamo dovuto sottolinearne il contorno con una linea rossa, perché altrimenti non risulterebbe distinguibile
Un profilo di giunzione tanto frastagliato rende assolutamente impossibile ipotizzare che per elaborare l’incastro siano state utilizzate delle macchine utensili simili alla fresa e alla rettifica, macchine che oggi si usano rispettivamente per lavori di alta e altissima precisione (su materiali che però sono quasi sempre metalli) per ottenere superfici piane o cilindriche accoppiate con un grado di precisione simile a quello riscontrabile ad Alatri (che sembra aggirarsi attorno al centesimo-millesimo di millimetro, anche se in dei punti appare – incredibilmente – ancora più basso).
2. Eppure, come si vede abbastanza bene dalle foto, anche seguendo delle linee così complicate la precisione dell’accoppiamento resta la stessa che si riscontra dove appare più regolare. Oltre a questo possiamo osservare molti punti della cinta in cui, con ogni evidenza, la pietra superiore “sconfina” in quella inferiore. Come se in qualche modo misterioso si fosse imparentata con essa. Mostriamo alcuni esempi nelle foto sottostanti, ma il lettore curioso può andare su You Tube e vedere i video di Gabriele Venturi su Alatri, e in questo modo ne scoprirà molti altri (e altri ancora ne potrebbe scoprire andando in visita ad Alatri e dando un’occhiata di persona: una cosa molto utile fra l’altro, perché mai come in questi casi vale il detto “vedere per credere”)
È difficile con la foto restituire il lavoro di osservazione fatto in loco, ma, comunque sia, anche così si può vedere chiaramente che nei punti indicati dalle frecce non si nota alcuna linea di giunzione fra la pietra superiore e quella inferiore. Questo e molti altri punti delle mura inclinano dunque a un’ipotesi che a partire dalla nostra chimica risulta almeno per il momento del tutto impensabile: che le pietre di Alatri siano state formate e collocate allo stato pastoso (oppure allo stato liquido). La pasta delle pietre superiori, nel mentre veniva modellata sulla forma di quelle inferiori, trovandosi in uno stato chimicamente attivo dovrebbe essere riuscita a sciogliere la pietra inferiore, forse ancora non perfettamente solidificata, e a imparentarsi con essa.
Questa può sembrare sul momento una scoperta inaspettata o addirittura sconvolgente. In ultima analisi risulta invece una conferma empirica di un’ipotesi che quasi di necessità doveva sorgere dall’osservazione della conformazione dei poligoni e dalla precisione degli accoppiamenti. A ben vedere non c’era e non c’è nessun’altra spiegazione possibile degli incastri che si trovano ad Alatri se non una chimica prima della chimica: una chimica che raggiunse risultati che per la nostra sono al momento del tutto inimmaginabili. Altre ipotesi risultano al momento per vari motivi inattendibili, comprese quelle che partono dalla tecnica di modellazione più avanzata. Supponiamo infatti che i nostri ingegneri, invece che con la pietra, avessero a che fare con materiali per noi facilmente lavorabili. Anche così, non disporrebbero di macchine in grado di accoppiare superfici irregolari o addirittura frastagliate in modo da farle combaciare perfettamente su una superficie che, lo ricordiamo, in alcuni casi risulta di diversi metri quadri. Quanto alla lavorazione a mano, nemmeno il maestro dei maestri scalpellini in cento anni di lavoro potrebbe produrre un solo accoppiamento a “M” come quelli che abbiamo visto nelle foto sopra.
Osservando le foto, qualcuno ha reagito dicendo che le pietre, dopo secoli e secoli di contatto reciproco, si siano fra loro come “naturalmente” imparentate. Questa è una reazione tanto istintiva quanto infondata. Non potendo accettare qualcosa di scientificamente impossibile, l’intelletto umano devia istintivamente verso le “spiegazioni” tipiche del pensiero magico. In questo caso, si tende a credere che due cose diventino la stessa cosa ove siano poste in intimo contatto. Questa “spiegazione” appare tanto ingenua e irrealistica quanto spontanea e inevitabile. Dunque sarà bene ricordare che a partire dalla nostra scienza della natura non possiamo ipotizzare che due porzioni di materiale chimicamente inerte – come due pietre di calcare a temperatura ambiente – possano imparentarsi stando incastrate l’una con l’altra. Al contrario, il tempo produce inesorabilmente l’effetto di corrodere la pietra proprio a partire dalle giunzioni, che per quanto ben fatte sono ovviamente i punti più vulnerabili delle mura, come di fatto si riscontra anche ad Alatri.
3. Espandendo le indagini archeologiche dalle mura di Alatri ad altri reperti simili, che si possono trovare nei dintorni, è stata fatta un’altra scoperta, che può darci indicazioni su un secondo tipo di tecnica che venne usata per la costruzione delle mura poligonali. È stata infatti ritrovata ad Arpino, a una cinquantina di chilometri da Alatri, fra i resti ancora in buone condizioni di una porzione di mura recentemente crollata, una pietra che reca quelli che sembrano senz’altro i segni di una sega megalitica. La possiamo vedere nella foto sottostante
Queste tracce, che nella foto vengono mostrate solo nel punto in cui sono più nette e profonde, percorrono in realtà tutta la lunghezza della pietra. In pratica, non c’è quasi alcun dubbio che siano state prodotte da uno strumento da taglio. Un geologo, che si è recato sul posto per dare un parere scientifico, ha accennato alla possibilità che le incisioni possano esser state prodotte da processi erosivi naturali. Ma c’è da pensare che in questo caso l’allusione a fattori di questo genere rappresenti più un’elementare cautela professionale che altro. Infatti, anche a un primo sguardo si nota che
1) Gli intagli riguardano solo la parte centrale della pietra, in un punto in cui si nota una certa convessità.
2) Questa era una delle facce interne del poligono, molto probabilmente quella orizzontale inferiore. Stante questo, dobbiamo pensare che almeno fino al momento del crollo sia stata protetta dagli agenti esterni dall’intimo contatto con la faccia della pietra con cui era incastrata .
3) Il crollo del muro e l’esposizione totale ad agenti naturali appare troppo recente perché si possano esser prodotte incisioni tanto nette profonde secondo un’inclinazione tanto rigorosamente parallela.
4) Dobbiamo considerare che la pietra dopo il crollo del muro ha assunto una posizione obliqua che, in caso di scorrimento abbondante di acqua, l’avrebbe spinta a percorrere direzioni diverse da quelle in cui di fatto è stata incisa.
5) Non si capisce quale genere di erosione naturale possa aver prodotto un intaglio come quello che siamo in grado di mostrare nell’ingrandimento qui sotto
Né l’acqua, né il vento, né la polvere lasciano incavi con angoli vivi come quello indicato dalla freccia nella foto. Al contrario, queste forme di erosione tendono ad arrotondare gli angoli che trovano. Producono invece angoli vivi eventuali frantumazioni causate dal gelo o da sbalzi di umidità e di temperatura o del grado di salinità della roccia. Ma c’è da notare che questo genere di agenti erosivi non hanno di solito degli effetti così regolari come quelli che vediamo nella foto. A ben vedere, sarebbe davvero strano che un qualsiasi agente erosivo fosse stato in grado di produrre dei tratti rettilinei, paralleli e per di più situati a una distanza quasi perfettamente omogenea, per una lunghezza che è più o meno pari a quella dell’intera faccia della pietra.
4. Al contrario, escludendo l’accumularsi di coincidenze e casualità tanto improbabili e immaginando una sega megalitica al lavoro, allora diventa possibile capire quel che può essere successo. Una lama rettilinea, probabilmente piuttosto sottile, è stata manovrata avanti e indietro seguendo la direzione del lato più lungo del blocco mentre veniva al contempo spinta verso il basso, lungo la verticale del lato più corto. A un certo momento la lama dovrebbe aver intersecato un punto in cui si è trovata da una parte una sezione di roccia più morbida (formata dal calcare dell’amalgama), e dall’altra la costola di alcuni ciottoli. Per questo la lama – seguendo il percorso più favorevole – si è leggermente piegata, di modo che il taglio non è risultato più perfettamente rettilineo. La curvatura che ne è risultata appare piuttosto lieve, ma abbastanza accentuata da lasciare nella zona centrale quell’incavo dentellato che possiamo vedere nella foto.
Gli artigiani, una volta finito di preparare la pietra per l’incastro, si sono probabilmente resi conto che non era possibile recuperare il difetto causato dall’operazione di taglio senza con ciò alterarne la forma, fino al punto di renderne impossibile la perfetta collimazione con i blocchi vicini. Un’ulteriore riduzione della sua altezza poteva forse pregiudicare la giustezza di tutti gli altri lati. Si sono perciò trovati di fronte a tre possibilità
1) Rielaborare i blocchi con cui quello difettoso doveva andare a incastrare, in modo tale che il difetto potesse essere eliminato senza pregiudicare la precisione dell’incastro.
2) Scartare il blocco difettoso e prepararne un altro.
3) Accettare la presenza del difetto perché del tutto trascurabile o comunque accettabile ai fini della qualità generale del muro.
Osservando la foto, sembra evidente che i costruttori abbiano optato per la terza possibilità, perché devono aver giudicato che quel difetto – oltre a non alterare in alcun modo la resistenza del muro alle forze statiche o alle sollecitazioni sismiche – neppure poteva renderlo permeabile più di tanto a infiltrazioni d’acqua, dato che nelle zone vicine al perimetro esterno il blocco combaciava perfettamente con il vicino. Questo bastava a proteggere le superfici interne del muro dall’azione di agenti esterni.
5. Che quelle che possiamo riscontare sulla pietra di Arpino siano le tracce di una sega megalitica lo possiamo ulteriormente argomentare confrontandole con quelle che si possono vedere nei dintorni di Giza, o nelle cave di Assuan, o in tutti quei luoghi ove gli antichi artigiani Antico Egizi hanno lasciato tracce visibili del modo in cui lavoravano la pietra. La lastra della foto qui sotto, che si trova fra i resti del pavimento di basalto della Grande Piramide, mostra dei segni di usura che sono universalmente interpretati come traccia dell’operazione con cui è stata tagliata. E non vi è dubbio alcuno che presentino una somiglianza del tutto caratteristica con quelli individuati sulla pietra rinvenuta ad Arpino. Una somiglianza che si spinge financo al ritmo con cui la sega penetra nella pietra, cioè più o meno due millimetri per ogni “colpo”.
Che i segni sulla pietra Antico Egizia paiano più netti che in quella di Arpino potrebbe dipendere dal fatto che questa pietra, per quanto esposta da almeno un migliaio di anni senza alcuna difesa al lavorio degli elementi, ha dalla sua una durezza e compattezza molto maggiori del calcare. Dunque, parimenti maggiore è la resistenza che offre all’erosione. Né possiamo dimenticare che il clima egizio ha sbalzi di temperatura e di umidità incomparabilmente meno dannosi di quelli che si possono riscontrare nel Lazio. Oltre a questo, dobbiamo ricordare che il pavimento di basalto di Giza, nei punti di sconnessione o nelle spaccature create da terremoti, o nelle lacune lasciate dai saccheggiatori, è rimasto quasi sempre sepolto dalla sabbia del deserto. E un accumulo di sabbia risulta un buon manto di protezione, dato che impedisce a quella trasportata dal vento di lavorare a mo’ di carta smeriglio la superficie della pietra, oltre a ripararla dagli sbalzi di temperatura, anche se pare che i suoi effetti benefici vengano a cessare ove si trovi troppo spesso inzuppata d’acqua.
6. Quel che invece risulta sorprendentemente simile è la rapidità con cui in entrambi i casi le due seghe megalitiche penetravano la pietra. Come oramai molti grandi specialisti della materia hanno notato, gli Antichi Egizi sembravano capaci, per quanto ciò possa sembrarci incredibile, di tagliare una roccia consistente come il basalto a un ritmo di circa due millimetri per ogni colpo di sega.
Andando giù di frazioni infinitesimali di millimetro, come accade se si prova a tagliare una pietra dura con lame di rame coadiuvate da polvere smeriglio, le tracce della lavorazione risultano completamente diverse. E questo si può dimostrare non attraverso speculazioni, ma mediante esperimenti in laboratorio, ripetibili e controllabili. Sono quelli con cui Christopher Dunn ha dimostrato inequivocabilmente che l’operazione di taglio o di carotaggio effettuata con rame e smeriglio lascia segni del tutto dissimili da quelli di Giza e dunque anche da quelli di Arpino.
È vero che nei due casi la qualità della pietra è radicalmente diversa. Non bisogna dimenticare però che nel calcare piuttosto friabile della pietra di Arpino sono inglobati una gran quantità di ciottoli di materiale che appare senz’altro molto più duro. E questa discontinuità strutturale rende le operazioni di taglio, almeno da certi punti di vista, piuttosto difficili perché, come abbiamo visto, è facile che la sega tenda a flettersi e a deviare.
7. Mettendo accanto le due pietre in questione, l’affinità della tecnica e dei risultati ottenuti ci risulta ancora più innegabile.
Quanto al basalto di Giza, non c’è quasi dubbio che in nessun modo, nemmeno con i mezzi più performanti attualmente a disposizione, sapremmo ripetere la prestazione. Potremmo invece sperare che su una pietra di qualità piuttosto inferiore, come l’arenaria di Arpino, sarebbe possibile di almeno tentare l’impresa. Ma non ci si illuda che si tratti di qualcosa di ovvio, o addirittura di facile. Il conglomerato dei ciottoli che possiamo vedere nella foto sopra è tenuto insieme da un deposito che non pare particolarmente resistente. Ma la lama incontrerebbe via via dei materiali che appaiono di durezza ben maggiore, e che in certi casi potrebbero raggiungere una durezza paragonabile a quella del basalto, o addirittura a quella del granito. E, a questo punto, la difficoltà di affondare la lama nella pietra aumenterebbe in modo esponenziale, in specie pensando che si tratta di lavorare con una lama che avanza di due millimetri al colpo per tutta la lunghezza della pietra, che è approssimativamente di un metro. Così facendo, in alcuni momenti si dovrebbe affondare attraverso molti di questi ciottoli contemporaneamente.
Osservando bene la foto si nota immediatamente che sopra le tracce della lama, che sono state lasciate in un tratto esclusivamente calcareo, vi è un gruppo di tre pietre, presumibilmente molto più dure del deposito che le ha inglobate. Questi sassi occupano una lunghezza di circa dieci centimetri, ma altri se ne trovano lungo la superficie del blocco. E pare proprio impossibile che su un materiale di quel tipo una lama di rame coadiuvata da smeriglio possa andare avanti a quel ritmo che si può riscontrare nella foto.
PARTE QUINTA: la possibile connessione fra le tecniche usate nell’Antico Egitto e quelle della zona di Alatri
1. Dunque, la tecnica di taglio di Arpino, a giudicare dai segni che ha lasciato sulla pietra, dovrebbe essere imparentata con quella di cui ancora oggi possiamo trovare tracce di vario tipo in molti siti archeologici egiziani. E questo potrebbe essere un segno molto importante di un contatto, per quanto complesso e in vario modo mediato, fra la cultura Antico Egizia e quella della zona di Alatri. Questa ipotesi viene rafforzata in modo che pare decisivo dal fatto che anche nel calcare della Grande Piramide sono state ritrovate prove di una lavorazione avvenuta allo stato liquido o pastoso, anche se forse meno cogenti di quelle che sono state rinvenute ad Alatri.
Negli anni settanta del secolo scorso il fisico Klein, assieme a un’equipe di collaboratori, studiò 25 campioni del calcare della Grande Piramide. Il risultato dei suoi studi venne reso pubblico nel 1979, al secondo congresso di egittologia di Grenoble. L’analisi dei campioni indicava chiaramente che le pietre avevano una diversa consistenza: come se ognuna provenisse da una cava diversa. Questo era un fatto molto problematico da accettare per almeno due motivi. In primo luogo, perché pare irrazionale complicare l’organizzazione del trasporto usando addirittura 25 (!?) cave diverse, di cui alcune magari molto lontane da Giza. In secondo luogo, perché metteva in crisi l’idea, oggi comune, che sostiene che il calcare usato per la costruzione della Grande Piramide provenisse per lo più dalla cava di Tura.
A questo rilievo Klein ne aggiunse un altro, ancora più sconcertante. La disomogeneità del calcare non riguardava solo pietre diverse, ma si poteva rilevare anche all’interno della stessa pietra. Infatti, i campioni analizzati mostravano sistematicamente una maggior densità da un lato piuttosto che da quello opposto. E questa caratteristica risultava confermata anche dall’osservazione di quelle pietre interne alla struttura che sono rimaste esposte all’azione erosiva di vento e sabbia, dopo che da qualche secolo la Grande Piramide è stata privata del suo manto di copertura di calcare finissimo. Queste pietre mostrano di aver subito danni molto maggiori in certe parti piuttosto che su altre. Un segno certo di una disomogeneità strutturale questo, che però non sembra spiegabile a partire dalla qualità della pietra così come la si può riscontrare nelle cave.
Come ben si vede nella prima foto sotto a sinistra, la parte superiore della pietra indicata dalla freccia è rimasta praticamente indenne, mentre la parte inferiore è stata corrosa per una profondità che pare addirittura di circa mezzo metro (o più). E l’analisi delle pietre che si possono vedere nelle altre immagini da luogo a osservazioni del tutto simili, anche se il fenomeno si presenta in misura meno cospicua. Eppure il calcare della cava di Tura non risulta particolarmente disomogeneo. Al contrario, sembra all’apparenza di qualità piuttosto buona: dunque non dovrebbe dar luogo a discontinuità erosive tanto marcate.
I risultati di Klein furono successivamente confermati dalle ricerche di Davidovits, chimico dell’Istituto Geopolimerico di Parigi e professore di scienza archeologica applicata negli Stati Uniti. Sulla base di ricerche compiute nel 1974 da tecnici dell’Università di Stanford scoprì che il calcare della Grande Piramide conteneva una quantità di acqua enormemente superiore al normale e che quest’acqua era distribuita in modo disomogeneo. Da una parte risultava molto maggiore rispetto a quella opposta, proprio come la densità della pietra rilevata da Klein. Inoltre, analizzando campioni della pietra, Davidovits trovò resti di capelli e unghie umane. L’unica spiegazione possibile di un fatto come questo gli sembrò quella che vi fossero cadute mentre la pietra veniva lavorata allo stato liquido, oppure pastoso, restandovi così incorporate. Qui sotto possiamo osservare un’immagine in cui quello che Davidovits giudicò un capello umano sembra effettivamente esser stato incluso nella pietra
Ma anche prima che prove empiriche arrivassero a dimostrarlo in un modo che pare davvero difficilmente questionabile, a suggerirci che in Egitto e in Sudamerica – oltre che nella zona del mediterraneo – la pietra potesse essere stata lavorata allo stato liquido e /o pastoso sono proprio gli enormi problemi tecnici e logistici con cui in caso contrario ci si dovrebbe scontrare per costruire dei sistemi murari ciclopici. Particolarmente grave, per non dire assolutamente insuperabile, sembra la difficoltà che insorge al momento di costruire poligoni con un gran numero di lati, sommata a quella di profili di accoppiamento frastagliati e tolleranze ridottissime. Già con un centimetro di tolleranza costruire mura come quelle di Alatri sarebbe difficile. Costruirle con un grado di tolleranza inferiore al centesimo o al millesimo di millimetro è un’impresa semplicemente inimmaginabile. Se analizziamo i problemi tecnici connessi con un minimo di attenzione ai dettagli possiamo farci un’idea della loro quasi surreale enormità.
2. Se ci soffermiamo su Alatri, oggetto delle nostre indagini sul campo, troviamo che la Cinta Muraria nel suo complesso misura, come si è detto, circa quattro chilometri. Adottando numeri piuttosto prudenti possiamo immaginare che per ogni chilometro siano state usate circa seimila pietre per un totale di 24000. Considerando per ogni pietra una media di 8 lati e un perimetro medio di circa tre metri avremmo che per 4 chilometri di lunghezza totale della Cinta sarebbero stati realizzati circa 70 chilometri di giunti per un totale di circa 200000 lati. Considerando che ogni giunto sia profondo mediamente un metro avremmo che le superfici accoppiate (lo ricordiamo: con una tolleranza dell’ordine del millesimo di millimetro o inferiore) sarebbero pari a 70000 metri quadri. Un’impresa di questo genere sembra davvero nulla di meno che un miracolo. Chi si intende anche minimamente di meccanica di alta precisione capisce molto bene perché lavori del genere siano stati attribuiti agli déi, ai Giganti di Tracia o al demonio. Eppure l’archeologia ufficiale sostiene tranquillamente che tutto questo smisurato lavoro di incastro sarebbe stato portato avanti sollevando e abbassando i blocchi l’uno sull’altro, adattando lentamente le superfici fino a farle combaciare in quel modo perfetto che abbiamo visto sopra. Il tutto utilizzando martelli di pietra e scalpelli di rame o al massimo di bronzo.
Ora, come tutti possiamo facilmente comprendere, alzare e abbassare dei blocchi di qualche tonnellata non è un problema di facilissima soluzione, disponendo solo di tecnologie molto arretrate. Comunque sia, è del tutto chiaro che non si potrebbero alzare e abbassare i blocchi usando le usuali imbracature, tipo quelle di cui vediamo un esempio nella foto sotto
Questo non potrebbe essere fatto perché ovviamente le imbracature impedirebbero il contatto fra le superfici delle pietre, e questo a sua volta impedirebbe il controllo dell’esattezza dell’incastro. Dunque, per poter far funzionare un metodo come questo, avremmo due alternative
1) Scavare dei canali nella pietra in modo che le imbracature non disturbino il contatto fra le superfici.
2) Realizzare la pietra in modo tale che abbia sia nella parte anteriore che in quella posteriore dei perni che si prolungano oltre la lunghezza utile per la costruzione delle mura. Questi perni potrebbero essere usati per fissare le imbracature e poi, una volta terminato il lavoro, potrebbero essere tagliati via, lasciando almeno la parte anteriore liscia e pulita come di fatto si può riscontrare ad Alatri (in alcuni punti si nota invece come nella parte posteriore, cioè quella che dà verso l’interno della Cinta, vi siano delle parti grezze che si allungano verso una specie di punta).
Analizzando le pietre rimaste scoperte non si riscontra la presenza di canali come quelli descritti al punto 1). Dunque, per tenere in piedi la teoria che il lavoro venne compiuto con la pietra da adattare che veniva ripetutamente sollevata e abbassata, non rimane altro che accettare l’ipotesi che abbiamo fatto al punto 2). Cioè che le pietre avessero dei perni che si prolungavano oltre la lunghezza utile, consentendo così di imbracarle senza disturbare il contatto fra le superfici da accoppiare. Possiamo farci un’idea visiva di questo metodo osservando lo schizzo qui sotto.
Ora, almeno per quanto riguarda la Cinta di Alatri, questa ipotesi potrebbe funzionare anche abbastanza bene, dato che le pietre arrivano a un massimo di 30 tonnellate, ma sono di solito di dimensioni e peso molto più ridotti (in media 3 o 4 tonnellate).
Supponiamo dunque che le pietre potessero essere sollevate e abbassate a piacere dell’operatore. Rimane il problema che, per quel che ne sappiamo noi, incastri con tolleranze come quelle che si possono riscontrare lungo la Cinta (cioè un millesimo di millimetro o meno), anche ove le superfici fossero perfettamente piane (e non lo sono) possono essere realizzati solo con macchine ad alta precisione. In aggiunta a ciò gli incastri dovrebbero essere controllati con strumenti di misura a loro volta di alta precisione. Strumenti che, per poter essere prodotti, necessiterebbero ovviamente di macchine di livello ancora più alto di quelle usate per fabbricare gli incastri.
Ma queste, naturalmente, ad esser buoni, sono solo supposizioni. Supposizioni che hanno un valore euristico ridottissimo, per non dire meno che nullo. Abbiamo ben visto che l’irregolarità dei giunti non solo rende impossibile l’uso delle nostre macchine, ad alta o bassa precisione che siano, e nemmeno quello di strumenti di controllo come squadre e comparatori, che funzionano solo ed esclusivamente per controllare superfici piane o circolari (o, comunque sia, regolari). Dunque questi giunti, oltre ad essere elaborati a mano, dovrebbero essere controllati a occhio. E qui sembra sorgere un problema insormontabile, dato che l’occhio umano non è capace di percepire discrepanze dell’ordine del centesimo o del millesimo di millimetro (o anche meno) per di più su superfici di due o tre metri quadri. Eppure questo è quel che si dovrebbe fare per costruire incastri come quelli che si trovano ad Alatri. Nelle immagini sopra abbiamo avuto modo di constatare che perfino con la lente x10 si fa fatica distinguere la linea dell’accoppiamento. È del tutto evidente che senza avere a disposizione una lente più potente di questa, magari coadiuvata da un laser, il lavoro non potrebbe essere neppure immaginato. D’altra parte, questi strumenti servirebbero per controllare il giunto solo nella sua parte esterna. Ma come fare a rendersi conto della sua qualità nella parte interna, profonda a volte anche più di un metro, che risulta in ogni caso del tutto inaccessibile anche a questi pur raffinatissimi sistemi di controllo?
Sul piano pratico, questo significa che anche la realizzazione di uno solo di questi accoppiamenti richiederebbe un’abilità manuale che, seguendo Garcilaso De Vega, non si potrebbe definire nulla di meno che diabolica. Ciò significa a sua volta che, nel nostro tempo e con i nostri mezzi, anche realizzare una decina di metri di queste mura risulterebbe del tutto impossibile, pur essendo disposti a spendere milioni di euro per l’impresa, oltre che, naturalmente, qualche anno o magari qualche decennio di lavoro.
3. Ci rendiamo conto che affermazioni di questo genere possono sembrare un po’ apodittiche al lettore che non abbia esperienze dirette nel campo della meccanica di alta precisione. Al contrario, qualunque ingegnere non meno che qualsiasi architetto – essendo a conoscenza dei problemi connessi con la realizzazione di accoppiamenti con una tolleranza inferiore al centesimo di millimetro su un materiale “arcigno” come la pietra – troverà che il ragionamento che abbiamo finora svolto sia del tutto pleonastico. Fin dal primo momento, quella che possiamo definire “l’impossibilità tecnica” delle mura di Alatri gli sarà saltata all’occhio in modo immediato ed istintivo.
Tanto più immediata e istintiva appare dunque l’impossibilità di mura come quelle di Sacsaywaman o di altre simili che troviamo in Sudamerica, dove alle difficoltà che abbiamo già visto ad Alatri occorre aggiungere
1) Che la pietra utilizzata è il granito, un materiale enormemente più duro del calcare, che risulta terribilmente ostico anche per l’utensileria più avanzata di cui oggi disponiamo.
2) Che il peso di ciascuna pietra appare mediamente superiore di dieci o venti volte a quello dei poligoni di Alatri, con punte che pare possano arrivare alle 400 tonnellate, ma che su mura come quelle di Sacsaywaman difficilmente scende sotto le 10 o 20 tonnellate, con una media che sembra superare largamente le 50.
Per dare un’idea al lettore di quel che significa oggi spostare un peso del genere mostriamo nella fotto sotto una gru adatta a pesi dell’ordine di 200 tonnellate. Si noti l’altezza dell’uomo (indicata dalla freccia) in relazione a quella della macchina e si noti che la gru non si sposta su un terreno accidentato, ma invece su un pavimento accuratamente preparato per questo scopo
Mura come quelle di Alatri o Sacsaywaman sono dunque, almeno dal punto di vista della nostra scienza e della nostra tecnica, degli “oggetti impossibili”. E ancor più impossibili paiono le mura ciclopiche che sembra siano state scoperte in Russia, sul Monte Shoria, dove le foto ci mostrano quelli che sembrano dei megaliti di granito intagliati in modo in molto fine. In alcuni punti, questi giganti di pietra – che in alcuni casi paiono superare le 3000 tonnellate ed arrivare addirittura alle 5000 – sembrano incastrati con la stessa misteriosa tecnica con cui sono stati incastrati quelli Sudamericani. In quest’immagine la precisione dell’incastro appare davvero più o meno la stessa, anche se c’è da dire che, sull’estensione globale del presunto muro, le parti che permangono in buone condizioni non sembrano moltissime
La mostruosa dimensione di queste mura la possiamo notare immediatamente confrontando, nella foto a sinistra, le dimensioni dei blocchi con quelle delle persona (indicata con una freccia rossa). Il tutto pare talmente sproporzionato alle capacità umane che fin da subito si sono avanzati comprensibilissimi dubbi sulle origini di questo incredibile manufatto, che se davvero si dimostrasse una costruzione umana spingerebbe la realtà ben al di là di qualsiasi immaginazione.
In effetti, almeno sul momento, l’ipotesi che queste mura siano il prodotto di un fenomeno naturale non appare particolarmente fondata. Il granito è una delle pietre più consistenti e compatte che si trovino sulla terra. Per solito non mostra crepe o spaccature, e ove le mostri si tratta di crepe frastagliate: per quanto se ne sa, nessuno ha mai visto una parete di granito che va a formare un incastro a “L” tanto perfetto come quelle che vediamo sopra. Persino quando viene spaccato per mezzo di cunei, si nota che la frattura non corre mai perfettamente dritta. È una cosa che possiamo constatare osservando questa pietra che è stata abbandonata dagli Antichi Egizi nelle cave di Assuan
E invece questi incredibili macigni mostrano un andamento perfettamente o quasi perfettamente ortogonale, come possiamo vedere chiaramente nelle foto sotto
Queste mura sembrano dunque effettivamente opera di esseri umani. Ma, siccome la loro scoperta risale a pochissimo tempo fa, la miglior cosa è forse sospendere il giudizio e attendere che approfonditi studi geologici e archeologici diano dei pareri più meditati. Il clima siberiano, caratterizzato da sbalzi di temperatura molto violenti, rende probabilmente possibili dei fenomeni che altrove sono persino inimmaginabili. Ma, anche se opera della natura si trattasse, questa scoperta sarebbe ugualmente preziosa, perché ci conferma che il nostro sapere è limitato, e che il mondo è ancora in grado di sorprenderci con eventi imprevisti. Chissà, forse davvero nel profondo della natura albergano forze di cui la nostra scienza matematizzata ancora non sa nulla.
4. Ma anche escludendo momentaneamente il muro di Shoria dal campo dei monumenti da considerare in questo articolo, resta il fatto che mura ciclopiche come quelle che tutti conosciamo appaiono all’ingegnere o all’architetto del XX secolo come opere impossibili. Però, se parlare di impossibilità tecnica di fronte a un progetto o a un’ipotesi appare plausibile e sensato, non appare invece plausibile e sensato parlarne davanti a degli oggetti finiti: perché sono lì, davanti agli occhi di tutti. Dunque la loro realizzazione è impossibile per noi. Ma, ovviamente, chi le ha costruite doveva avere a disposizione la tecnologia adatta a portare avanti il lavoro con difficoltà non maggiori di quelle che i nostri artigiani, i nostri ingegneri e i nostri architetti incontrano nel costruire un grattacielo.
D’altra parte, è del tutto chiaro che costruire mura come quelle di Alatri offre delle difficoltà di tutt’altro genere rispetto a quelle che si incontrano nel costruire un grattacielo. Dunque gli strumenti a disposizione di queste persone dovevano essere diversi dai nostri. Quindi, data la natura del lavoro e degli indizi che abbiamo ritrovato, risulta logico concludere che – fra le altre cose – i costruttori di Alatri dovessero avere a disposizione un sistema per liquefare e/o per ammorbidire la pietra. In questo modo il lavoro, lungi dal risultare impossibile, potrebbe essere stato perfino piuttosto semplice.
Supponiamo infatti che le decine o centinaia di tonnellate di granito di ognuna delle pietre del Sacsaywaman potessero essere effettivamente ridotte allo stato liquido. Oppure, portate a un livello di pastosità tale da poter essere trasportate a poche decine di chili per volta e amalgamate in loco. A questo punto, fra un poligono di 4, 5, 10 oppure di 100, 200 o 400 tonnellate non vi sarebbe poi così tanta differenza. Se il materiale poteva essere versato in uno stampo – supponiamo – con dei recipienti trasportati a mano il problema era solo quello di avere un po’ di pazienza. Un po’ come sarebbe successo se quella stessa porzione di mura fosse stata realizzata montando un gran numero di pietre più piccole.
Con questo metodo costruttivo potremmo spiegare anche la natura frastagliata eppure assolutamente precisa del profilo degli incastri. Lavorando come lavoriamo noi questo ci sembra un lavoro degno del demonio. Ma lavorando con una pasta risulterebbe banale perfino realizzare quegli incastri a “M” che abbiamo visto all’inizio della parte terza. Né risulterebbe maggiormente impressionante il numero dei lati dei poligoni. Realizzarne con 5, con 8 o con 10 o con 16 lati sarebbe un’impresa parimenti semplice, ognuno può rendersene conto provando a costruire un muro poligonale in miniatura utilizzando un materiale come il Das, come quello che si vede nella foto sotto.
Ebbene, con una tecnica come quella che abbiamo appena descritto, anche questi, che fino ad adesso saremmo portati a giudicare dei capolavori inarrivabili tanto di scultura che di architettura, si trasformerebbero in un’impresa del tutto ordinaria, addirittura più facile che tornire un vaso di terracotta.
5. Per renderci familiare la scena, immaginiamo che questi muri siano stati realizzati con argilla. Prima si realizza un poligono, e poi lo si lascia disseccare al sole. Poi si realizzano quelli accanto, poi quello sopra, e si lasciano a loro volta disseccare, e si va avanti così, fino a terminare il muro.
Può darsi che l’argilla, se molto molle, possa sciogliere quella dei poligoni su cui viene spalmata, specie se non fosse ancora perfettamente asciugata. E questo ci spiegherebbe i punti della Cinta di Alatri che abbiamo visto in questo lavoro (e gli altri che abbiamo pubblicato su YouTube), dove la pietra di elementi diversi appare imparentata. Questo fatto risulterebbe incomprensibile se fosse stata lavorata e montata a secco, come finora si era creduto.
Inoltre, questa ipotesi ci rende ragione in modo soddisfacente anche della facilità – comune tanto all’Antico Egitto che al Sudamerica, come anche ad Arpino – con cui si riuscivano a segare dei materiali come il basalto o il granito rosa, che risultano impervi anche per le nostre macchine e i nostri utensili più evoluti. Se davvero questi popoli erano capaci di ammorbidire la pietra in modo cospicuo, allora anche con seghe di rame prive di qualsiasi rinforzo sarebbe stato possibile penetrarvi al ritmo di due millimetri per ogni colpo. E questo spiegherebbe anche certi segni che si riscontrano ad Assuan, in cui sembra che la pietra sia stata lavorata in modo simile a quello con cui si potrebbe fare con una spatola sull’argilla. Dei segni che sono comuni anche a delle pietre trovate a Puma Punku, un sito archeologico che si trova nei pressi di Tiahuanaco. Un altro indizio questo che rinforza l’ipotesi di un legame fra la cultura Antico Egizia e quella del Sudamerica precolombiano. Li possiamo vedere nelle foto sottostanti (le foto in bianco e nero rappresentano pietre rinvenute nella zona di Tiahuanaco)
Di segni di questo genere non troviamo ovviamente traccia nelle moderne cave di pietra, dato che gli strumenti che usiamo per cavare procedono togliendo schegge di materiale. È ovvio dunque che lascino sulla pietra lavorata i segni di una scheggiatura. Ma in nessuna di queste foto troviamo indizi che il materiale sia stato scheggiato. Così, in caso che noi volessimo ricavare dei solchi di questo genere, non potremmo in nessun modo sperare di ottenerli come tracce di lavorazione casuali, ma invece dovremmo scolpirli appositamente, come si fa ogni volta che si vuole ottenere una forma qualsiasi. Né queste tracce di lavorazione possono essere state lasciate con i martelli di dolerite, che di solito hanno forma sferica o semisferica. Perfino quello rappresentato in foto, che ha una forma un po’ anomala ed è anche un po’ più grosso rispetto alla media, non potrebbe ottenere dei canali come quelli che si possono vedere nelle foto sopra, in particolare nel caso delle pietre sudamericane (a meno che lo scalpellino in questione non sia un mago, cioè un parente stretto del demonio, come avrebbe detto Garcilaso De Vega). Mettiamo accanto due foto perché si possa avere un’idea chiara dell’impresa che bisognerebbe compiere con mezzi tanto poco idonei
L’angolo che si trova al fondo della trincea scavata nel granito rosa di Assuan è tanto acuto che per realizzarlo gli artigiani Antico Egizi dovrebbero essere passati dal martello da sgrosso, di forma sferica o semisferica, ad uno scalpello da finitura (sempre di pietra, perché né il rame né il bronzo, lo ricordiamo, sono in grado di scalfire il granito). Ma con quale scopo? Questo risulta davvero completamente insensato. Considerando che questi segni di lavorazione sono stati trovati anche sul celebre obelisco incompiuto, è impossibile immaginare che siano stati realizzati per ottenere una decorazione, dato che la superficie dell’obelisco, una volta terminata, sarebbe risultata pulita e/o presumibilmente coperta di geroglifici. Dunque questi solchi non possono essere altro che segni casuali di lavorazione, che ci indicano in modo che pare indubitabile che questa pietra sia stata lavorata ad uno stato pastoso.
L’egittologia ufficiale obbietta a queste del tutto ovvie osservazioni che di fatto un gran numero di martelli di dolerite sono stati ritrovati nelle cave di Assuan come in altri luoghi dove gli Antichi Egizi hanno lavorato la pietra. Se si sono utilizzati strumenti d’altro genere, come mai questi strumenti sono stati portati nelle cave?
Una risposta che viene del tutto spontanea è che questi martelli potessero essere parte di un rito, in cui venivano offerti degli strumenti che si consideravano sacri perché antichissimi e parte di una tradizione venerata. Per fare un esempio che renda la cosa comprensibile a una mente moderna, è capitato a quasi tutti di notare che i Carabinieri durante le manifestazioni ufficiali portano la spada: ma questo non significa che di fatto la spada venga mai usata durante il servizio vero e proprio. Essa è il simbolo di una tradizione a cui nel presente si fa riferimento come caposaldo degli ideali etici e civili dell’Arma, non uno strumento che nel presente sia utile per qualcosa.
Il fatto è che la nostra cultura e la nostra scienza sono oramai completamente permeate da un laicismo estremista. Questo ci fa dimenticare in maniera sistematica dei dati storici e archeologici del tutto ovvi: il più ovvio di tutti è che nell’Antico Egitto le costruzioni in pietra avevano uno scopo esclusivamente sacro. Dunque è presumibile che tutto ciò che le riguardava fosse a sua volta considerato sacro. A partire dalla materia prima (la pietra), ai luoghi in cui veniva estratta, per finire con la tecnica con cui veniva estratta e lavorata. Dunque non ci sarebbe per nulla da stupirsi che in una cava come quella di Assuan si fossero celebrati riti in cui avevano parte essenziale degli strumenti tradizionali.
È vero: l’ipotesi che nell’antichità la pietra fosse lavorata allo stato liquido o pastoso – a partire dallo stato attuale della nostra fisica e della nostra chimica – ci appare fantascientifica. D’altra parte, ancora nel 1930 l’energia atomica e le sue possibili applicazioni civili e militari sarebbero apparse fantascientifiche a quasi tutti, forse persino anche a quegli esperti di fisica atomica che erano sul punto di scoprirla. Questo non ha impedito che solo pochi anni dopo l’energia atomica venisse scoperta e che nel 1945 sia stata usata per radere al suolo Hiroshima e Nagasaki.
E di questa forma di energia, così antica ma per noi assolutamente nuova – per non dire del tutto rivoluzionaria – abbiamo trovato una prima prova teorica, e l’abbiamo esposta in The Snefru Code parte 3 e parte 7. Dunque, rimandiamo il lettore che voglia avere un’idea chiara di ciò di cui si tratta a questi due articoli. Qui, molto sinteticamente, possiamo dire che la nostra ipotesi si fonda sulla scoperta che la massa e il raggio classico di protone ed elettrone sono inversamente contrari: il loro rapporto risulta infatti 1/1836.
Potremmo dunque ipotizzare in via euristica che la massa sia inversamente proporzionale allo spazio occupato dalla carica elettrica. Da ciò possiamo dedurre forse che la massa (e dunque il campo gravitazionale espresso dalla massa) non è altro che – per così dire – energia magnetica concentrata.
Dunque, in via ipotetica, se riuscissimo a concentrare l’energia dell’elettrone in un raggio equivalente a quello del protone, potremmo aumentare la sua massa in modo proporzionale. Viceversa, espandendo lo spazio occupato dalla carica elettrica del protone ridurremmo la sua massa (e dunque il suo peso) a un valore simile a quello dell’elettrone, cioè di 1836. In questo modo un macigno come la Pietra della Luna di Baalbek – del peso di circa 1200 tonnellate – arriverebbe a pesare 1200 : 1836 = 0,653 tonnellate. Le 5000 tonnellate del Monte Shoria diventerebbero 5000 : 1836 = 2,72 tonnellate, ovvero un peso trasportabile con relativa facilità.
E proprio questo potrebbe essere il modo con cui nell’antichità si riuscivano a spostare quei blocchi di granito, che a noi appaiono mostruosi e che nel presente non riusciremmo a smuovere nemmeno usando la nostra tecnica più evoluta. Inoltre, è possibile che questa operazione possa creare uno squilibrio chimico-magnetico tale per cui dei materiali durissimi possono essere ridotti a uno stato pastoso. Questo spiegherebbe la straordinaria facilità con cui gente come gli Antichi Egizi riusciva a lavorare pietre come la diorite con la stessa efficacia con cui noi lavoriamo la plastica o l’alluminio.
In questa sede, sembra anche molto importante sottolineare che le basi teoriche di un’impresa come quella di ridurre la pietra allo stato liquido o pastoso siano stati criptati nell’architettura sacra dell’Antico Egitto, perché questo fatto crea i presupposti per stabilire un intimo legame culturale con un tempio come quello di Alatri. Un legame di cui, sul piano geometrico, troviamo gli indizi nelle immagini sottostanti
A dispetto dei concetti fisico-matematici che siamo riusciti a mettere insieme per fondare questa ipotesi, a molti potrà sembrare che, non ostante tutto, ci stiamo muovendo nell’ambito della fantascienza, e non della vera scienza. D’altra parte, attorno al 1950 Ludwig Wittgenstein, in una delle sue opere più celebri, “Della certezza”, portava come esempio di fantasia delirante – perché secondo lui radicalmente in contrasto con le nostre conoscenze scientifiche e con il senso comune – quella di un uomo che credesse di essere stato o di poter arrivare sulla Luna. Neppure venti anni dopo i primi uomini sono sbarcati sulla Luna e dopo cinquanta si pensa a come riuscire a farli arrivare su Marte.
6. Di fronte a opere come quella di Alatri noi ci troviamo ancora in delle condizioni simili a quelle in cui si sarebbe trovato un Leonardo Da Vinci di fronte a un banale ed usuale catino in plastica: un oggetto per noi del tutto ordinario[1], ma che per lui avrebbe dei tratti singolarmente enigmatici. Di certo, ne comprenderebbe in modo generico le possibilità d’uso e gli risulterebbe familiare la forma. Ma rimarrebbe assolutamente perplesso di fronte al tipo di materiale e al metodo con cui lo si possa aver lavorato.
La plastica appare translucida, ma si sarebbe reso subito conto che non è vetro. Al contrario del vetro, una volta che sia stata formata non si può facilmente riciclare per produrre oggetti di forma diversa. Dunque, se Leonardo gli avesse accostato la fiamma l’avrebbe vista bruciare, ma non sarebbe riuscito a scioglierla. Anche nel caso che la plastica fosse stata di quel tipo che scaldandosi un po’ si ammorbidisce, non sarebbe probabilmente riuscito a dargli una forma molto diversa da quella che spontaneamente tende a prendere scaldandosi.
Dunque, c’è da immaginarsi che Leonardo da Vinci, pur con tutto il suo genio, non sarebbe stato capace di capire come è che di fatto si sia potuti arrivare a produrre un catino di plastica. Probabilmente gli sarebbe risultato impossibile anche indovinare la direzione in cui avrebbe dovuto spingere le sue ipotesi per iniziare il cammino che poteva portare un uomo del suo tempo a comprendere di che cosa sia fatto e come sia possibile formare un oggetto del genere. Considerando le sue tendenze intellettuali, forse Leonardo non avrebbe commentato il suo scacco con le parole di Garcilaso De Vega, e non avrebbe fatto ricorso alle arti diaboliche per spiegarsi la strana faccenda. Ma c’è da immaginarsi che sarebbe rimasto davvero molto ma molto perplesso.
Altrettanto perplessi ci troviamo noi di fronte a manufatti che appartengono a un mondo culturale e scientifico che ci risulta – almeno fino a questo momento – quasi completamente estraneo e incomprensibile.
7. Per avere un’idea della distanza, non solo e non tanto tecnica e scientifica, ma anche e soprattutto di quella spirituale che ci separa da popoli come quelli di Alatri, possiamo spostarci in uno dei siti archeologici più sconvolgenti del mondo. Uno di quelli in cui la cosiddetta ragione o il cosiddetto buonsenso subiscono colpi tali che altra difesa non si riesce a trovare, almeno sul momento, che la rimozione, la banalizzazione o, meglio ancora, la perfetta indifferenza.
Il sito di cui stiamo parlando è quello di Nabta Playa, che si dovrebbe collocare senz’altro in quella che possiamo definire la preistoria dell’Antico Egitto, dato che il Carbonio 14 lo “vede” frequentato fra il 5000 e il 7000 a. C. Sul piano strettamente architettonico, tutto quel che si può vedere oggi è un circolo megalitico di dimensioni piuttosto ridotte e un complesso di allineamenti realizzati con pietre che non sembra che abbiamo ricevuto una lavorazione degna di nota (però dobbiamo pensare che hanno subito una corrosione gravissima, e dunque non è facile immaginare quale fosse il loro grado di elaborazione originale). Possiamo osservare quel che ne resta nella foto sottostante
[1] Si noti però che la sua ordinarietà non impedisce il fatto che ben pochi fra i suoi utilizzatori abbiano la sia pur pallida idea di come in effetti venga costruito, di quali tecnologie e di quali scienze e di quale genere di organizzazione industriale ci sia bisogno per produrlo. Se poi passiamo al cellulare, compreso quello in offerta a venti euro, la situazione diventa imperscrutabile per tutti, eccetto forse un pugno di esperti che, c’è da giurarlo, pur avendo le idee abbastanza chiare non sono in grado di ricostruire ogni passaggio del suo funzionamento e della sua produzione. Sono nozioni queste ormai talmente complesse che non riescono più a stare nella testa di un singolo individuo: è il sistema nel suo complesso che le possiede. E il sistema è l’entità al tempo stesso più astratta e concreta che si possa immaginare. Astratta, perché risulta inafferrabile. Concreta perché produce tutto quel di cui abbiamo bisogno senza che nessuno possa comprendere come faccia.Al confronto, un sito come Stonehenge ci appare enormemente più raffinato e “avanzato”, se non altro in ragione del peso enormemente superiore delle pietre utilizzate e della loro disposizione in triliti, che risulta ovviamente molto più difficoltosa dei semplici menhir di Nabta Playa. Eppure questo sito ha delle caratteristiche geometriche che risultano addirittura straordinarie. Quanto alla sua relazione con il numero d’oro, abbiamo già analizzato abbastanza approfonditamente alcune problematiche in The Snefru Code part. 5. Ma successivamente abbiamo scoperto che questa struttura sembra avere anche una relazione con la costante di Eulero “e”, pari a 2,71828…. Infatti, l’angolo formato fra l’asse Nord-Sud e quello del solstizio d’estate risulta essere compreso fra i 69 e i 70°. Ebbene, l’angolo con tangente pari a “e” risulta essere appunto 69°,8024. Inoltre sia in The Snefru Code part. 5 che in The Snefru Code part. 7 avevamo visto le non meno evidenti connessioni fra l’angolo di base della Piramide Rossa e l’inclinazione della base del Circolo di Nabta Playa, la cui somma risulta essere 90°. In questo modo i due angoli risultano reciproci sul quarto di giro, come possiamo vedere nella foto sotto
Ebbene, l’angolo di base del Circolo di Nabta Playa in relazione all’asse Nord-Sud, pari a circa 46°,50 circa, ha una tangente praticamente pari a 1,054571, ovvero al valore di “acca tagliato” (il simbolo è “ħ”, una variante di “h”, la costante di Plank, la cui scoperta è alla base della meccanica quantistica). Il cerchio fra fisica, astronomia e geometria (almeno nella concezione antica) si chiude nel momento in cui scopriamo che questo stesso angolo ha un seno pari a 0,7256. Questo numero moltiplicato per 100 ci da la durata in anni solari di un Giorno Precessionale, e differisce di meno di un millesimo dalla misura dell’ipotenusa di un triangolo rettangolo i cui cateti siano pari a 1/ɸ e 1/ɸ² (ricordiamo di passaggio che a Giza Orione raggiunge una declinazione minima variabile, che però si aggira intorno agli 8°,5: e 8°,523 è l’angolo reciproco sul quarto di giro a quello di 81°,476, la cui tangente è pari alla costante gravitazionale G = 6,67428 (8°,59 è l’angolo reciproco a quello di 81°417, la cui tangente è pari a h = 6,626: dunque l’angolo minimo raggiunto a Giza da Orione potrebbe esprimere una di queste due costante, o forse, almeno sul piano dell’approssimazione numerologica, tutte e due).
Ma, restando a Nabta Playa, ovviamente non mancano le sorprese quando dal piano meramente geometrico passiamo a quello astronomico. Studiando gli allineamenti delle pietre del circolo, si sono riscontrate evidenze che
1) I suoi costruttori avevano delle conoscenze piuttosto raffinate quanto ai moti del cielo diurno e ai punti cardinali, dato che il circolo megalitico è orientato con buona precisione sull’asse Nord-Sud e che ha un allineamento indiscutibile con il solstizio d’estate.
2) Queste conoscenze si estendevano anche al cielo notturno, dato che il circolo megalitico contiene quella che potremmo definire una mappa stellare, che indica le posizioni delle stelle della Cintura e delle Spalle di Orione rispettivamente attorno al 4900 e 18000 a.C. (Cfr. The Snefru Code part. 6) che a Nabta Playa costituiscono rispettivamente l’altezza massima e minima raggiunta da Orione all’orizzonte durante un semiciclo precessionale (Cfr. The Snefru Code part. 5).
8. Quest’ultimo fatto risulta già di per sé del tutto incredibile per l’archeologia ufficiale, dato che attualmente si crede e si insegna che il primo a scoprire il fenomeno della precessione sia stato l’astronomo greco Ipparco nel secondo secolo prima di Cristo. Eppure questo non esaurisce ancora le “meraviglie” astronomiche del sito. Infatti, nella stessa zona dove è situato il circolo sono stati individuati degli allineamenti fra menhir, su distanze di circa un chilometro, in cui per le stesse sei stelle della Cintura e delle Spalle di Orione si individua il momento della levata eliacale all’equinozio di primavera – con date fra di loro distanti anche più di 1500 anni. Possiamo avere un’idea visiva di quel che si tratta osservando le foto qui sotto
Una delle stranezze di questi allineamenti è che sono disposti in un modo che pare disordinato e privo di qualsiasi significato estetico. I menhir collocati nelle varie direzioni davanti a quello che funge da mirino (quello che nelle foto sopra appare in primo piano) sono posti distanze molto diverse, dando sul momento l’impressione di essere stati messi addirittura a casaccio. In effetti, se osserviamo la piantina degli allineamenti (immagine seguente) la prima impressione sembra non poter essere altro che questa
Brophy, autore della scoperta della connessione fra sito megalitico e le stelle della Cintura e delle Spalle di Orione, rimase particolarmente stupito da questa caratteristica, e si interrogò a lungo su quale potesse essere il motivo di questo apparente disordine. Dapprima si domandò se le differenti distanze non potessero essere messe in relazione con il differente grado di luminosità di ciascuna stella. Ma in breve si rese conto che i conti non tornavano, e che dunque il motivo non poteva essere questo. Allora – quasi per gioco – controllò se per caso non potessero avere relazione con le differenti distanze relative che le stelle hanno dalla Terra. E, con profondo stupore, si rese conto che il motivo sembrava essere proprio quello. Considerando il menhir-mirino come simbolo della Terra, si accorse che gli allineamenti indicavano non solo la levata eliacale, ma anche la distanza relativa delle rispettive stelle dalla Terra. Valutando 0,799 metri di lunghezza come un anno luce, l’allineamento che punta a Bellatrix da un risultato pari a 318 x 0,799 = 254 anni luce. Attualmente, noi misuriamo questa distanza in 250 anni luce. Supponendo che la nostra misurazione sia quella esatta, troviamo che gli astronomi Antico Egizi avrebbero commesso un errore inferiore al 2%. Nel caso di Beltegeuse l’errore è inferiore allo 0,25%
Probabilmente non ci sono parole adeguate per esprimere lo stupore che può suscitare il trovare inscritte in pietre allineate 7.500 o forse addirittura 9000 anni fa delle nozioni di questo genere di raffinatezza. Ci basti dire che nell’Occidente moderno si è arrivati a misurare la distanza delle stelle dalla Terra solo di recente, usando strumenti che all’inizio del ventesimo secolo sarebbero stati probabilmente giudicati fantascientifici. Eppure questa gente considerava quelli che per noi non sono altro che casuali ammassi di gas – che bruciano a centinaia di milioni di gradi disperdendosi a velocità inimmaginabile nel vuoto cosmico – delle divinità a cui prestare un culto pieno di timore e tremore.
Naturalmente, noi non sappiamo quale fosse e come suonasse il nome della divinità che si vedeva in Orione al tempo della costruzione di Nabta Playa. Sappiamo però da documenti scritti che circa tre millenni dopo quella stessa costellazione si sarebbe chiamata Osiride, che il Faraone sarebbe stato considerato il suo Figlio Horus, che con la morte si sarebbe trasfigurato nel Padre.
9. Da luogo a riflessioni del tutto notevoli il fatto che l’atteggiamento religioso di queste persone non gli impedisse di conoscere il cosmo con leggi matematico-quantitative simili a quelle che possediamo noi. Questo ci dimostra in modo non più questionabile che la nozione del sacro non ha nulla a che fare con il conoscere o il disconoscere la struttura fisica degli oggetti che vengono considerati simboli divini. Oggi vi sono dei fisici cattolici che, pur conoscendo perfettamente la struttura della materia che costituisce un’ostia la considerano al tempo stesso una trasfigurazione del Corpo di Cristo. Similmente, a Nabta Playa troviamo delle persone che, pur conoscendo perfettamente la struttura del cosmo e la natura delle stelle, non di meno le consideravano il corpo dei loro dèi.
In The Snefru Code part. 4 abbiamo visto che il Circolo di Nabta Playa, a dispetto della sua apparente rozzezza, sembra essere stato codificato in quello stesso diagramma dello spazio-tempo in cui sono state codificate l’arte e l’architettura sacra Antico Egizie del periodo dinastico. Successivamente, in The Snefru Code part. 7, abbiamo visto che gli angoli generati dagli orientamenti tipici di questa struttura sono capaci di individuare punti cruciali di due diagrammi atomici disegnati nel secolo scorso. Conviene rivedere queste immagini, che ci aiuteranno a portare avanti il nostro ragionamento
Forse, osservando queste immagini qualcuno può aver pensato che i sistemi di coincidenze fra questi diagrammi e il Circolo di Nabta Playa possono essere dovuti al caso. Ma come poter continuare a pensare una cosa di questo genere, quando sappiamo che queste persone erano capaci di misurare addirittura la distanza delle stelle dalla Terra?
Al contrario, in The Snefru Code part. 7, seguendo il filo logico dettato dalle coincidenze strutturali fra lo spazio sacro Antico Egizio e i nostri diagrammi atomici e gravitazionali, siamo giunti al punto di ipotizzare che queste persone dovessero essere in possesso di quella teoria dei campi unificati che nell’Occidente moderno stiamo ancora cercando a tentoni. E, in effetti, sovrapponendo il diagramma “aureo” dello spazio-tempo elaborato da Fappalà con quello dell’atomo di idrogeno elaborato da Bohr avevamo visto che questi diagrammi sembravano avere dei punti di contatto strutturali che fino ad adesso nessuno aveva osato immaginare. E, di nuovo, sarà utile rinfrescarci la memoria e rivedere di nuovo queste relazioni geometriche, che potrebbero alludere a ben più importanti relazioni di tipo fisico. A quelle che abbiamo visto in The Snefru Code part. 7 ne aggiungiamo un’altra, riguardante l’atomo del radio, che sembra confermare le ipotesi che avevamo fatto a partire dalle altre
È interessante notare che nel caso dell’atomo del radio (immagine sopra a destra) che spostando il diagramma dello spazio tempo in punti diversi di quello dell’atomo, di nuovo vediamo ricrearsi dei sistemi di intersezioni. Questo sembra un’altra prova che lo spazio aureo con cui Fappalà è riuscito a descrivere lo spazio tempo einsteiniano potrebbe essere in grado di definire anche, diciamo così, quello spazio quantistico in cui si muovono gli elettroni attorno al nucleo. Si noti anche come il diagramma del radio sembri in grado di definire delle caratteristiche geometriche importanti della Piramide Rossa. Proprio come, in The Snefru Code part. 7, avevamo visto che il diagramma dell’atomo di idrogeno era capace di fare con la Grande Piramide
Ora, se davvero queste persone erano in possesso di una teoria fisica tanto avanzata, non dovrebbe stupirci più di tanto se fossero stati in possesso di conoscenze chimiche parimenti avanzate. Conoscenze che gli rendevano possibile e forse persino banale un’impresa che per noi risulta impensabile: la riduzione della pietra allo stato liquido o pastoso a freddo, di cui abbiamo visto tracce indubitabili nelle mura di Alatri.
Qui, naturalmente, non vogliamo sostenere che, in ragione delle tracce di sega megalitica e di lavorazione della pietra allo stato pastoso che si sono trovati ad Alatri e ad Arpino, la cultura di Alatri debba essere immediatamente associata a quella Antico Egizia. In effetti, ad Alatri non abbiamo prove di una scienza astronomica paragonabile a quella che si può trovare sulle rive del Nilo. D’altra parte, neppure si può negare che almeno in qualche punto la parentela sia tanto innegabile quanto la differenza. Come gli Antichi Egizi gli abitanti di Alatri sono senz’altro da annoverarsi fra i cosiddetti “popoli del Sole”. Delle genti che, contrariamente a quanto sostenuto dalla dottrina evoluzionista, erano in possesso di conoscenze scientifiche avanzatissime. Lo testimoniano tracce di una tecnica di lavorazione della pietra di cui gli esseri umani hanno perduto forse da millenni la memoria.
APPENDICE: L’ANGE
Lointain…
Si
lointain…
Lointain
et pourtant
même d’une pièce fermée
pouvoir te regarder dans les yeux
voisin,
absolument intime
et invisible
comme un miroir.
Pouvoir te suivre
le long des rues des taxis
égales
comme un labyrinthe,
dans l’immensités des aéroports
égales
comme un désert,
entre les visages des salles d’atteinte
égaux
come fantômes dans les yeux
ou comme des gouttes de pluie
qui tombent dans l’eau.
Les tableaux des horaires
dans lesquels le temps tous les jours
se défait, irréel,
comme une année entière
dans les notes d’une agenda
ou dans les nombres d’un calendrier.
La première ou la seconde classe,
la bienvenue,
les salutations et,
surtout,
les sourires…
Les sourires :
ça ne rate jamais…
Cette farce se récite partout,
et t’harcèle
et te hante
d’autant plus que les bravos,
ou les ovations :
il n’y a pas un seul rêve
qui ne se réveille pas
dans le tonnerre des acclamations,
des salutations
éclairées par le clignotement
des sourires,
mer en tempête
dont tous les jours on doit faire
l’interminable traversée
qui débarque enfin
dans un matin amère…
Il était dur de l’apprendre
et il est impossible
de l’enseigner à quelqu’un d’autre.
Celui qui ne s’arrête nulle part
est condamné aux sourires
comme le banni au bannissement,
et celui qui depuis toujours
ne le sais pas,
pour toujours restera incrédule :
personne
n’a jamais rien à réprimander
à celui qui vient juste parce que l’on a appelé,
juste parce que l’on a payé.
Pourquoi on devrait montrer le visage
de la dure vérité,
du dur amour quotidien
à celui qui jamais porte le poids du temps,
à celui qui comme un nuage léger
vient avec le vent
qui va on ne sait où ?
* *
Lointain…
Si
lointain…
* *
Si lointain,
et pourtant
savoir ce que tu penses
quand tu penses à rien.
Lointain…
Si
lointain…
Et pourtant
savoir ce que tu cherches
de là de cet horizon fermé,
de ce coucher de soleil, rouge de honte,
parce qu’un jour de plus est passé,
immobile,
comme ce ciel si fond
sans plafond,
de la fenêtre de ton avion,
ton rempart,
qui n’atterre jamais,
qui se dirige nulle part.
* *
Nulle part,
oui….
Nulle part
ou….
….lointain…
Si lointain…
* *
Lointain,
oui,
comme un aveugle :
et pourtant
pouvoir voir s’ouvrir et se défaire
les valises,
vomir vêtements,
puis avalés par la machine,
par les tiroirs,
puis dévorés encore
par ces valises insatiables,
sans cesse :
sans cesse
savourer la douleur assoupie
sous le maquillage de l’actrice
qui trompe tout le monde
sauf toi-même,
si lointaine
même
de toi-même…
Si lointaine,
oui,
que je ne peux plus même prononcer
ton nom, si cher,
et pourtant t’avoir ici,
continuellement,
inutilement perdue,
si te voir,
si lointain, pourtant, comme un aveugle,
tu le sais,
c’est mon sort pérenne,
c’est mon étrange mort,
c’est ma vie
quotidienne.
Ainsi,
inévitablement te pleurer,
inévitablement te regretter
avec des larmes qui tombent
désormais distraites,
sans commotion,
sans pudeur,
et désormais
sans aucun goût
ni dégoût.
* *
Enfin
savoir que nous sommes
comme tous.
Voir que notre mal eternel,
maternel,
c’est un destin béotien,
et s’il n’est pas mort,
tu le sais,
c’est juste parce qu’il est
mortel.
Nous aussi,
aussi les anges
sont faits de la même cendre,
étrange,
des cigarettes qui nous fumons
et qui dans les coins se mélange
à la poussière cosmique,
à la fatigue comique
du serveur qui l’époussette tous les matins,
si l’hôtel veut conserver son nom
s’il ne veut pas être considéré un fainéant,
si regarder un lit défait
me rappelle ta photo,
je ne sais pas comment.