LA GEOMETRIA DI ATLANTIDE
Un primo tentativo di concettualizzazione e di approfondimento della teoria dei campi unificati che fu codificata nella Grande Piramide. Al paragrafo 13 della parte 2, una funzione che ci da la possibilità di definire π come limite di tutti i numeri finiti.
A Marino Rosso, per avermi introdotto
al metodo del dubbio sistematico-costruttivo.
Je suis le saint, en prière sur la terrasse, comme les bêtes pacifiques paissent jusqu’à la mer de Palestine.
Je suis le savant au fauteuil sombre. Les branches et la pluie se jettent à la croisée de la bibliothèque.
Je suis le piéton de la grand ‘route par les bois nains; la rumeur des écluses couvre mes pas. Je vois longtemps la mélancolique lessive d’or du couchant.
Je serais bien l’enfant abandonné sur la jetée partie à la haute mer, le petit valet suivant l’allée dont le front touche le ciel.
Les sentiers sont âpres. Les monticules se couvrent de genêts. L’air est immobile. Que les oiseaux et les sources sont loin! Ce ne peut être que la fin du monde, en avançant.
A.Rimbaud
parte 1: ALCUNE RIFLESSIONI INTRODUTTIVE
1. Il lavoro che segue, pur essendo per certi versi interamente nuovo, trova però le sue premesse teoriche in The Snefru Code parte 3 e parte 7. Questi articoli erano fondati sulla tesi che nella Grande Piramide venne codificata una teoria dei campi unificati il cui fondamento si può ben riassumere in quest’affermazione: tutto ciò che accade nel mondo è strutturato quantitativamente secondo funzioni di π e di ɸ, del 10 e del numero di Eulero. Una tessitura armonica di rapporti numerici starebbe dunque alla base della struttura dell’universo, quasi un andamento musicale, che il nostro modo ordinario di considerare la scienza non è capace né di intendere né tantomeno di descrivere. E una prima analisi dei rapporti fra le costanti fondamentali della nostra fisica sembrava dar ragione a questa ipotesi, dato che una loro elaborazione matematica – sia pure ancora rozza e superficiale – ci consentiva di poter affermare sulla base del calcolo che i rapporti che caratterizzano – per esempio – i rapporti fra la massa e il raggio classico di elettrone e protone – sembrano davvero far capo a ɸ e π.
Nei mesi successivi il lavoro svolto in quella sede è stato approfondito e ampliato in The Snefru Code parte 9 e parte 10, fino al punto che adesso pare davvero impossibile immaginare il contrario di quanto avevamo inizialmente supposto. L’evidenza storico-scientifica che abbiamo raggiunto sembra parlar chiaro: quella geometria e quella trigonometria che definiamo per solito “euclidee” non sono quel che abbiamo sempre creduto che fossero. Lungi dall’essere esclusivamente un metodo per descrivere angoli, o corpi geometrici ideali, esse appaiono come un raffinatissimo codice scientifico-numerologico, messo a punto un numero imprecisato di decine di millenni fa come puro specchio dell’intima struttura empirico-matematica di cosmo e microcosmo.
2. Le analisi che abbiamo compiuto delle strutture interne della Grande Piramide, in particolare della Camera del Re, non sembrano dar adito a nessun dubbio. Le innumerevoli prove matematiche che abbiamo raccolto sembrano dimostrare in modo oramai inoppugnabile e definitivo che la Grande Piramide non sia altro che un gigantesco manuale scientifico scritto con e nella la pietra. Un manuale in cui, per mezzo del codice della geometria e della trigonometria che noi chiamiamo euclidea, sono state criptate conoscenze matematico-scientifiche che appaiono molto più avanzate e profonde delle nostre.
Le prospettive che questo nuovo tipo di sapere ci apre sono talmente smisurate da apparire al tempo stesso entusiasmanti e inquietanti. Se davvero l’intima struttura della materia è tale che ogni forza può trasformarsi in ogni altra forza, in virtù della struttura armonica che ad esse soggiace, allora l’uomo, rendendosene padrone, può aspirare a poteri che fino ad adesso sono stati attribuiti ad esseri divini.
Ma dobbiamo riconoscere che questa struttura è ancora ben lontana dall’essere anche solo rozzamente ricostruita. Essa appare talmente profonda e complessa che si può dubitare legittimamente se saremo capaci o meno di comprenderla anche in anni e anni di lavoro di tutta la comunità scientifica. Nelle pagine che seguono andiamo alla ricerca di alcune prime chiarificazioni, che possano essere il fondamento di ulteriori indagini e, speriamo, di una pre-comprensione in grado di consentirci un primo passo verso le radici tecnico-teoriche di questa saggezza. Una saggezza che appare quasi abissalmente antica.
Questo strano reperto archeologico infatti ci porta la testimonianza di un sapere che ha visto il suo inizio – come minimo – molte decine di millenni fa – posto che di esso si possa credere sensatamente che abbia avuto un inizio, uno sviluppo e un compimento. Già in The Snefru Code parte 9 abbiamo portato prove, che sembrano irrefutabili, che un sapere di questo genere è tale da presupporre sé stesso nella sua propria edificazione. L’armonia del cosmo infatti la si può cogliere solo a partire da una struttura cognitiva fondata sul sistema di misura metrico decimale e sulla trigonometria fondata sull’angolo giro di 360 gradi (divisi però in centesimi di grado). Basterebbe alterare l’unità di misura del peso, o del tempo, o della lunghezza, basterebbe suddividere l’angolo in un numero di parti diverso da 360 perché tutto quel meraviglioso sistema armonico che abbiamo analizzato a partire da The Snefru Code parte 3 e parte 7 salti completamente. Che si tolga anche un solo parametro: si divida il minuto in 100 secondi, invece che in 60, e la meravigliosa armonia matematica che siamo stati capaci di scoprire nell’universo e fra l’universo e il sistema trigonometrico di origine babilonese svanisce magicamente in un caos di numeri, che non ci dicono più nulla.
3. Dunque, questo sistema armonico presuppone che la lunghezza sia misurata in metri, il peso in chili, i fluidi in litri. Quindi, con un sistema integralmente decimale, in cui per di più il chilo venga stabilito in base al peso di un decimetro cubo d’acqua. In secondo luogo, che il tempo venga misurato in giorni di 24 ore, suddivise secondo il metodo sessagesimale fino al secondo, e poi, dal secondo in là, secondo il sistema decimale. Similmente, che l’angolo giro sia diviso in 360 parti, e che ognuna di queste parti si suddivida secondo il sistema decimale.
Un tale numero di quasi incredibilmente complesse precondizioni esclude a priori che un sistema del genere possa essere cresciuto a partire da una somma di eventi fortuiti. Già il metodo che ha condotto alla scelta del metro in quanto unità di misura della lunghezza è talmente cervellotica e improbabile che davvero non si arriva a capire perché la si è stabilita in quel modo piuttosto che in un altro, posto che il suo scopo fosse quello di stabilire una convenzione purchessia. Infine: perché si doveva scegliere di suddividere proprio il segmento di circonferenza che va dal polo all’equatore proprio in 40 milioni di parti? Perché non suddividere l’intera circonferenza della Terra in 100, o 200 milioni di parti? O il raggio polare in 10000? O ancora: perché cercare una proporzione di qualsiasi genere fra un’unità di misura (che nella nostra cultura viene immaginata come pura convenzione) e le dimensioni del nostro pianeta?
A noi sembra del tutto ovvio: se si è deciso di stabilire la dimensione del metro proprio nel modo in cui la si è stabilita, questo è accaduto perché il suo scopo non era quello di costituire una convenzione qualsiasi, purché semplice e comoda. Se di fatto si è stabilita in quel modo era perché il suo scopo era quello di andare a costituire una parte fondamentalissima di quel sistema armonico di descrizione dell’universo che abbiamo cominciato ad esplorare nel corso dei precedenti articoli.
D’altra parte, come abbiamo visto, il metro da solo non basta a costituire questo sistema. Esso è talmente complicato che possiamo affermare senza tema di smentita che la sua costruzione presuppone la sua perfetta conoscenza. Il che significa a sua volta che in questo caso non abbiamo a che fare con un sapere scientifico qualsiasi – per quanto potente possa essere. Qui abbiamo a che fare con una sorta di miracolo. Un miracolo davvero molto, molto diverso da quelli a cui le varie tradizioni religiose fanno per solito riferimento. L’origine divina dell’umano sapere, a cui Isaac Newton credeva senza alcun dubbio e senza alcuna ironia, sembra esser diventata a questo punto manifesta e comprovata al di là di ogni ragionevole dubbio.
4. Ma, al di là di un approfondimento di questo sistema armonico, fra le parti interamente nuove di questo scritto vi è, fra l’altro, anche il tentativo di concettualizzare nel modo più preciso possibile la teoria dei campi unificati che fu codificata nella Grande Piramide. E questa non è un’operazione strettamente matematica, ma abbisogna invece di qualcosa che possiamo definire “filosofia della scienza”. Ovvero, della radicale rielaborazione dei concetti e delle immagini attraverso le quali comprendiamo le equazioni della fisica. Questo è un passo che si è reso necessario perché, per procedere oltre la semplice dimensione matematica, occorre una nuova e radicalmente diversa comprensione del mondo, del tutto rivoluzionaria rispetto a quella a cui siamo abituati.
Già dallo stato attuale dell’indagine sembra di poter capire che la teoria dei campi unificati che fu codificata nella Grande Piramide non si potrà, molto probabilmente, riassumere in una singola formula da cui le altre si derivano come conseguenze, in essa logicamente implicite. Al contrario, sembra invece che abbiamo a che fare con una sorta di “cluster theory”, cioè un insieme di funzioni in cui ogni parte presuppone il tutto, e il tutto la parte. Ciò fa sì che da questo insieme si possa trascegliere in modo relativamente arbitrario un sottoinsieme. Poi, da questo sottoinsieme se ne possono derivare altri, anch’essi in modo relativamente arbitrario, fino a ritornare all’insieme iniziale, dopo aver percorso tutto lo spazio logico-matematico aperto dalla teoria.
Questo significa che ci stiamo muovendo, a come sembra, in una sorta di cerchio logico-ermeneutico in cui non è chiaro quale sia o possa essere considerato il principio e quale la fine.
5. In questa teoria dei campi unificati non pare dunque che si possa trovare una forza unica e originaria espressa da un’equazione che si trova al culmine di una piramide cognitiva, come era stato preconizzato da Kant ed era stato creduto anche da Heisenberg. Troviamo invece una struttura circolare di forze che possono essere trasformate (o trasformarsi) le une nelle altre a seconda dei contesti sperimentali. Questa è una verità che la nostra scienza ha, almeno in parte, già saldamente acquisito. Infatti, in base al principio di complementarità, la presenza nelle funzioni di certi valori con un alto grado di esattezza esclude per principio quella di altri valori con il medesimo grado di esattezza. La massima precisione nel determinare una posizione presuppone un errore tendenzialmente infinito quanto alla velocità, e vice versa. Vi è anche il caso di parametri dinamici che si escludono l’un l’altro in modo ancora più radicale, dato che, per esempio, riguardo all’elettrone, la presenza dello spin esclude tout court quella del raggio classico. E questo significa che, trasformando il contesto sperimentale, lo spin si può trasformare in raggio classico, e vice versa.
Dunque, se di “piramide cognitiva” si vuole in ogni caso parlare, occorre allora parafrasare Ermete Trismegisto e dire che la teoria matematica in grado di descrivere l’universo è una piramide la cui cuspide è ovunque e la cui base è da nessuna parte.
Bisogna anche notare che, siccome secondo quest’antica saggezza lo specchio del mondo è quella geometria che noi chiamiamo euclideo-pitagorica, dobbiamo inevitabilmente attribuire agli scienziati del passato un pensiero che per il nostro modo ordinario di vedere le cose appare davvero molto, molto strano. Ovvero, che il mondo sia un ambito intrinsecamente e oggettivamente ordinato, e che niente in esso possa accadere per caso. Infatti, se assumiamo questo punto di vista, fra la geometria – che è per definizione uno spazio logicamente ordinato – e la realtà empirica – che è il suo specchio – non possiamo più trovare nessuna fondamentale differenza.
6. In un tale contesto, così diverso da quello a cui ci ha abituati la nostra fisica, le equazioni sono caratterizzate dal fatto che non vi si trovano quei valori costanti che usiamo di solito (G, h, c, etc.). Questi valori – almeno quelli considerati più fondamentali – sono caratterizzati sostanzialmente dal fatto di essere semplici (nel senso di non composti) e dunque assolutamente unici. Questa concezione che ne abbiamo si esprime, consapevoli o meno che ne siamo, nel fatto che
1) le tabelle in cui sono elencati questi valori costanti sono fatte da righe da separate, e ad ognuno di essi è connesso un nome proprio, che per solito è quello dello scopritore o comunque sia di un grande scienziato a cui si vuol rendere onore.
2) l’ordine in cui sono posti in tali tabelle dipende sostanzialmente dall’umore o dai gusti di colui che si occupa di costruire la tabella: l’ordine cronologico di scoperta vale altrettanto che quello alfabetico degli scopritori.
Invece, in questa versione antica della scienza empirica, i valori costanti risultano sempre da funzioni di ɸ, di π, di 10 e del numero di Eulero “e”. Essendo dunque composti da una pluralità di elementi semplici, i valori costanti delle formule fisiche non risultano più assolutamente unici. Non è però del tutto escluso che fra di essi possa essere istituito un ordine logicamente determinato, dato che essi tutti sembrano generati da una matrice profonda, di cui fino ad adesso non si sospettava l’esistenza.
Le costanti della nostra fisica non sarebbero dunque dei valori fondamentali, come fino ad esso si era creduto. Essi sarebbero, al contrario, dei valori fondati su una tessitura matematica più profonda, che ancora non siamo in grado di descrivere compiutamente. Se questo risultasse verificato, l’autonomia di cui i valori costanti sembrano godere nell’ambito della nostra filosofia della scienza non sarebbe altro che un’ingannevole apparenza.
Questo significa che i rapporti che possiamo istituire fra queste costanti sono o possono essere anche radicalmente diversi da come sono istituiti e pensati normalmente attraverso le nostre formule. Per esempio, se prendiamo la celeberrima E = mc2, e la riferiamo alla massa del protone mp, noi, seguendo l’uso attuale, la possiamo scrivere in questo modo
E = mpc2 = (1,6725..x 10-27 kg) x (2,9979246 x 108 m/s)2
Così come stanno le cose i due numeri (e dunque le due forze) che compaiono sul lato destro dell’equazione non sembrano avere nulla a che fare fra di loro. Ma che cosa succede, nel momento in cui esprimiamo E = mpc2 come funzioni di π e di ɸ, ovvero nel modo in cui vediamo sotto?
E = [(1/ɸ + 9√ɸ) x 10-27 kg] x {π : {32√[2( ɸ + 1/ɸ)]} x 108 m/s2}
7. La funzione di ɸ con cui abbiamo sostituito la costante della massa del protone 1,6725.. è – in effetti – un po’ imprecisa. Un valore più esatto risulta invece, per esempio, da una funzione che possiamo costruire a partire dall’approssimazione di π che possiamo trovare nella Piramide di Cheope. Si tratta di uno dei cosiddetti “numeri di Pitagora” (22/7 = 3,142857142857..), che nelle altre parti di questo lavoro l’abbiamo denominata πCheope
πCheope/2 + 1/πCheope2 = 1,6726.. ≈ mp = 1,6725…
La differenza di un decimillesimo che vediamo sopra risulta trascurabile perché, nei fatti, la massa del protone, come tutte le costanti, risulta leggermente diversa a seconda dei criteri con cui viene calcolata, dai contesti d’uso, dalle inclinazioni culturali e dunque anche psicologiche dei ricercatori, etc. In effetti, andando un po’ in giro per internet, vi sono dei siti in cui il valore dato per buono è proprio 1,6726, e non 1,6725.
Volendo essere precisi dunque, nel nostro esempio avremmo dovuto usare questa funzione e non l’altra. Lì sopra però abbiamo usato quella un po’ meno precisa perché è una delle più semplici, e, nel contesto di un ragionamento introduttivo, la semplicità interessa più della precisione.
Infatti, in questo modo vediamo ancor più chiaramente quel dicevamo all’inizio, cioè che i valori costanti della nostra scienza empirica, essendo il frutto di funzioni di ɸ e di π, non sono più così unici come ci sembrano a partire dalla nostra visione del mondo. In effetti, il lettore che abbia voluto verificare la correttezza del calcolo si sarà accorto che 9√ɸ = 1,054923.. costituisce di per sé una buona approssimazione della costante di Dirac, ħ = 1,054571..: eppure 9√ɸ fa parte della definizione della massa del protone mp = 1,6725. Dunque, a questo punto, come stupirsi se una volta ottenuta la costante che ci serve per calcolare la massa del protone mp, scopriamo che si può arrivare al valore di ħ per mezzo di una funzione di ɸ? In effetti, mp e ħ sembrano come incatenati fra di loro da 1/ɸ, dato che
mp – 1/ɸ = 1,672605676 – 0,618033988 = 1,054571688 = ħ
Come ripetiamo, il valore di mp che si trova più spesso – diciamo così – andando un po’ in giro per internet ci è sembrato quello 1,6725. Però non mancano tabelle in cui il valore è praticamente identico a quello che abbiamo usato nella formula sopra: il che significa che già allo stato attuale della nostra conoscenza si considera che le costanti abbiano un certo margine di variabilità. Un fatto risaputo questo, che dipende fra l’altro – oltre che, come abbiamo già detto, dai criteri usati per determinarlo, dai contesti d’uso, dalle inclinazioni culturali e psicologiche del ricercatore – anche dal principio di indeterminazione. Ciò fa sì che possiamo considerare l’equazione che abbiamo mostrato sopra del tutto soddisfacente dal punto di vista scientifico, dato che nell’ambito della fisica quantistica la precisione assoluta è un traguardo che per principio risulta inattingibile. Quella che abbiamo visto, in effetti è un esempio dell’unica esattezza che siamo umanamente in grado di attingere, cioè un’esattezza possibile.
Ma la questione fondamentale posta da questo modo di ricostruire matematicamente la nostra scienza empirica oltrepassa quella del livello di precisione raggiungibile per mezzo delle funzioni di π e ɸ, di 10 e del numero di Eulero. Il fatto fondamentale e filosoficamente sconvolgente sembra infatti questo: che costruendo le formule in modo tale che i valori costanti – che noi attualmente vediamo come semplici, unici e al tempo stesso completamente casuali – siano sostituiti da funzioni di π e ɸ, ha come inevitabile conseguenza che fra i due membri del prodotto vi sono degli elementi in comune. E, a questo punto, il contesto logico-matematico appare radicalmente cambiato, come anche quello ermeneutico.
8. Infatti, quella formula che abbiamo visto sopra si potrebbe semplificare (o comunque sia trasformare) e la semplificazione o trasformazione farebbe sì che due valori – che nella formulazione consueta appaiono come radicalmente distinti separati – valori quali mp e c2 – apparirebbero invece quasi come “impastati”, o addirittura confusi l’uno con l’altro. E questo varrebbe naturalmente anche per il risultato, che a questo punto, non sarebbe più facilmente distinguibile dall’operazione con cui lo si è ottenuto. E qui sembra proprio che la struttura matematica di questa “nuova scienza” – nuova perché abissalmente antica – voglia dirci che ogni forza può intrinsecamente e strutturalmente trasformarsi nell’altra, perché intrinsecamente e strutturalmente non si distingue dall’altra. Che la pietra filosofale esiste, e che consiste nella possibilità – che sul piano matematico appare già del tutto realistica – di trasformare ogni elemento della realtà in ogni altro. Fra l’altro, questo è proprio quel che sostiene Platone in quel Timeo che appare come un’eredità del pensiero ermetico-scientifico Antico Egizio che fu codificato nella Grande Piramide.
Più oltre, vedremo in dettaglio quanto lontano possiamo spingerci con questa nuova possibilità di strutturazione matematica delle nostre formule, che, come abbiamo visto in The Snefru Code parte 3 e parte 7, va ben al di là di E = mc2. Qui però conviene sottolineare ancora una volta che questa strana situazione logico-ermeneutica – i valori delle costanti che si possono, per così dire, mescolare fra di loro – diventa tanto radicale da essere disorientante nel momento in cui ci ricordiamo di una cosa che abbiamo visto in The Snefru Code parte 9 e parte 10. Ovvero, che si possono derivare tanto ɸ che π – con un’approssimazione intorno al milionesimo – a partire da uno stesso numero. Un numero che corrisponde in modo quasi perfetto alla sezione aurea del 3, e che abbiamo battezzato “numero di Cheope” (d’ora innanzi lo abbrevieremo con Nc).
9. Essendo possibile pensare questo numero come una sorta di minimo comun denominatore dei due numeri irrazionali per eccellenza, è del tutto ovvio che anche il numero di Cheope è un numero irrazionale. Una sua buona approssimazione – che oltrepassa di molto i miliardesimi e che dunque risulta utilizzabile anche per calcoli molto precisi – è questa che vediamo qui sotto
NC = 1,85410596792102643..
Questo numero ha una serie di particolarità, che abbiamo già visto in The Snefru Code parte 9 ma che conviene rivedere ancora una volta. In primo luogo, notiamo che corrisponde in modo quasi perfetto alla sezione aurea del 3, con una differenza di circa 4 milionesimi, come possiamo vedere qui sotto
3/ɸ = 1,8541019.. ≈ NC = 1,8541059.. (-0,000004)
Questo significa a sua volta che da esso possiamo ricavare 1/ɸ con un’approssimazione di circa 1,3 milionesimi semplicemente dividendo NC per 3. L’inverso dell’errore meno 1 consiste in una buona approssimazione di c = 2,9979246
NC : 3 = 1,85410596792102643.. : 3 = 0,6180353226333.. ≈ 1/ɸ = 0,6180339887498.. (+1,333891342143.. x 10-6); 1/(1,333891342143 – 1) = 2,9949863 ≈ c = 2,9979246..
E qui dobbiamo notare che dal differenza fra NC/3 e 1/ɸ corrisponde con buona approssimazione anche alla radice ottava di 10 moltiplicata per 10-6. È un dettaglio questo che ci tornerà utile in un ragionamento successivo, quanto ai rapporti fra i valori di massa e raggio classico di protone ed elettrone. In esso vedremo come in certi casi che le approssimazioni che otteniamo contengono un margine di errore che risulta a sua volta fondato su π, ɸ, il 10 e il numero di Eulero. In questo caso sembra proprio che le cose stiano così, dato che
8√(10).. x 10-6 = 1,33352.. x 10-6 ≈ 1,33388.. x 10-6; 1/8√(10) – 1 = 2,998308.. ≈ c = 2,9979246
Il particolarissimo legame del numero di Cheope con il 10 si conferma anche in questo. Che se sottraiamo a 10 il numero di Cheope e poi facciamo la radice quadra, otteniamo un numero vicinissimo al numero di Cheope + 1, e ancora più vicino alla sezione aurea del 3
√(10 – 1,85410596792102643..) = √8,14589403207897357.. = 2,8541012.. ≈ NC + 1 =
= 2,8541059.. (- 0,0000047) ≈ 3/ɸ = 1,8541019.. (-0,0000007)
Il numero che soddisfa in modo esatto l’equazione √(10 – n) = 1 + n sembra proprio la sezione aurea del 3
√(10 – n) = 1 + n =
= √(10 – 3/ɸ) = 1 + 3/ɸ =
= √(10 – 1,854101966249..) = 1 + 1,854101966249.. =
= √8,1458980337503154553862394969031 = 2,8541019662496845446137605030969 =
= 2,8541019662496845446137605030969 = 2,8541019662496845446137605030969
Da ciò ne segue che
3/ɸ + (1 + 3/ɸ)2 = 10
Qui è anche interessante notare che elevando per 3 volte consecutive alla potenza di sé stesso il risultato di 3 – 3/ɸ e togliendo 1/10 arriviamo a un risultato straordinariamente simile a Ln π
(3 – 3/ɸ)(3 – 3/ɸ) = 1,145898..1,145898.. = 1,168894..; 1,168894..1,168894.. = 1,2001129..;
1,2001129..1,2001129.. = 1,24473092..; 1,24473092.. – 1/10 = 1,14473092.. ≈ Ln π = 1,1447298..
L’approssimazione di π che possiamo ottenere è davvero molto buona
e1,14473092.. = 3,141595.. ≈ π = 3,141592.. (+0,000003)
Sembra un fatto abbastanza notevole – tanto inquietante che interessante – che si possa ottenere un’ottima approssimazione del numero di Cheope e della sezione aurea del 3 più uno anche nel modo che vediamo sotto
(1 + c/10)4 = 1 + (2,9979246 : 10)4 = 1,299792464 = 2,8542765.. ≈ 1 + 3/ɸ = 2,8541019..
Per pura curiosità, mostriamo il numero che soddisfa l’equazione √(10 – n) = 3 + n. Il suo lato interessante è che consente di trovare una buona approssimazione di π
√(10 – n) = 3 + n =
= √(10 – 0,14005494474..) = 3 + 0,14005494474.. =
= 3,140054.. ≈ π = 3,141592..
Qui vale anche la pena notare che facendo 5 – π si ottiene un’ottima approssimazione di quel numero che, elevato alla potenza di sé stesso, ci da √10. Infatti
(5 – π5 – π)2 = (1,858407346410..1,858407346410..)2 = 3,16354088..2 = 10,00799..
La seconda particolarità del numero di Cheope è connessa con la prima, dato che questo numero, diviso per ɸ, ci da un numero vicinissimo a 1 + 1/ɸ4
NC : ɸ = 1,85410596792102643.. : 1,618033988.. = 1,1459005.. ≈ 1 + 1/ɸ4 = 1,145898..
La terza particolarità è che elevato al quadrato e diviso per due ci da un numero piuttosto vicino al numero di Eulero meno 1
NC2 : 2 = 1,85410596792102643..2 : 2 = 1,718854.. ≈ e – 1 = 2,718281.. – 1 = 1,718281..
La quarta particolarità è che elevato alla c = 2,9979246 e diviso per due ci da un numero molto vicino al rapporto fra 10 e π
NCc : 2 = 1,85410596792102643..2,9979246 : 2 = 6,365714.. : 2 = 3,182857.. ≈ 10/π = 3,183098..
Un’altra particolarità del numero di Cheope è che da esso possiamo ottenere un’ottima approssimazione della durata complessiva di un anno Maya, che rimane ancora oggi l’unità di tempo più misteriosa con cui archeologi, storici e antropologi si siano confrontati. Stiamo parlando dell’anno Tzolkin, che durava 260 giorni, che possiamo ricostruire in modo praticamente esatto con l’ausilio del numero di Eulero e di c = 2,9979246. Infatti
(ec = 2,9979246)1,85410596792.. = 20,04389.. 1,85410596792.. = 259,4255833.. ≈ 260, numero di giorni di un anno Tzolkin
La sesta particolarità è quella che davvero ci interessa, dato che NC, elevato alla potenza di sé stesso ci da esattamente π
1,85410596792102643.. 1,85410596792102643.. = 3,141592653.. = π = 3,141592653..
Questo, a sua volta, dimostra che la sezione aurea del 3 ha un rapporto strettissimo con π, come possiamo comprendere a partire dall’equazione sottostante
(3/ɸ)(3/ɸ) = 1,854101966..1,854101966.. = 3,141572.. ≈ π = 3,141592.. (-0,00002)
Queste che abbiamo visto finora sono delle proprietà che possiamo definire strettamente matematiche. Ma il numero di Cheope sembra avere delle relazioni anche con delle quantità fisiche fondamentali nella descrizione dell’atomo. Una cosa che non stupisce, se consideriamo che in The Snefru Code parte 3 e parte 7 abbiamo visto come tali quantità sono connesse con funzioni di π e di ɸ, di 10 e del numero di Eulero. Per esempio, moltiplicando il numero di Cheope per c = 2,9979246 e poi facendo la radice quarta si ottiene una buona approssimazione della costante che ci serve per ottenere il raggio classico del protone rp
4√(Nc x c) = 4√(1,85410596792102643.. x 2,9979246) = 4√5,558469.. = 1,535461.. ≈ rp = 1,535
Questo significa, ovviamente, che si può ottenere una buona approssimazione di c = 2,9979246 dal raggio classico del protone e dal numero di Cheope.
Oppure, dividendolo per la radice cubica di π ed elevandolo al quadrato, possiamo ottenere una buona approssimazione della carica elementare
(Nc/3√π)2 = (1,85410596792102643.. : 1,4645918875615..)2 = 1,265954..2 = 1,6026.. ≈ carica elementare = 1,6022
Ancora, dividendolo per il logaritmo naturale di π ci da una buona approssimazione del numero d’oro. Oppure, dividendolo per la stessa cifra ma elevata al cubo, ci da una buona approssimazione di 2/ɸ
Nc/Ln π = 1,85410596792102643.. : 1,144729885849.. = 1,619688.. ≈ ɸ = 1,618033..
Nc/(Ln π)3 = 1,85410596792102643.. : 1,144729885849..3 =
= 1,85410596792102643.. : 1,50006149639.. = 1,23601.. ≈ 2/ɸ = 1,23606..
Viceversa, dividendolo per il logaritmo naturale di 2ɸ elevato al cubo otteniamo una buona approssimazione del logaritmo naturale di π
Nc/(Ln 2ɸ)3 = 1,85410596792102643.. : 1,17435900561954875691499103488253 =
= 1,85410596792102643 : 1,6195809.. = 1,144806019.. ≈ Ln π = 1,14472988..
Si nota anche che l’inverso del logaritmo naturale del numero di Cheope è praticamente identico al logaritmo naturale di 2ɸ elevato al cubo
1/Ln Nc = 1 : 0,6174026218.. = 1,61968.. ≈ (Ln 2ɸ)3 = 1,61958..
10. Ma tutte queste relazioni di cui il numero di Cheope pare trovarsi come al centro, ovviamente, non sono l’aspetto che davvero ci importa in questo contesto, anche se sembrano molto interessanti. La cosa più importante è che a questo punto – per esempio, nella formula per calcolare l’energia contenuta nella massa del protone (E = mpc2) – non solo mp e c2 avrebbero un elemento in comune (che, avendola ricostruita per mezzo di funzioni di π e ɸ risultava essere appunto ɸ). Addirittura, sia questo elemento comune, come anche quello che non hanno in comune – ovverosia π – li potremmo immaginare entrambi come derivati di uno stesso numero, quello che abbiamo definito or ora come “il numero di Cheope”.
La formula con cui avevamo sostituito la formula usuale era questa.
E = [(1/ɸ + 9√ɸ) x 10-27 kg] x {π : {32√[2( ɸ + 1/ɸ)]} x 108 m/s2}
Ma usando il Numero di Cheope (NC) questa stessa formula diventa
E = [NC/3 + 9√(NC/3 + 1) x 10-27 kg] x {NCNc: {32√{2[(NC/3 + 1) + (NC/3)]} x 108 m/s2}}
In questo modo, è del tutto chiaro che il senso ermeneutico della formula di Einstein non apparirebbe più lo stesso. Quelle entità che definiamo come “luce”, “velocità della luce” e “massa” ci apparirebbero non delle realtà a sé stanti, ma invece quasi il prodotto del magico trasformarsi di uno stesso numero, che in realtà è il quasi perfetto punto armonico di tre numeri: il 3, ɸ e π (e, siccome abbiamo dimostrato la stretta connessione della sezione aurea del 3 con il 10, anche del 10) .
In questo modo vediamo affiorare dei rapporti fra ɸ e π che finora non erano stati indagati e che, chissà, forse converrebbe di indagare un po’ più a fondo. Un lavoro di questo genere potrebbe avere una rilevanza, anche se magari soltanto a livello puramente matematico. Quanto a noi, lo scopo che ci siamo prefissi in questo lavoro è un altro. E questo significa che purtroppo siamo costretti, come si dice, a tagliar corto. Ma per dare un’idea al lettore dei nuovi orizzonti di ricerca che si possono aprire anche solo a livello matematico a partire da questa scoperta, conviene fare qualche altro esempio di relazioni che si possono creare fra π e ɸ, e anche il numero di Eulero.
Possiamo partire dal numero che, sommato al suo inverso, ci da π, che è piuttosto vicino al numero di Eulero (2,718281828..). Questo numero è
2,78215965.. + 1/2,78215965.. = 3,14159265.. = π
Il suo logaritmo naturale è
Ln 2,78215965.. = 1,0232274786267997520573269761113
Questa cifra, elevata al quadrato, ci da una buona approssimazione di π/3
1,023227..2 = 1,04699.. ≈ π/3 = 1,047197..
Similmente, se la dividiamo per il numero di Eulero e poi la eleviamo al quadrato, ci porta vicino la rapporto fra π e c = 2,9979246
2,78215965.. : e = 1,0234993372917355594453898539591
1,023499..2 = 1,04755089.. ≈ π/c = 1,047922..
Il doppio di questa cifra è
1,04755089.. x 2 = 2,0951017868732437448569416862245
Ebbene, questo numero – apparentemente del tutto anonimo e insignificante – è inferiore di poco più di un decimillesimo da quello a cui, sottraendone l’inverso, ci da il numero d’oro. Questo numero è
2,095293985.. – 1/2,095293985.. = 1,618033988.. = ɸ
Questo non basta ancora. Se adesso prendiamo il numero di Cheope e lo moltiplichiamo per 3/2 scopriamo che in questo modo otteniamo un’ottima approssimazione di quel numero che, sommato al suo inverso, ci da π. Infatti
1,85410596792102643.. x 3/2 = 2,78115895185.. ≈ 2,78215965.. (-0,001)
L’approssimazione di π che possiamo ottenerne differisce dal valore effettivo di poco più di 7/10000
2,78115895185.. + 1/2,78115895185.. = 3,140721.. ≈ π = 3,141592..
11. Certo, si può pensare che tutte queste siano solo coincidenze, che non significano nulla. Ed è del tutto possibile che questa sia la verità. D’altra parte, si nota che procedendo in questa direzione quelle che forse sono solo coincidenze si moltiplicano in un modo che pare davvero sospetto. Al punto che sembrano quasi la punta dell’iceberg di strutture matematiche che finora ci sono rimaste sconosciute. Viene spontaneo domandarsi: tutto questo sistema di approssimazioni incrociate che abbiamo ricavato non potrebbe alludere a rapporti matematici caratterizzati da qualcosa come un “principio di indeterminazione” che riguardi anche la matematica pura e non solo la fisica?
Per esempio, come esiste un numero a quale aggiungendo il suo inverso si può ottenere π, esiste anche un numero dal quale sottraendo il suo inverso si può parimenti ottenere π. È questo che vediamo sotto
3,432892216.. – 1/3,432892216.. = 3,1415926536.. ≈ π = 3,141592653589..
Come prima cosa, se lo dividiamo per π, ecco che otteniamo un’ottima approssimazione del rapporto fra 2ɸ e π elevato al cubo
3,432892216.. : π = 1,092723.. ≈ (2ɸ/π)3 = 1,092957..
Facendo il rapporto con quello cui aggiungendo il suo inverso si arriva a π, arriviamo a una cifra molto simile alla costante che ci serve per calcolare la lunghezza di Planck, ovvero il quanto minimo di spazio al di sotto del quale parlare di “distanza” non ha più un significato fisico
3,432892216.. : 2,78215965.. = 1,233894.. ≈ 2(ℓp – 1) = 1,232504..
Se facciamo il rapporto fra le differenze di questi numeri da π, parimenti otteniamo una buona approssimazione della lunghezza di Planck
(π – 2,78215965..) : (3,432892216.. – π) = 0,359433.. : 0,291299.. = 1,233894.. ≈ 2(ℓp – 1) = 1,232504..
Anche la differenza fra questi due numeri sembra avere un significato in relazione a una costante riguardante l’atomo, dato che essa corrisponde più o meno all’inverso del raggio classico del protone rp
3,432892216 – 2,78215965 = 0,650732566 ≈ 1/rp = 0,6514657..
Anche la radice 81esima del prodotto fra π e 3,432892216.. sembra rimandarci al rapporto fra 2ɸ e π
81√(π x 3,432892216..) = 81√10,7847489.. = 1,0297949.. ≈ 2ɸ/π = 1,0300724.. (-0,00021)
Inoltre, il prodotto fra 3,432892216.. e 2,78215965.. sembra avere un significato matematico astratto
3,432892216 x 2,78215965 = 9,5508542061542844 ≈ 10/π x 3 = 9,549296
12. Ma, forse più importante di tutti quelli che abbiamo visto finora, vi è un altro rapporto, che conviene analizzare a causa della ridondanza che π e ɸ hanno nel nostro lavoro.
Possiamo partire nella nostra analisi osservando che facendo la radice quarta di (π + 1) si ottiene un numero che differisce di solo 1/100000 dal rapporto di π e ɸ meno il suo inverso
4√(π + 1) = 1,42656.. ≈ (π/ɸ) – 1/(π/ɸ) = 1,42657.. (-0,00001)
Questo significa che si può ottenere un’ottima approssimazione di π in questo modo
[(π/ɸ) – 1/(π/ɸ)]4 – 1 = 3,141696.. ≈ π = 3,141592..Questa sembra una relazione davvero molto importante, dato che da (π/ɸ) + 1/(π/ɸ) possiamo ottenere un’ottima approssimazione di quel numero da cui, facendone la radice usando come esponente il numero stesso, si può ricavare ħ (il numero esatto lo abbiamo ricavato in The Snefru Code parte 10 dalle misure della Camera del Re)
16√(π/ɸ) + 1/(π/ɸ) = 16√2,456647.. = 1,057782..
1,0577826152578919375983927695469√1,0577826152578919375983927695469 = 1,054541.. ≈ ħ = 1,054571..
Da ultimo lasciamo una cosa che ha un rilievo più storico che intrinsecamente matematico, dato che troviamo un’intima relazione fra π e ɸ in un numero che è diventato famoso per dei motivi che poco hanno a che fare con la matematica, vale a dire il biblico Numero della Bestia, il famigerato 666. Come abbiamo visto abbondantemente nei lavori precedenti, questo numero – con ogni probabilità – allude fra l’altro al 6 virgola 6 periodico. Ebbene, se facciamo la radice 64sima di questa cifra otteniamo un’approssimazione che sfiora quasi la perfezione del rapporto fra 2ɸ e π. Un rapporto che abbiamo visto anche poco sopra, ma che abbiamo trattato in modo ben più approfondito nei lavori precedenti, fra l’altro, anche in relazione alla struttura dell’atomo. Infatti
64√6,666.. = 1,030086.. ≈ 2ɸ/π = 1,030072.. (+0,000014)
Dalla radice nona del Numero della Bestia si può ricavare una buona approssimazione di ɸ, dato che
(9√6,666..)/2 = 1,2346544.. : 2 = 0,617327.. ≈ 1/ɸ = 0,618033..
Anche l’approssimazione di π che possiamo ricavare da queste due equazioni è abbastanza buona
{2 x [1 + (9√6,666.. : 2)]} : 65√6,666.. = {2 x [1 + (1,2346544.. : 2 )]} : 1,029616.. =
= [2 x (1 + 0,617327..)] : 1,029616.. = (2 x 1,617327..) : 1,029616.. = 3,234654 : 1,029616.. = 3,14161.. ≈ π = 3,1415..
Inoltre, dal Numero della Bestia possiamo ricavare anche un’ottima approssimazione di π/c, dato che
(81√6,666..)2 = 1,02369766..2 = 1,047956.. ≈ π/c = 1,047922..
13. A conclusione di questa lunga sequenza di equazioni sembra che sia legittimo ipotizzare che un certo tipo di problemi delle nostre teorie fisiche, che ci paiono di natura strettamente empirica, potrebbero invece avere dei risvolti astratti, di tipo filosofico, che finora non avevamo sospettato. Vi sono delle persone che pensano di aver dimostrato che è impossibile giungere a una teoria dei campi unificati, a causa dei paradossi puramente matematici che sono riusciti a individuare nelle nostre teorie empiriche. Ma forse questi paradossi non sono così assoluti come crediamo. Forse dipendono dalle forme logiche che usiamo per la costruzione matematica del mondo e dal nostro approccio filosofico, che, senza che nemmeno ce ne avvediamo, costringono le nostre indagini empiriche in una direzione che poi ci porta a un vicolo cieco. Forse, se cominciassimo a pensare alla scienza e dunque alla realtà empirica in modo diverso da come facciamo adesso, potrebbero affacciarsi delle ipotesi di soluzione che in questo momento ci risultano inimmaginabili e dunque anche inaccessibili.
In effetti, un certo genere di paradossi empirico-matematici esisterebbero ancora in una formula in cui tutti i valori costanti sono generati dallo stesso numero, ovvero dal numero di Cheope? Il mondo empirico, ricostruito matematicamente in questo modo, ci apparirebbe ancora lo stesso? Le nostre ipotesi di soluzione dei problemi prenderebbero la direzione che prendono adesso?
Noi crediamo di no.
Dunque, conviene forse proseguire in questa che, dopo quel cha abbiamo visto, non possiamo più considerare come un’elucubrazione astratta, ma una concreta ipotesi di lavoro. Nelle prossime pagine ci accingiamo a mostrare come tutte le formule della nostra fisica, si possono ricostruire come funzioni di π e di ɸ, di 10 e del numero di Eulero. Raggiungeremo così la consapevolezza pratica che non c’è alcuna costante che non si possa in qualche modo trasformare in una funzione di π e ɸ, di 10 e del numero di Eulero. Ma siccome si possono far derivare π e ɸ dallo stesso numero, allora noi potremmo far derivare tutte le formule della nostra fisica (o almeno: buona parte di esse) da questo stesso numero. Dunque, noi abbiamo in questo modo la possibilità tangibile e concreta di costruire una fisica che, almeno dal punto di vista della forma matematica, non ha più nulla in comune con quella a cui siamo stati abituati fino ad ora.
Una cosa di questo genere può apparire sulle prime come un banale mutamento nel formalismo matematico. Ma Maxwell ci ha insegnato che dietro “un mero formalismo matematico” si possono nascondere forze della natura di cui, prima della nuova formulazione matematica, nessuno poteva forse nemmeno immaginare l’esistenza.
14. Comunque sia, la prima e più ovvia conseguenza di questo nuovo modo di procedere nella costruzione matematica del mondo empirico, è che a fondamento di questa che possiamo chiamare “la teoria dei campi unificati Antico Egizia” non compare una forza empiricamente riscontrabile e misurabile. Una forza empirica come tutte le altre dunque, ma che, per qualche oscuro motivo, risulta più sostanziale di tutte le altre. Al contrario, in ossequio alla visione religioso-filosofica dell’Antico Egitto – il monofisismo – l’entità unitaria che sta alla base della teoria non è riducibile all’empiria: si tratta invece di una sorta di emanazione divina che costituisce l’essenza nascosta e non empiricamente riscontrabile di ognuna delle forze che vediamo operare nella natura. Il simbolo di questa forza (non la sua descrizione) è forse proprio quel numero che abbiamo visto sopra, il numero di Cheope (o la sezione aurea del 3, da cui si può ricostruire il 10 con la formula 3/ɸ + (1 + 3/ɸ)2) .
Tale forza fondamentale – essendo trascendente – non si risolve né in ognuna né nella totalità di quelle immanenti, perché la sua essenza si trova al di là di ciò che è matematicamente esprimibile. Questo fa sì che essa sia radicalmente distinta da tutto ciò che è empiricamente osservabile. Essa dunque, con nomi che sono stati per esempio Atum, o Ra, è stata oggetto di venerazione e di fede, ma non di indagine o descrizione empirica.
Quello che l’indagine empirica può scoprire, quello di cui si occupa, sono solo manifestazioni di questa forza originaria, non mai la forza stessa. Essa si manifesta come spazio, tempo, velocità, massa, carica elettrica, interazione debole e forte, e ognuna di queste manifestazioni può trasformarsi nell’altra. Però, noi non siamo in grado di, per così dire, vedere in faccia questa forza, come non siamo in grado di vedere in faccia Dio. Possiamo solo intuire di quel che si tratti, quasi per via mistica, ma non possiamo pretendere di definirla. E le basi dell’intuizione sono quelle che ci apprestiamo ad analizzare qui di seguito, ripercorrendo in modo più dettagliato e profondo quello stesso territorio teorico che abbiamo cominciato a esplorare in The Snefru Code parte 3 e parte 7.
parte 2: LE INTERNE RELAZIONI ARMONICHE FRA LE COSTANTI FISICHE RIGUARDANTI L’ATOMO E IL LORO FONDAMENTO MATEMATICO SU FUNZIONI DI PI GRECO E DEL NUMERO D’ORO DI 10 E DEL NUMERO DI EULERO
1. Forse, il miglior modo per proseguire nella nostra indagine è quello di riprendere in mano e di approfondire alcuni rapporti fra costanti fisiche fondamentali che abbiamo già in parte analizzato, ma di cui forse non avevamo fino in fondo perscrutato il complesso significato matematico. Un significato che corrisponde a quella che possiamo definire come la loro posizione e il loro ruolo in quella che davvero sembra configurarsi come una quasi mirabilmente complessa struttura armonica. Possiamo partire dal raggio classico di protone ed elettrone. Il raggio classico del protone rp è pari a
rp = 1,535.. × 10-18 m,
Quello dell’elettrone re è pari a
re = 2,8179403267.. x 10-15 m.
Il rapporto fra queste lunghezze (escluse le potenze del 10) è pari a
rp/re = 1,535 : 2,817940367 = 0,54472408….
In prima istanza, possiamo notare che questo numero, elevato alla potenza di sé stesso, ci da un risultato straordinariamente simile al numero di Eulero meno 2. Il che significa che – almeno in via ipotetica – potremmo considerare e – 2 = 0,7182818.. come un limite di variazione del rapporto rp/re (gli altri li vedremo in seguito). Infatti
0,54472408..0,54472408.. = 0,7182721.. ≈ e – 2 = 0,7182818..
Questo risultato sembra confermare quel che abbiamo ipotizzato nella parte introduttiva. Ovvero che le costanti della nostra fisica nascondono una profonda tessitura matematica, fondata però su delle forme logiche che fino ad adesso ci sono restate quasi del tutto sconosciute. Queste forme logiche si affacciano in procedure come quelle che abbiamo visto sopra, o nella prima parte: numeri elevati alla potenza di sé stessi, numeri sommati o sottratti al loro inverso, radici che hanno come esponente il numero di cui si fa la radice, etc. In questo modo scopriamo relazioni insospettabili. Per esempio, che se sottraiamo π e πCheope alle approssimazioni di h e di G che vediamo qui sotto, otteniamo il doppio di quei numeri che, elevati alla potenza di sé stessi, ci danno rispettivamente ɸ2 e il numero di Eulero
[(6,62 – π) : 2] [(6,62 – π) : 2] = 1,73920367320510338076867830836021,7392036732051033807686783083602 == 2,6182937.. ≈ ɸ2 = 2,618033..
[(6,669302.. – πCheope) : 2] [(6,669302.. – πCheope) : 2] = 1,763222428571428..1,763222428.. = 2,71828.. = eInvece, se eleviamo la costante di Planck alla potenza di sé stessa, scopriamo che la sua radice 32sima è praticamente identica alla radice cubica di 2ɸCheope
32√6,6266,626 = 32√276447,06625285871975968954540358 = 1,4792799.. ≈ 3√2ɸCheope = 1,479297..
Questi casi appaiono davvero molto rilevanti. Ma non sono gli unici. Per esempio la costante dielettrica del vuoto – ɛ0 – come anche quella della permettività elettrica del vuoto – μ0 – si possono derivare facilmente dal 10 e da due varianti della sezione aurea del 3, entrambe ricavate da ɸCheope
10 – 3/(ɸCheope + 1) = 10 – 3/(1,61859034 + 1) = 10 – 1,145898.. = 8,8543.. ≈ ɛ0 = 8,8544..
10 – (3/ɸCheope2)16 = 10 – (3/2,6198346..)16 = 10 – 8,7409.. = 1,2590.. ≈ μ0 = 1,2566..
È da notare il fatto che in questo secondo caso avremmo potuto ricavare la costante anche dal Numero della Bestia, nel modo che vediamo sotto
10 – (14√6,666..)16= 10 – 8,7419.. = 1,2580.. ≈ μ0 = 1,2566..
E qui possiamo notare che dal Numero della Bestia è possibile ricavare un’ottima approssimazione di ɸCheope, e del prodotto πɸ
√[1 : (14√6,666.. : 3)] = √[1 : (1,145119009.. : 3)] = √[1 : (1,145119009.. : 3)] = √(1 : 0,3817063..) =
= √2,619815.. = 1,61858426.. ≈ ɸCheope = 1,61859034.. (-0,00000608)
(14√6,666..)12 = 1,145119009..12 = 5,08402.. ≈ πɸ = 5,083203.. (+0,000817)
Inoltre, pare una cosa molto notevole che il rapporto fra 3/ɸCheope e il valore caratteristico della carica unitaria cu = 1,6022 corrisponda in modo praticamente perfetto a quello fra πCheope e il numero di Eulero
(3/ɸCheope)/cu = (3 : 1,61859034) : 1,6022 = 1,853464.. : 1,6022 = 1,15682.. ≈ πCheope/e = 1,15619..
In casi come questi, visto che i numeri che troviamo sono approssimati – sia pur di poco – siamo inclini a trattare i risultati che otteniamo come coincidenze da nulla, posto che li prendiamo in sia pur minima considerazione. Ma nella prima parte abbiamo ben visto che il 10 si può ottenere da un numero (3/ɸ) che differisce di soli 4 milionesimi da quello che elevato alla potenza di sé stesso ci da π. Non potrebbe voler dire questo che anche le costanti della fisica si possono derivare da certi numeri particolari, a cui si aggiunge e si toglie un certo margine dovuto al principio di indeterminazione? G, h, μ0 ed ɛ0 sono fra le costanti fisiche più importanti, e per esse questa regola pare valere in pieno. E, quanto alla velocità della luce, non abbiamo già dimostrato in The Snefru Code parte 10 che si può ricavare la costante da una funzione di ɸ?
Nel caso che stiamo analizzando, l’ipotesi di una struttura armonica sembra dimostrata anche dal fatto che il rapporto rp/re – elevato al cubo – ci da un risultato altrettanto o forse ancor più interessante che se elevato alla potenza di sé stesso. Infatti in questo modo otteniamo un risultato molto vicino alla lunghezza di Planck divisa per 10 (la lunghezza di Planck è la distanza più piccola che si possa descrivere, sotto la quale il concetto di dimensione perde ogni significato fisico: il suo valore corrisponde a 1,616252.. × 10-35 metri)
0,54472408..3 = 0,1616328.. ≈ ℓp/10 = 0,1616252..
In questo modo, sembra emergere una relazione di interna proporzionalità fra il raggio classico di due costituenti dell’atomo e quello che potremmo forse definire un quanto minimo di spazio, anche se per ricostruirla abbiamo escluso le potenze del 10.
Ma, appunto, la nostra ipotesi di lavoro è proprio che anche il 10 e le sue potenze – oltre che le sue funzioni – facciano parte di questa che possiamo definire come una “armonia numerologica” che soggiace a quei valori che, quasi come punte di un iceberg, emergono come le cifre che caratterizzano la struttura dell’atomo.
E uno dei ruoli che il 10 sembra giocare in quest’armonia è quello appunto di poter – diciamo così – accorciare le distanze e rendere visibile la proporzione fra i numeri che caratterizzano in modo unico tale struttura (in effetti, le nostre costanti sembrano poter essere descritte come il prodotto di un numero caratteristico (come, per esempio, 2,9979246) e del 10 elevato a una potenza variabile)
Il raggio dell’elettrone risulta re = 2,8179403267.. x 10-15 m, mentre la lunghezza di Planck si trova in un ordine due volte e un terzo inferiore, dato che in questo caso abbiamo un 1,616252 × 10-35. Se scrivessimo i numeri senza utilizzare le potenze del dieci le loro relazioni interne tenderebbero a perdere di significato, o, almeno: il loro significato diventerebbe più difficilmente percettibile. In altri casi, come vedremo, possiamo fare in modo che il numero caratteristico della costante venga fuori con la virgola spostata – diciamo così – avanti o indietro di qualche posto. Questo, a sua volta, rende possibile individuare altre relazioni che altrimenti sfuggirebbero del tutto alla nostra attenzione.
2. D’altra parte, occorre notare che, trattando le costanti come un tutt’uno, sarebbero diventati molto più difficilmente percettibili anche quei rapporti armonici fra le potenze del 10, che, almeno in alcuni casi, non sembrano meno rilevanti di quelli riguardanti il numero caratteristico (quello che rimane escludendo il 10 e le potenze del 10). Infatti, abbiamo visto che in questo caso, mentre la potenza che caratterizza la lunghezza di Planck è pari a -35, quella che caratterizza il raggio classico dell’elettrone è -15 e quella che caratterizza quella del protone è -18. Ma anche in questo caso, se facciamo i rapporti fra questi numeri, sembrano emergere delle buone approssimazioni di funzioni di π e ɸ. Il rapporto fra 18 e 15, per esempio, diviso per π, ci da immediatamente come risultato una funzione di ɸ, con una differenza di circa 5 milionesimi
(18 : 15) : π = 1,2 : π = 0,381971.. ≈ 1/ɸ2 = 0,381966..
Continuando a lavorare in questo modo, vediamo che questo rapporto fra 18 e 15 – apparentemente del tutto anonimo – sembra come scandito da π e da ɸ. Infatti, si nota che anche la radice quarta di 18/15 è molto simile a una funzione di π, dato che
(4√18: 15)= 4√1,2 x 3 = 1,046635.. x 3 = 3,1399.. ≈ π = 3,1415..
Fra l’altro, con l’ausilio di questa approssimazione di π, è a sua volta possibile ricavare una buona approssimazione di c = 2,9979246 nel modo che vediamo sotto
3,1399..√(3,1399.. x 10) = 2,9973673.. ≈ c = 2,9979246 ≈ π√(10π) = 2,9961089..
Se passiamo al rapporto fra il 35 e il 18 il rapporto con ɸ risulta di nuovo abbastanza immediato
(35 : 18) : π = 0,61893.. ≈ ɸCheope – 1 = 0,61859..
Qui è interessante notare che se sommiamo ɸ a quest’approssimazione di 1/ɸ che abbiamo appena ricavato, attraverso una sequenza di 4 logaritmi naturali possiamo ottenere una buona approssimazione del numero di Cheope moltiplicato per -1 (il che ci dimostra anche che il numero di Cheope ha delle connessioni anche con il 5).
Ln {Ln { Ln {Ln {[(35 : 18) : π] + ɸ}4}}} = Ln (Ln (Ln (Ln 25,0403..)) = -1,85403.. ≈ NC x -1 = -1,8541..
Anche nel caso di 35/15 il rapporto con una funzione di ɸ viene fuori in modo abbastanza immediato
4√(35 : 15) : 2 = 1,23593.. : 2 = 0,61796.. ≈ 1/ɸCheope = 0,61782..
Dunque, riguardo ai raggi classici sembra di poter dire che – oltre a quelli fra i numeri caratteristici – anche i rapporti fra le potenze del 10 sembrano scanditi – sia pure in modo approssimato – da funzioni di ɸ e di π.
3. Comunque sia, fino ad ora abbiamo preso in considerazione i rapporti fra i raggi classici di protone ed elettrone (e dunque, in un certo senso, anche quello del neutrone, che differisce di poco da quello del protone), ed abbiamo visto che sono mediati attraverso una proporzione in cui sembra entrare in gioco anche la lunghezza di Planck. Però noi sappiamo che questi qui non sono i soli elementi in gioco in quella che possiamo definire la “struttura spaziale” dell’atomo. Ve ne è anche un altro, importantissimo, che è il raggio delle orbite dell’elettrone intorno al nucleo. Perciò, se vogliamo parlare di un sistema armonico olistico, che riguarda tutto il mondo microscopico, dobbiamo prendere in considerazione anche questo valore spaziale che, come tutti i valori di qualsiasi genere che caratterizzano l’atomo, risulta quantizzato (cioè, varia per multipli di una costante fissa).
Questa costante viene chiamata “il raggio di Bohr” e la sua unità di misura corrisponde al raggio della prima orbita, quella che definisce il livello più basso di energia che possa caratterizzare l’elettrone. La prima orbita corrisponde perciò a 1bohr, che equivale a 5,292 x 10-11 metri.
Come prima cosa, possiamo notare che questo numero caratteristico si può ricostruire direttamente a partire da una funzione di ɸ, dato che
2ɸ + (√ɸ)3 = 3,236067.. + 1,272019..3 = 3,236067.. + 2,058171.. = 5,294239..
Si tenga presente che nelle tabelle che si trovano andando un po’ in giro per internet il valore di 1bohr oscilla fra i 5,292 e i 5,301 x 10-11 metri. Dunque il valore che abbiamo dedotto dalla funzione di ɸ possiamo considerarlo tranquillamente come uno dei valori scientificamente possibili e dunque scientificamente accettabili.
Ma, anche mettendo 5,292 in rapporto con la misura del raggio classico dell’elettrone troviamo una relazione con π. Infatti
3√(1bohr/re) : 2 = 3√(5,292 : 2,81777) : 2 = 3√1,87808089.. : 2 = 1,233781057.. : 2 = 0,61689.. ≈ (π/4)2 = 0,785398..2 = 0,61685.. ≈ ℓp – 1 = 0,616252..
L’approssimazione di π che possiamo ricavarne arriva a circa 1/10000, piuttosto migliore di quella che possiamo ricavare da ℓp – 1
√0,61689.. x 4 = 0,78542.. x 4 = 3,141695.. ≈ π = 3,141592.. (+0,000103)
√(ℓp – 1) x 4 = √0,616252.. x 4 = 0,785017.. x 4 = 3,14006.. ≈ π = 3,141592..
E qui è forse anche importante notare di passaggio che la costante di Boltzmann k = 1,38054 ha un simile rapporto armonico con la lunghezza di Planck, dato che
√(k – 1) = √(1,38054.. – 1) = √0,38054.. = 0,616968.. ≈ [3√(1bohr/rp)] : 2 = 0,61689.. ≈ ℓp – 1 = 1,61625.. – 1 = 0,61625.. ≈ (π/4)2 = 0,785398..2 = 0,61685..
L’approssimazione di π che possiamo ricavarne sembra parimenti molto buona
√0,616968.. x 4 = 0,7854731.. x 4 = 3,141892.. ≈ π = 3,141592.. (+0,0003)
4. Come il lettore avrà già notato, questo genere di relazione armonica – cercata e trovata – sia pure in modo approssimato – con la sottrazione di 1, è proprio quella che caratterizza in modo decisivo il numero d’oro (ɸ = 1,618033..), dato che questo numero si definisce proprio per il fatto il suo inverso e il suo quadrato conservano intatti i suoi decimali, proprio come se a un numero qualsiasi sommiamo o sottraiamo 1.
1/ɸ = ɸ – 1 = 1/1,618033.. = 0,618033..; ɸ2 = 1 + ɸ = 1,618033..2 = 1 + ɸ = 2,618033..
Come ripetiamo, ɸ è l’unico numero ad avere questa caratteristica. Le sue approssimazioni infatti si riconoscono abbastanza bene perché, quanto più sono vicine al suo valore effettivo, tanto più tendono a conservarla. Per esempio, nei precedenti lavori abbiamo visto che l’approssimazione di ɸ che si trova nella Grande Piramide (ɸCheope = 1,61859034..) conserva questa caratteristica fino ai primi due decimali. Poi comincia a perdersi, anche se la differenza è intorno al millesimo. Infatti
1/ ɸCheope = 1/1,61859034.. = 0,61782155.. ≈ 1/ɸ = 0,61803398..
ɸCheope2 = 1,61859034..2 = 2,6198346.. ≈ ɸ2 = 2,61803398..
Ma la nostra idea è proprio questa. Che il fatto che l’atomo sia caratterizzato da funzioni di ɸ, di π, di 10 e del numero di Eulero significa precisamente che certe funzioni precipue di questi numeri (per esempio il cerchio e la spirale logaritmica) tendano a perdere la loro purezza e assolutezza. In parte le possiamo ancora riconoscere, ma in parte si perdono.
La dimostrazione di questo fatto l’abbiamo vista in The Snefru Code parte 10. La Grande Piramide è stata intenzionalmente progettata in base a funzioni di tutti e quattro questi numeri. Non ostante questo, riesce a incorporarli solo con un certo grado di precisione, sia pure molto elevato. Ma non in modo perfetto.
Il seno, il coseno e la tangente dell’angolo di base – pari a 51°,817 – che è uno degli elementi che in modo decisivo caratterizzano la struttura – sono chiaramente delle funzioni di ɸ e di π. Come abbiamo visto in dettaglio in The Snefru Code parte 10, il seno è praticamente pari a π/4, la tangente a √ɸ e il coseno a 1/ɸ. Ma anche in questo caso alcuni millesimi o decimillesimi si perdono. E questa “imperfezione” dell’angolo di base della Grande Piramide sembra quasi una metafora dell’imperfezione della scienza quantitativo-matematica, i cui limiti sono metafisicamente dettati principio di indeterminazione. Un principio che, se è vero quel che abbiamo visto in The Snefru Code parte 9, risulta a sua volta parzialmente indeterminato.
In generale, già allo stato attuale delle nostre conoscenze, sembra che possiamo dire che tutti i valori costanti della fisica potrebbero essere paragonati a un puzzle fatto di pezzi di colori diversi. Nel centro di ogni pezzo, il colore è netto e ben determinato. Però, via via che ci si avvicina verso i limiti con cui si incastra con gli altri pezzi, tende a sfumare sempre di più, fino al punto di risultare del tutto indistinto.
Dunque, ragionando sillogisticamente, se è vero che
1) l’incommensurabilità di π, ɸ, 10 e numero di Eulero genera per forza di cose quegli “errori” (che forse sarebbe meglio chiamare approssimazioni) che abbiamo visto nella struttura della Grande Piramide
2) che l’atomo, proprio come la Grande Piramide, si costituisce di funzioni di ɸ, π, 10 e numero di Eulero (funzioni che il nostro modo ordinario di descrivere i fenomeni microscopici tende ad occultare)
3) allora ne viene di conseguenza che nella struttura dell’atomo si devono trovare errori o approssimazioni di funzioni di π, ɸ, di 10 e del numero di Eulero, del tutto simili a quelli che troviamo nella Grande Piramide.
In effetti, questo sembra essere precisamente quel che accade quando andiamo a calcolare i rapporti armonici fra i diversi valori costanti che descrivono l’intima struttura dell’atomo. Questi rapporti sembrano davvero funzioni di π e di ɸ, del 10 e del numero di Eulero. Si tratta però di funzioni approssimate. In esse i valori “ideali” si possono ancora riconoscere e ricostruire, ma solo in maniera indiretta e inesatta.
5. Un esempio di questa situazione lo abbiamo visto alla fine del paragrafo 2, nel caso del rapporto fra il raggio di Bohr e il raggio classico dell’elettrone. Un altro esempio lo possiamo fornire immediatamente, in relazione al raggio classico del protone rp. Oppure mettendo rp in rapporto 1bohr (cioè con il raggio della prima orbita dell’elettrone attorno al nucleo). In questo modo arriviamo di nuovo a quelle che paiono funzioni di ɸ e π. Ma, anche in questo caso, si tratta di funzioni approssimate.
Nel caso del raggio classico del protone abbiamo che
√rp = √1,535 = 1,23895.. ≈ 2/ɸ = 1,23606.. (+0,00288)
La superficie del cerchio connesso con il raggio classico del protone va molto vicina a e2
√(π1,5352) = √(π2,356225) = √7,402299.. = 2,720716.. ≈ e = 2,718281..
Ciò significa che possiamo ricavare un’ottima approssimazione del raggio classico del protone direttamente dal numero di Eulero in questo modo
√(e2/π) = √(7,389056.. : π) = √2,3520096.. = 1,5336.. ≈ rp = 1,535
Ugualmente, mettendo in rapporto 1bohr con rp nel modo che vediamo sotto, possiamo arrivare a un’approssimazione di una funzione del prodotto di π per ɸ
(1bohr : rp2)2 = (5,292 : 1,5352)2 = 5,04436.. ≈ πɸ = 5,0832
Però c’è da notare che, con il rapporto che abbiamo istituito sopra, il valore a cui andiamo più vicini è quello che possiamo ricavare da una funzione del numero di Eulero e di ɸ, cioè eɸ. In questo caso la differenza è di circa 1/1000
eɸ = 2,718281828..1,618033.. = 5,043165.. ≈ (1bohr : rp2)2 = 5,04436..
6. Quindi, anche in questo caso, la nostra ipotesi di lavoro (ovvero che i rapporti fra tutte le costanti che determinano la struttura dell’atomo siano fondate su funzioni di ɸ, π, 10 e del numero di Eulero) sembra verificata. Fra l’altro, l’interesse di questa proporzione è rafforzato dal fatto che essa sembra riguardare da vicino anche la costante di Planck h così come viene calcolata oggi, vale a dire 6,626 x 10-34 joule x sec. Naturalmente, potremo anche scrivere 662,6 x 10-36. E, a questo punto, ci renderemmo conto che la radice quarta della costante (escluso 10-36) ci porta molto vicini al prodotto di π per ɸ, dato che
4√662,6 = 5,07356.. ≈ πɸ = 5,0832 ≈ 1bohr : rp = (5,292 : 1,5352)2 = 5,04436..
Questa è una cosa che vale anche per la costante G e – lo accenniamo di passaggio – anche per il Numero della Bestia (da cui in The Snefru Code abbiamo ricavato sia G sia h per mezzo di una funzione di ɸ), dato che
4√667 = 5,0819.. ≈ πɸ = 5,0832 ≈ 1bohr : rp2 = (5,292 : 1,5352)2 = 5,04436.. ≈ 4√666 = 5,08005..
Questi risultati che abbiamo ottenuto sembrano, almeno di primo acchito, molto interessanti. Ma ancora non ci è chiaro quale possa esserne il significato fisico. Un’ipotesi di interpretazione potrebbe essere questa: che le funzioni di π, ɸ, 10 e del numero di Eulero che abbiamo costruito, costituiscano qualcosa come dei limiti ideali nel rapporto fra il raggio classico del protone e prima orbita dell’elettrone. Un rapporto che, a causa del principio di indeterminazione, può essere considerato come una variabile: e forse, quelle funzioni che abbiamo stabilito rappresentano qualcosa come un limite massimo o minimo di questa variabilità. Un limite che potremmo provare a definire in questo modo
eɸ ≤ (1bohr : rp2)2 ≤ πɸ
Lo ripetiamo ancora una volta: questa è solo un’ipotesi di lavoro fatta nel corso di un’indagine di filosofia della scienza totalmente astratta. O, come potremmo dire: di un esperimento di pensiero che in ogni momento minaccia di oltrepassare i limiti della plausibilità. Quindi il lettore deve aver presente che non è chiaro se un fisico professionista, immerso in un rapporto quotidiano con una prassi che con queste nostre elucubrazioni teoriche non ha nulla a che fare, prenderebbe minimamente sul serio quel che andiamo facendo in queste pagine.
7. Comunque sia, ci rendiamo conto che l’analisi dei rapporti fra il raggio classico di elettrone e protone e la misura della prima orbita, non è ancora conclusa. È, come prima cosa, notiamo che ci manca di dare un’occhiata ai rapporti che caratterizzano la successione delle potenze del 10 (-11, -15, -18) che a loro volta caratterizzano il raggio di Bohr, il raggio classico dell’elettrone e quello del protone. Anche in questo caso, la successione di questi numeri sembra scandire qualcosa come un ritmo geometrico caratteristico. Più evidente appare il caso del rapporto fra il 18 e l’11, dato che sembra andare vicino in modo abbastanza immediato al numero d’oro
18 : 11 = 1,636363.. ≈ ɸ = 1,618033..; 11 : 18 = 0,61111.. ≈ 1/ɸ = 0,618033..
Nel caso dei 15/11 il rapporto sembra andare vicino al numero di Eulero e = 2,718281828..
15 : 11 = 1,363636.. ≈ e/2 = 1,3591409..
Forse, a essere significativo in relazione al numero d’oro, potrebbe essere il prodotto di queste cifre, dato che
24√15 x 11 = 1,23707.. ≈ 2/ɸ = 1,23606..
Anche la somma porta a dei risultati interessanti
1/[4√(15 + 11)]/π = 1/[(4√26)/π] = 1/(5,099../π) = 1/1,62306.. = 0,616117.. ≈ ℓp – 1 = 0,616252
8. Ci rendiamo conto che questo tipo di elaborazione matematica potrebbe essere interpretato in vari modi. Forse ci saranno molte persone che lo reputeranno una ricostruzione del tutto artificiosa e forzata di relazioni che non nascondono nulla di più di quel che vi si voglia ricavare. Altri le vedranno forse come un mero caso, oppure come un dettaglio insignificante: gli argomenti che si possono portare a favore di queste tesi sono da considerarsi – e quasi a priori – come ben fondati.
Tutti sappiamo infatti che la matematica è fatta in modo tale da consentire ogni sorta di rapporto e dunque ogni sorta di speculazione, quando non sia – per così dire – legata mani e piedi alla realtà sperimentale. Alla fine, qualsiasi numero può essere interpretato come il risultato di un numero potenzialmente infinito di equazioni. E questo vuol dire che a qualsiasi insieme di casualità si può attribuire – volendo – una razionalità di tipo matematico, che però si rivela ben presto del tutto illusoria.
Ma, naturalmente, questa non è la nostra interpretazione, e nemmeno ci sembra un’interpretazione davvero plausibile, vista la quantità e la qualità del materiale che abbiamo elaborato nel corso di questo lavoro. Tutto quel sistema di congruenze che abbiamo registrato già a livello grafico fra il diagramma di alcuni atomi e quello dello spaziotempo di Fappalà, non meno che fra il diagramma di Fappalà e le forme dell’arte sacra Antico Egizia – la Grande Piramide in particolare – sembrano non lasciar adito a dubbi: qui non siamo in presenza di un sistema di coincidenze.
Al contrario, a noi sembra abbastanza chiaro che l’elaborazione matematica che abbiamo condotto quanto ai valori costanti riguardanti le proprietà – diciamo così – spaziali dell’atomo, abbia evidenziato quello che sembra un ritmo geometrico assolutamente caratteristico. Un ritmo geometrico che potremmo anche vedere come un’armonia, che forse fino a questo momento non è stata mai indagata direttamente (anche se qualcuno l’ha notata) a causa di un pregiudizio culturale della modernità. Un pregiudizio che possiamo riassumere nelle seguenti proposizioni
1) Il mondo si costituisce di un caos di forze che non rispondono a nessun piano intelligente: le apparenze d’ordine che possiamo riscontrare sono state a loro volta prodotte dal caso, ovvero dal Big Bang, un’esplosione originaria a cui non si può attribuire nessuna progettualità di nessun tipo.
2) Dunque, chi pensa che il mondo sia costituito sulla base dell’intelligenza è da considerarsi un perfetto idiota e/o un selvaggio superstizioso e/o una persona spiritualmente debole e incapace di sopportare le conseguenze metafisiche delle inquestionabili verità empiriche che la scienza moderna è riuscita ad acquisire quanto al cosmo fisico e biologico. Ovvero, la sostanziale insensatezza di un universo costituito da un caos di materia senz’altro destino che la morte termica.
Stante questo clima ideologico, nessuno scienziato serio o faceto che sia vuol rischiare la propria reputazione mettendosi a cercare una struttura empirico-armonica dell’atomo (una sorta di Dna matematico della fisica) fondata su costanti geometriche completamente astratte. Questo perché, ovviamente, una simile ipotesi di lavoro sembra presupporre che un’intelligenza ordinatrice abbia generato l’atomo – e dunque l’universo tutto: e questo è proprio quanto il pregiudizio moderno tende per principio a escludere.
Però, a quanto pare, tutti i dati che abbiamo riscontrato fino ad adesso, come quelli che ci accingiamo a riscontrare andando avanti, sembrano dar ragione agli idioti e ai selvaggi superstiziosi. Che dunque forse non sono così idioti o selvaggi e nemmeno così superstiziosi come fino ad ora si era creduto. Infatti, qui siamo al punto di poter ipotizzare, in un futuro nemmeno troppo lontano, una nuova teologia. Una nuova teologia che trova dei fondamenti oggettivi proprio nella scienza empirica e nelle strutture matematiche connesse.
9. In effetti, anche il rapporto fra il raggio classico del protone e quello dell’elettrone, da cui siamo partiti in questa disamina, sembra caratterizzato da un sistema di proporzioni che in nulla sembra lasciato al caso. All’inizio di questa seconda parte del nostro lavoro avevamo visto che
rp/re = 1,535 : 2,817940367 = 0,54472408
Ebbene, oltre ai 2 “sistemi armonici” che abbiamo già visto, noi possiamo ricostruire questo rapporto anche per mezzo di una funzione di ɸ e di 10 (qui sotto scriviamo per comodità 1/2, ma ovviamente avremmo potuto scrivere 1/2 = 5/10 = (ɸ + 1/ɸ)2/10
[1/(ɸ + 1/ɸ)]/10 + 1/2 = 0,5447213.. ≈ rp/re = 0,5447240.. (-0,0000027)Il grado di precisione cui arriviamo in questo modo è ancora superiore a quello che abbiamo visto sopra, che era già piuttosto elevato: davvero possiamo pensare che cose del genere possano essere frutto di un caso?
Lo ripetiamo: queste funzioni arrivano a ricostruire i valori stabiliti sperimentalmente in modo approssimato, cioè imperfetto. Ma la scienza moderna ha oramai accettato che una simile imperfezione sembra caratterizzare in modo metafisico quelle che chiamiamo le “scienze esatte”. Nessuna cifra che in esse compare si può arrivare a stabilirla in modo netto: tutte hanno la tendenza a sfumare sempre di più via via che aumenta il numero dei decimali.
Questo è un effetto del principio di indeterminazione, che a sua volta è soggetto a un certo grado di indeterminazione. Se ogni misura è per forze di cose inesatta e perciò relativamente indeterminata, ne viene di conseguenza che persino il suo grado di inesattezza debba essere – entro certi limiti – inesatto e indeterminato. E infatti si nota che il valore di h è storicamente mutato da un minimo di 6,55 x 10-27 erg al secondo – stabilito dallo stesso Planck agli inizi del secolo scorso – fino ai 6,626 x 10-27 erg al secondo stabilito in tempi più recenti.
Ma in The Snefru Code parte 9 avevamo visto che quello che si era considerato un errore nella determinazione della costante da parte di Planck, dovuto a degli apparati tecnici e matematici ancora imperfetti, in realtà potrebbe corrispondere al limite inferiore di un margine di oscillazione che va proprio dai 6,55 ai 6,626 x 10-27 erg al secondo.
Di fatto, andando in giro per internet, si nota che i valori delle costanti sono molto spesso un po’ diversi: a volte capita che già al secondo decimale si trovi una variazione. Ciò fa sì che nelle ricostruzioni storico-scientifiche si dica apertamente che il valore di una costante dipende in modo abbastanza importante dai criteri con cui viene calcolato. Dunque, anche in quello attualmente giudicato più “esatto” – cioè più “oggettivo” – si pensa che vi sia un certo grado di soggettività e di convenzionalità.
10. La nostra opinione è che questa oscillazione – per quanto piccola – non sia affatto un accidente, ma sia dovuta allo statuto stesso di tutte le costanti scientifiche. Esse infatti non sono valori ultimi e originari, ma bensì secondari e derivati. In aggiunta a ciò, siccome esse si costituiscono in un rapporto reciproco (al punto che già adesso molte di esse sono riconducibili a combinazioni della costante di Planck ħ, la costante di gravitazione universale G, la velocità della luce nel vuoto c, la costante dielettrica del vuoto ε0, e la carica elementare e) questo significa che sono soggette non solo a un certo grado di indeterminazione generica, ma anche a un certo grado di – diciamo così –indeterminazione reciproca. Il che, a sua volta, significa che il valore di una costante dipende dal modo con cui abbiamo determinato quella che a sua volta contribuisce a determinarla.
Dovendo rappresentare questa situazione in modo poetico potremmo dire che, per esempio, tutte le costanti che hanno a che fare con l’atomo compongono una sorta di puzzle, in cui però il punto di incastro fra i diversi pezzi non si può individuare in modo esatto. Perciò esse tendono, per così dire, a sconfinare l’una nell’altra. E un altro indizio della possibile corrispondenza con i fatti di questa ipotesi lo possiamo trovare nel fatto che il rapporto fra il valore della costante di Planck stabilito da Planck stesso all’inizio del secolo e quello attualmente in uso corrisponde di nuovo in modo praticamente esatto a una funzione di π (che a sua volta, ovviamente, corrisponde a quella relazione trigonometrica che abbiamo visto in The Snefru Code parte 9). Infatti
(6,626/6,55)4 = 1,011603..4 = 1,047226.. ≈ π/3 = 1,047197.. (+0,000029)
Di fatto, l’approssimazione di π che possiamo ricavare da 6,626/6,55 è
(6,626/6,55)4 x 3 = 3,141678.. ≈ π = 3,141592.. (+0,00008614283)
Curiosamente, persino l’errore registrato sembra avere a che fare in qualche modo con π, dato che
16√8,6142837525599425941313488548201e-5 x 105 = 1,144066.. ≈ Ln π = 1,144729..
L’approssimazione di π che possiamo ricavarne è piuttosto buona
e1,144066.. = 3,1395.. ≈ π = 3,1415..
Una volta che ci rendiamo conto di relazioni di questo genere, ci sarebbe qualcuno disposto a stupirsi del fatto che il risultato del rapporto fra valore massimo e minimo della costante di Planck possa oscillare – diciamo così, tanto per fare ipotesi – fra la funzione di π e – supponiamo – una di √10?
11. Certo, ci rendiamo conto che l’esperimento di pensiero che stiamo portando avanti appare alla mentalità moderna non è chiaro se più temerario, vertiginoso o – semplicemente – del tutto stupido. Che il mondo si costituisca – o addirittura sia stato generato – come sta scritto nell’Antico Testamento – “da numero e misura”. Che l’immane molteplicità dei fenomeni con cui siamo in contatto tutti i giorni sia quasi come un tappeto visto al contrario, quasi il confuso rovescio di una tessitura armonica profonda, perfetta, che tutti segretamente li produce: come possiamo credere una cosa del genere? Come anche solo provarsi a ipotizzarla, in un mondo scientifico ove la credenza più diffusa è che l’ordine sia un sottoprodotto casuale del caos?
Al contrario, una tessitura armonica come quella che abbiamo ipotizzato (ma in parte anche mostrato) presuppone una mente creatrice, ovvero un’intelligenza divina che opera sulla base di una geometria pura, astratta, che poi si può riscontrare nella realtà empirica come in uno specchio. Ebbene, tutto questo può sembrare una sfida al senso comune, alla ragionevolezza scientifica, alla cosiddetta “modernità” (strana definizione questa per un’epoca storica, dato che per essere moderni, come sottolineò acutamente José Louis Borges, basta essere vivi).
Ma allora cosa dobbiamo dire, quando ci rendiamo conto che un simile rapporto di proporzionalità – un simile rapporto armonico– lo possiamo scoprire anche nella relazione fra la massa del protone mp e quella fra i due raggi classici di protone ed elettrone? Infatti
(2 rp/re)6 = (2 x 0,54472408…)6 = 1,08944816..6 = 1,672012.. ≈ mp = 1,6725
D’altra parte, possiamo notare che il doppio del rapporto fra il raggio classico del protone e quello dell’elettrone (2rp/re) è praticamente identico al rapporto che esiste fra la massa del protone e il suo raggio classico, dato che
2rp/re = 2 x 0,54472408.. = 1,089448.. ≈ mp/rp = 1,6725 : 1,535 = 1,089576..
Se invece moltiplichiamo la massa dell’elettrone me per il rapporto fra il raggio classico di protone ed elettrone elevato al quadrato, ecco che troviamo di nuovo un’approssimazione del numero di Eulero
me x (rp/re)2 = 9,1091.. x 0,54472408..2 = 9,1091.. x 0,29672432333.. = 2,702891.. ≈ e = 2,71828..
D’altra parte, se facciamo per 4 volte l’inverso del logaritmo naturale di rp/re e facciamo la radice del risultato diviso per 2 ci troviamo di nuovo di fronte a una sorpresa. Una di quelle che lasciano senza fiato
√{[inv. Ln(inv. Ln (inv. Ln (inv. Ln 0,54472408..)))] : 2} = √(2,22414259.. e+118 : 2) =
= √1,11207129..e+118 = 1,054547.. e+59 ≈ ħ x 1059 = 1,054571.. x 1059
Perfino la potenza del 10 che vediamo sopra, 59, è un numero molto speciale. Infatti, se lo consideriamo numerologicamente come un angolo, scopriamo che la sua tangente è praticamente identica alla sua radice ottava
tg 59° = 1,66427.. ≈ 8√59 = 1,66477.. (-0,0005)
Un altro aspetto interessante di questo angolo è che se prendiamo la sua radice ottava, togliamo 1 e la moltiplichiamo per -1 possiamo ottenere la massa del protone in questo modo
inv. Ln(inv. Ln 8√59 – 1) x -1 = inv. Ln (inv. Ln -0,664778..) = 1,672613.. ≈ mp = 1,6726
Da notare che un angolo di poco più di 2 centesimi di grado superiore ha una tangente che ci ricorda da vicino quell’approssimazione del numero di Cheope che è la sezione aurea del 3
tg x = [1 + (3/ɸ)/10]3 = 1,185401966..3 = 1,665735..; x = 59°,0221112..;
Se andiamo a vedere l’angolo di circa 14 millesimi di grado superiore scopriamo che la sua tangente è ancora più caratteristica, dato che essa è precisamente la costante che ci serve per passare dai sessantesimi ai centesimi di grado. Da suo coseno possiamo ricavare tanto una buona approssimazione di ɸCheope, che della lunghezza di Planck, che della massa del protone.
x = 59°,0362434..; tg 59°,0362434.. = 10/6; cos 59°,0362434.. = 0,51449575..
(1/0,514495..) : π = 0,61868321.. ≈ ɸCheope – 1 = 0,61859034..
1/[(1/0,514495..) : π] = 1/0,61868321.. = 1,616336.. ≈ ℓp = 1,616252..
e0,5144957554275265121359546656657 = 1,672794.. ≈ mp = 1,6726 ≈ inv. Ln [1/πCheope (ɸCheope – 1)] = 1,67257
Notiamo di passaggio che una buona approssimazione di c = 2,9979246 può essere ottenuta proprio a partire da πCheope = 22/7 nel modo che segue
(πCheope – Ln πCheope) + 1 = 3,142857.. – 1,1451323.. + 1 = 2,9977248.. ≈ c = 2,9979246
12. In pratica, già a questo punto sembra che possiamo affermare che fra valori costanti che costituiscono la struttura dell’atomo vi sia un rapporto di intima proporzionalità, che trova costantemente un parallelo in relazioni trigonometriche. Essi sembrano rimandare l’uno all’altro, includersi l’uno nell’altro in quella che appare una trama inestricabile di rapporti armonici, alla cui base vi sono ɸ, π, il 10 e il numero di Eulero. Quella che mostriamo adesso può apparire solo una curiosità, ma – sottoposta ad ulteriori analisi – sembra confermare quello che finora abbiamo visto. Il punto di partenza del ragionamento consiste nel fatto che se aggiungiamo 6/10 a rp/re troviamo un’ottima approssimazione del logaritmo naturale di π
rp/re + 6/10 = 0,54472408.. + 0,6 = 1,14472408.. ≈ Ln π = 1,14472988.. (-0,0000058)
L’aggiunta di 0,6 può apparire sul momento del tutto arbitraria ed estemporanea: e forse lo è davvero. Forse qui abbiamo davvero a che fare con qualcosa come l’effetto di un puro caso. Però, in un primo senso, possiamo notare che 0,6 (e anche il suo inverso, cioè 1,6666..) è il valore che ci serve per trasformare i centesimi di grado in sessantesimi di grado (100/60). Ma in The Snefru Code parte 3, 7, 9 e 10 abbiamo abbondantemente dimostrato come nell’antichità si usassero codificare importanti nozioni scientifiche in quel sistema trigonometrico che ancora oggi utilizziamo, e che crediamo di origine babilonese. E, come forse c’era da aspettarsi, questo valore particolare – che ha un ruolo unico in questo sistema – anche come seno di un angolo assume dei connotati che paiono del tutto unici.
Infatti, se prendiamo 0,6 e lo interpretiamo come un seno, ecco che ci rendiamo conto che anche il coseno e la tangente prendono la forma di decimali finiti.
sin x = 0,6
x = 36°,869897645844021296855612559093 ≈ 33 + π2 = 36,869604.. (-0,000293)
cos 36°,869897645844021296855612559093 = 0,8
tg 36°,869897645844021296855612559093 = 0,75
L’aspetto forse più – diciamo così – spettacolare e scenografico di questa scoperta che abbiamo appena fatto è che l’angolo reciproco a quello di 36°,86.. sul quarto di giro (90° – 36°,86.. = 53°,13) è proprio l’angolo di base della Piramide di Chefren (che dunque, con la metà di quello della cuspide individua proprio questo punto di unicità del sistema trigonometrico in relazione al valore che serve a trasformare i centesimi di grado in sessantesimi di grado).
Inoltre, possiamo notare che questo angolo diviso per 2 (18°,43..) ha come coseno l’inverso di un’approssimazione di ħ (1/1,054092..), come seno √10/10 e come tangente 1/3. Se lo dividiamo per 4, otteniamo un angolo (9°,217..) che ha come tangente √10 – 3.
Ora, √10 – 3 sembra un numero particolarmente interessante, perché sembra legarsi in modo del tutto unico al 6. Infatti
1/√10 – 3 = 1/0,162277660168379331998893544432.. = 6,162277660168379331998893544432..
Il che, espresso in lettere, significa che
1/√10 – 3 = √10 + 3
Questo ha come ulteriore conseguenza che
(√10 + 3) – [1/(√10 – 3)] = 6
Questo nuovo numero dunque possiamo anche definirlo come quel numero da cui, sottraendo il suo inverso, possiamo ottenere 6. E il fatto che in questo modo risulti legato tanto al 10 che al 3 ci offre un’ulteriore idea dei motivi per cui il 6 fosse considerato sacro nelle culture antiche (si ricordi che 6 + 4 = 10 e che la somma fattoriale di 4 ci da a sua volta 10, dato che 4 + 3 + 2 + 1 = 10).
Con l’ausilio di 10 e 3, fra l’altro, possiamo ottenere una buona approssimazione della velocità della luce nel modo – che viene spontaneo definire quasi musicale – che vediamo sotto
{[(√10 – 3) : 10] + 3}2 – {1/{[(√10 – 3) : 10] + 3}2} = 8,9877111.. ≈ c2 = 8,9875519..
Non abbiamo un nome per questo numero. Siccome però appare connesso sia con il 10 che con la radice di 10 – che tanto sembrano importanti per la struttura dell’atomo – possiamo pensare che sia giusto dargliene uno. Lo chiameremo dunque “il numero d’argento”. Come simbolo, adotteremo la lettera dell’alfabeto greco successiva a ɸ, che sarebbe χ (pronuncia “chi”). Come valore nominale prenderemo (√10 – 3 = 0,16227766..). Le sue caratteristiche sono ancora del tutto inesplorate, però promettono di essere davvero molto interessanti. Ma non è questa la sede per analizzarle a fondo, e perciò ne elenchiamo solo alcune. Quelle che sembrano le più ovvie e le più appariscenti, e quelle che ci risulteranno utili andando avanti in questa ricerca.
Come prima cosa, osserviamo che χ mantiene intatti i decimali anche moltiplicandolo per 10, per 102, 103, etc e poi facendo l’inverso (una caratteristica comune a qualsiasi numero).
1 : [(√10 – 3) x 10] = 1 : 1,6227766016837933199889354.. = 0,616227766016837933199889354..
1 : [(√10 – 3) x 100] = 1 : 16,22776601683793319988935.. = 0,061622776601683793319988935..
1 : [(√10 – 3) x 1000] = 1 : 162,277660168379331998893.. = 0,006162277660168379331998893..
Quel che c’è di particolare riguardo al numero d’argento è che il primo dei risultati che abbiamo ottenuto sopra è praticamente identico alla lunghezza di Planck meno 1. Dunque la lunghezza di Planck – se teniamo conto del principio di indeterminazione – può essere tranquillamente considerata come il risultato dell’equazione
1 + {1 : [(√10 – 3) x 10]} = 1 + (1 : 1,6227766..) = 1,616227.. ≈ ℓp = 1,616252..
Inoltre, il terzo dei risultati che abbiamo ottenuto diviso per 2, se lo consideriamo numerologicamente come un angolo, ha come seno l’inverso di un valore costante – che finora era sfuggito all’attenzione dei ricercatori – e di cui ci occuperemo fra qualche pagina. Infatti
[(√10 – 3) x 1000] : 2 = 162,277660168379331998893 : 2 = 81°,13883008418966599944677221..1/sen 81°,13883.. = 1,012079689..
A ciò possiamo aggiungere che il valore nominale dell’angolo da cui abbiamo ricavato quello che ha per tangente χ, diviso per 6, ci da un risultato estremamente simile al logaritmo naturale di πCheope con l’aggiunta di 5. Infatti
Inv. Ln [(36,869897.. : 6) – 5] = Inv. Ln (6,14498294.. – 5) ≈ Inv. Ln 1,14498294 =
= 3,142387.. ≈ πCheope = 22/7 = 3,142857..
Invece, il doppio di questo angolo (73°,7397..) ha come tangente una frazione (28/7). Come coseno il dividendo della frazione che costituisce la tangente diviso per 102 (28/100 = 0,28). Come seno un valore (0,96) che è molto vicino all’inverso di quel valore di ħ che risulterebbe da quello di h calcolato da Planck all’inizio del secolo scorso (6,55). Dato il contesto, sembra del tutto legittimo domandarsi se questo non possa essere il valore minimo che può effettivamente assumere la costante
1/0,96 = 1,041666.. ≈ h/2π = 6,55 : 6,2831853.. = 1,042464..
I rapporti di χ con il numero di Cheope NC appaiono parimenti interessanti, come possiamo vedere qui sotto
NC : [(√10 – 3) x 10] = 1,85410596792.. : 1,622776.. = 1,142551.. ≈ πCheope – 2 = 1,142857..
Ln (Ln (1,14255.. x 102 x π) = Ln (Ln 358,9431..) = 1,77209.. ≈ √π = 1,77245..
Inoltre, il numero d’argento sembra avere una peculiare connessione con l’esagono di lato 60 e perimetro 360, dato che la radice del rapporto fra l’area e il perimetro divisa per π da un numero molto simile a 10χ. Questo esagono ha anche qualcosa a che vedere con la Grande Piramide, dato che il suo apotema corrisponde in modo numerologicamente quasi perfetto al suo angolo di base. Infatti
A = L/2 x √3 = 30√3 = 51,961.. ≈ angolo di base Grande Piramide 51°,817..
L’area dell’esagono risulta invece
(360 x 30√3) : 2 = 9353,07..
Se adesso facciamo la radice quadrata del rapporto con il perimetro e poi dividiamo il risultato per π abbiamo che
√(9353,07.. : 360) : π = √25,98.. : π = 5,097.. : π = 1,6224677 ≈ 10χ = 1,6227766.. (-0,000308)
13. Tutte queste cose che abbiamo visto paiono davvero interessanti. Esse ci ripetono per l’ennesima volta che ci sono ancora molte cose che non conosciamo quanto a dei numeri molto importanti e di cui credevamo di sapere tutto.
Per esempio, i rapporti fra π, ɸ e il 10 appaiono piuttosto profondamente intrecciati anche ad altri livelli, oltre a quelli che abbiamo già analizzato. Qui sotto possiamo vedere che un’ottima approssimazione di ɸCheope può venir fuori da una semplicissima funzione di π e 10
4√(10 – π) = 4√6,8584.. = 1,618288019.. ≈ ɸCheope = 1,61859034..
Inoltre, da quel che vedremo sotto possiamo renderci conto che il 10 deve avere un ruolo molto particolare nella trigonometria costruita sull’angolo giro diviso in 360 parti.
Per dimostrarlo, possiamo cominciare col prendere numero qualsiasi x. Se dividiamo x per 10n, con n che tende all’infinito, intendendo il risultato come un seno, scopriamo che la tangente dell’angolo corrispondente è proprio il limite della funzione x/10n.
Per renderci conto della veridicità di questa affermazione, possiamo prendere il numero d’oro. Anche in questo caso vediamo che
sen x = ɸ/1030 = 1,6180339887498948482045868343656e-30
x = 9°,2706518664087095701307718283395e-29
tg = 9°,27065.. = 1,6180339887498948482045868343656e-30 = sen 9°,27065..
Questa è l’occasione per ricordare che in The Snefru Code parte 9 avevamo scoperto che il limite della funzione x/sen x – con x che tende a 0 – è esattamente 360/2π. Ma questo limite sembra rimanere lo stesso anche nel caso di sen y = x/10n con n che tende all’infinito.
Scegliendo un n sufficientemente grande, subito si vede che il limite di questa nuova funzione sembra rimanere lo stesso di x/sen x con x che tende a 0 (è la funzione che avevamo analizzato in The Snefru Code parte 9). Infatti, riprendendo i numeri che abbiamo usato sopra (1030 è il valore più grande accettato dalla calcolatrice), pare proprio che il limite delle due funzioni rimanga lo stesso
9°,2706518664087095701307718283395e-29 : 1,6180339887498948482045868343656e-30 =
= 57°,295779513082320876798154814105 = 360/2π
L’aspetto interessante di questa funzione è che essa ci permette di trovare un punto di commensurabilità fra π e qualsiasi numero (compreso dunque il numero d’oro): una cosa che sembra molto importante, anche al di là delle conseguenze che può avere per la comprensione della trigonometria. In effetti, qui sembra che siamo in presenza di una funzione tale per cui un numero qualsiasi – conservando intatta la sua forma – diventa un mezzo per arrivare a 360/2π. Dunque anche il numero d’oro sembra trovare quel punto di commensurabilità con π che in altri casi (come nel caso del numero di Cheope) viene costantemente sfiorato senza mai essere raggiunto.
Per fare un altro esempio di questa commensurabilità, molte volte sfiorata ma mai veramente raggiunta, prendiamo l’angolo che ha per seno ɸ/10. Se andiamo a vedere il suo coseno, ci rendiamo conto che è vicinissimo – ma non identico – a π2/10
sen x = ɸ/10
x = 9°,311587462322285975013788348527
cos 9°,311587.. = 0,98682.. ≈ π2/10 = 0,986960.. ≈ 1/4√ħ = 0,9868..
Lo stesso vale nel caso della funzione che vediamo qui sotto
[(2ɸ + 1/2ɸ)/2]2 = [(3,23602.. + 0,30901..) : 2]2 = (3,54508.. : 2)2 = 1,77254.. = 3,1419.. ≈ π = 3,1415..Questo problema della commensurabilità fra ɸ e π sembra davvero molto interessante. In particolare, mentre è possibile ricavare ɸ da numeri come il 5, o il 20 etc. (il metodo più diffuso è (√5 + 1) : 2 = ɸ), sembrava invece che π non avesse a che fare con nessun numero di nessun genere. Al contrario, utilizzando la funzione che abbiamo visto sopra, sembra che diventi commensurabile con tutti. Qui però non è chiaro se ci troviamo, diciamo così, di fronte alla scoperta del secolo oppure alla bufala del millennio. Cercheremo di chiarire la situazione in un lavoro successivo.
Invece, tornando ad analizzare il numero d’argento, possiamo notare che possiede ancora una caratteristica, che ci sembra molto interessante. Se prendiamo un numero qualsiasi e lo dividiamo per 10χ e poi dividiamo il risultato ancora per il dividendo, otteniamo 10χ – 1.
(x : 10χ) : x = 10χ – 1
In particolare, se dividiamo 16 per 10χ otteniamo una buona approssimazione di π2. Se invece usiamo il 17, troviamo un’approssimazione ancora migliore di (2ɸ)2
16/10χ = 16/1,6227766.. = 9,859644.. ≈ π2 = 9,869604..
17/10χ = 17/1,6227766.. = 10,475872.. ≈ (2ɸ)2 = 10,4721359..
Sembra inoltre molto interessante anche la relazione fra ɸ e χ, che ci porta molto vicini a quella fra π e c = 2,9979246
(10χ/ɸ)16 = (1,622776601683.. : 1,618033988749..)16 = 1,00293109..16 = 1,047942.. ≈ π/c = 1,047922..
Ovviamente, vi è un numero cui, sottraendo il suo inverso, otteniamo qualsiasi numero intero. Però questi i numeri non sembrano derivare dalla radice di un numero intero, come nel caso del numero d’argento, che deriva dalla radice del 10. Questa regola sembra valere per tutti i numeri, eccetto il dell’8, come possiamo vedere qui sotto
√17 + 4 = 1/17 – 4 = 4,1231056256176605498214.. + 4 = 1/0,1231056256176605498214.. =
= 8,1231056256176605498214.. = 1/0,12310562561766054982141000534132..
E proprio in questo fatto il 6 (simbolo antichissimo di perfezione) e l’8 (simbolo antichissimo dell’infinito) sembrano mantenere la loro unicità fra i numeri interi non primi, così come 6/10 e 8/10 la mantengono in ambito trigonometrico. Né pare un caso che i numeri cui sottraendo l’inverso otteniamo 6 e 8 derivino proprio dalla radice di 10 e da quella di 17, dato che la differenza 17 – 10 = 7 ci riporta ai 7 giorni in cui il Dio della Bibbia creò il mondo.
14. Dunque, se quanto al numero cui sottraendo l’inverso si ottiene ci siamo sentiti in dovere di trovare un nome – e lo abbiamo battezzato il numero d’argento – quanto a questo nuovo numero, connesso all’8, dobbiamo fare lo stesso. Lo chiameremo perciò il numero di bronzo. Il suo simbolo sarà la lettera che nell’alfabeto greco viene dopo χ, cioè ψ (da leggersi “psi”).
Comunque sia, al termine di questa ricerca, potremmo sostenere di aver scoperto
1) che il 6 e l’8 hanno degli elementi di unicità fra i numeri interi, proprio come avevamo visto in The Snefru Code parte 9 quanto al 360. E a questo punto abbiamo una spiegazione di due fatti abbastanza importanti per la trigonometria, ovvero l’importanza che in essa rivestono due numeri come il 60 – che risulta da 360/6 – e il 45 – che risulta da 360/8.
2) oltre ciò, potremmo anche sostenere di avere ottenuto una nuova definizione del numero d’oro. Esso sarebbe quel numero cui, sottraendo il suo inverso, si ottiene 1. A differenza di questi altri due numeri (il numero d’argento e quello di bronzo) da cui sottraendo l’inverso si ottengono 6 e 8.
3) Il fatto che 6 e 8 condividano con il 360 degli elementi di unicità ci spinge a credere che anche i prodotti di questi numeri possano trattenere qualcosa di questa unicità. E – in effetti – se facciamo il rapporto 360/(6 x 8) vediamo che il risultato (7,5) è 10 volte la tangente di quell’angolo (36°,86989..) che ha per seno 0,6 e coseno 0,8. Inoltre, se prendiamo un triangolo equilatero che abbia per lato il seno di 60° (0,866025..), scopriamo che la sua altezza è esattamente pari a 0,75, ovvero pari al seno di 60° elevato al quadrato.
(sen 60°/2) x √3 = 0,433012.. x 1,73205.. = 0,75 = (sen 60°)2 = 0,8660254..2 = 0,75 = 1/(4/3) = 0,75
La trigonometria a base 360 sembra davvero una via di mezzo fra un labirinto ed un abisso. Quel che abbiamo fino ad adesso scoperto non sembra quasi nulla in relazione a quel che ancora c’è da scoprire. Si prenda per esempio quel numero che, elevato alla potenza di sé stesso, ci da 2. Questo numero è quello che vediamo sotto.
1,55961046945..1,55961046945.. = 2
Se dividiamo per 10 questo valore e lo intendiamo come un seno, abbiamo che l’angolo corrispondente è
sen x = 1,55961046945.. : 10 = 0,155961046945..; x = 8°,9725380677401097964016881357472
Ebbene, la radice del valore nominale dell’angolo corrisponde con buona approssimazione al valore di c = 2,9979246, mentre il coseno dell’angolo risulta praticamente pari a πCheope2/10
√8°,9725380677401097964016881357472 = 2,9954195.. ≈ c = 2,9979246
cos 8°,97253.. = 0,987763.. ≈ πCheope2/10 = 0,987755.. (+0,000008)
C’è inoltre un’altra cosa molto importante da osservare quanto a questo numero che elevato alla potenza di sé stesso ci da 2. Che se lo moltiplichiamo per -1 e poi facciamo per 2 volte l’inverso del logaritmo naturale, otteniamo una buona approssimazione di 2/ɸ
inv. Ln (inv. Ln -1,55961046945) = 1,23394.. ≈ 2/ɸ = 1,23606..
Una cosa simile accade con quel numero che elevato alla potenza di sé stesso ci da 3, e che vediamo qui sotto direttamente inserito nella funzione. Se facciamo per 3 volte l’inverso del logaritmo naturale di questo numero moltiplicato per -1, arriviamo a una cifra molto vicina a 2ɸ
inv. Ln (inv. Ln (inv. Ln -1,82545502292) = 3,23767.. ≈ 2ɸ = 3,23606..
Se invece passiamo a quel numero che elevato alla potenza di sé stesso ci da 4 (che sarebbe il 2), e facciamo per 3 volte l’inverso del logaritmo naturale del suo negativo, otteniamo di nuovo un risultato molto interessante
inv. Ln (inv. Ln (inv. Ln – 2) = 3,142191.. ≈ πCheope = 22/7 = 3,142857..
Questo significa che facendo per 3 volte il logaritmo naturale di π otteniamo un’ottima approssimazione di -2
Ln (Ln (Ln π)) = -2,001231639062388123217603570362
Si nota che il valore della differenza fra questa cifra e 2, moltiplicato per 103, è di nuovo molto simile a 2/ɸ
0,001231639062 x 103 = 1,231639062 ≈ 1,23606..
Inoltre, questo valore è molto simile (la differenza è -0,0000012076..) a quello che soddisfa la seguente formula
(1/x)/103 = 32√x =
= (1/0,0012328467396..)/1000 = 32√0,0012328467396.. =
811,130830… : 1000 = 0,811130830.. =
= 0,811130830.. = 0,811130830..
Abbiamo visto sopra come il 6 e l’8, pur apparendo numeri del tutto normali, sono invece numeri del tutto particolari, se posti in relazione al sistema trigonometrico a base 360: particolari quanto l’1. Quindi giova notare che 1, 6 e 8 sono anche i numeri di cui si costituiscono le prime 4 cifre del numero d’oro (1,618..).
15. Ci scusiamo con il lettore per questa che può anche essere sembrata una lunga distrazione dal nostro argomento principale. Ma purtroppo il nostro argomento principale è connesso con una forma della matematica che ci è ancora sconosciuta, e che dobbiamo scoprire via via che andiamo avanti nel lavoro. Gli strumenti dell’analisi, in questo caso, non ci sono dati: dobbiamo trovarceli strada facendo.
Comunque sia, tornando all’argomento che in questo momento di più ci interessa, vale a dire l’angolo che ha per seno 0,6, per coseno 0,8, e per tangente 0,75 possiamo dapprincipio notare che, al di là di tutto quel che abbiamo visto fino ad adesso, meno spettacolare ma enormemente più importante risulta il fatto che da quel che abbiamo appena visto possiamo trarre l’ovvia conseguenza che – nell’ambito della trigonometria – 0,8 ha possiede la particolarità speculare a 0,6, che non possiedono 0,1 – 0,2 – 0,3 – 0,4 – 0,5 – 0,7 – 0,9. E anche nel caso di 0,8 questa particolarità ha un rilievo fisico-matematico interessantissimo, dato che – come aggiungendo 0,6 a rp/re si ottiene una cifra vicinissima al logaritmo naturale di π – così sottraendo 0,8 al numero di Cheope si può ottenere la costante di Dirac ħ. Infatti
1,85410596792.. – 0,8 = 1,054105.. ≈ ħ = 1,054571..
D’altra parte, dalla tangente di quest’angolo che ha 0,6 per seno e 0,8 per coseno possiamo ricavare il numero che ci serve per trasformare l’approssimazione di ħ che abbiamo or ora calcolato nella costante gravitazionale G. Infatti
0,754 x 10 x 2 x 1,054105.. = 6,6705.. ≈ G = 6,67-6,672
Inoltre, attraverso la radice -0,8 di 0,6 possiamo ottenere un’approssimazione straordinariamente buona di ɸCheope
3√(-0,8√0,6) : 2 = 3√1,8936989.. : 2 = 1,237191.. : 2 = 0,6185958.. ≈ ɸCheope – 1 = 0,6185903
Inoltre 0,6 è una cifra che si connette con il 6 per mezzo del 10. E si nota che il 6 sembra connesso a delle proprietà matematiche che nell’antichità sono state giudicate talmente importanti che, per esempio, 6 sono i giorni impiegati da Dio per la creazione del mondo. Il 6 era parimenti connesso con l’idea di perfezione, di cui era inteso come un simbolo. Per esempio, da questo numero si possono ricavare in modo abbastanza diretto una buona approssimazione sia del numero di Cheope moltiplicato per -1, sia della lunghezza di Planck
1 : Ln (Ln (Ln 6))) = 1 : -0,539228389.. = -1,854501.. ≈ NC = 1,8541..
[1 + (1 : Ln 4√6)] : 2 = [1 + (1 : Ln 1,56508..)] : 2 = [1 + (1 : 0,447939..)] : 2 == (1 + 2,2324425..) : 2 = 3,2324425.. : 2 = 1,616221.. ≈ ℓp = 1,616252..
E qui possiamo notare che la radice della lunghezza di Planck, come peraltro quell’approssimazione che abbiamo calcolato, corrispondono in modo quasi perfetto con il quadrato della tangente dell’angolo di base della Grande Piramide (51°,817)
√ℓp = 1,271319.. ≈ tg 51°817 = 1,271549.. ≈ √{[1 + (1 : Ln 4√6)] : 2} = 1,271302..
Inoltre, dalla radice 32sima di 6 possiamo ricavare un numero molto prossimo a quello che in The Snefru Code parte 10 abbiamo ricavato dalle misure della Camera del Re, e, nelle pagine precedenti, da una funzione di π e ɸ. Ovvero quel numero di cui facendo la radice usando il numero stesso, ci da ħ
32√6√(32√6) = 1,057589..1,057589.. = 1,054370.. ≈ ħ = 1,054571..
A queste, che paiono già di per sé delle conferme della fondatezza del nostro procedimento (una fondatezza, ovviamente, limitata al nostro esperimento mentale: ricordiamo infatti che esso presuppone, fra le altre cose, che la trigonometria a base 360 sia uno specchio della struttura fisica del cosmo), su un piano numerologico, possiamo notare che 0,6 differisce di soli 18 millesimi da 1/ɸ = 0,618033: a loro volta, si nota che questi 18 millesimi potrebbero essere considerati 3x6 millesimi.
Lo ripetiamo: è del tutto legittimo trascurare queste relazioni come mere coincidenze, del tutto estrinseche ai fenomeni descritti dalle cifre di cui ci stiamo occupando. D’altra parte, esse potrebbero invece rappresentare una conferma dell’ipotesi che abbiamo fatto all’inizio di questa parte del nostro lavoro: cioè, che il rapporto fra rp/re può subire alterazioni dovute al variare di rp e/o di re a causa del principio di indeterminazione. E, a partire da ciò che abbiamo appena visto, possiamo supporre che queste alterazioni devono muoversi entro i limiti della funzione che vediamo qui sotto. In essa compare una costante trigonometrica (ovvero la costante che ci serve per passare dai centesimi ai sessantesimi di grado) e una costante geometrica (il numero d’oro)
0,6 ≤ x ≤ 1/ɸ
rp/re + x = Ln π = 1,14472988…
In altre parole, questo vuol dire che il rapporto fra il raggio classico del protone e quello dell’elettrone deve essere tale che, sommandovi un valore non minore di 0,6 e non maggiore di 1/ɸ, sia sempre pari al logaritmo naturale di π.
16. Non lo ripeteremo mai abbastanza: queste relazioni che stiamo esponendo sono il frutto di un esperimento di pensiero, non di indagini teoriche condotte da un’equipe professionisti sulla base di risultati sperimentali. Dunque, se benevolmente considerate, possono essere accolte al massimo come ipotesi di lavoro, aventi un qualche valore euristico. Oppure, possono essere del tutto legittimamente condannate come speculazioni prive di fondamento, o addirittura fuorvianti. Ovvero, come il frutto di una sorta di delirio fantamatematico, conseguenza di quello di tipo fantastorico, che vede nella Grande Piramide una proiezione architettonica di un diagramma dei campi unificati Antico Egizio.
D’altra parte, si nota che anche una relazione come quella che abbiamo stabilito sopra non sembra più così azzardata, quando ci rendiamo conto che essa sembra valere anche quando ci volgiamo alla differenza che esiste fra la massa del protone mp e la costante di Dirac ħ
mp – ħ = 1,6726.. – 1,054571688.. ≈ 0,618033..
Quindi potremmo scrivere anche in questo caso una funzione come
0,6 ≤ x ≤ 1/ɸ
x = mp – ħ
Lo abbiamo già detto altre volte, ma forse conviene ripeterlo ancora: il valore di mp che abbiamo utilizzato in questa funzione non è l’unico che si incontra andando in giro per le tabelle scientifiche che si possono trovare su internet. È però senz’altro uno di quelli possibili. Cioè, in ultima analisi, uno di quelli che si possono utilizzare in determinate circostanze, usando determinati criteri. Quindi, seguendo la nostra ipotesi di lavoro, uno di quelli che stanno entro il margine reso a sua volta possibile dal principio di indeterminazione. E, in questa misura, noi possiamo considerare quel valore che abbiamo appena usato come uno di quelli corretti (cioè di quelli che, secondo la nostra ipotesi di lavoro, stanno in un certo range, corrispondente ai margini di oscillazione della funzione che abbiamo stabilito).
Siamo disposti a riconoscere che quella che abbiamo appena esposto può essere tranquillamente considerata come una mera speculazione (che però sembra avere il considerevole pregio di poter essere falsificata, al contrario di concetti come quello di materia o energia oscura). D’altra parte, considerando la quantità di materiale che abbiamo accumulato, anche solo la mera possibilità di stabilire una relazione di tal genere potrebbe essere un ennesimo indizio della dipendenza delle costanti che descrivono l’atomo (e perciò anche tutto l’universo) da ɸ, π, il 10 e dal numero di Eulero. Numeri che starebbero alla base di un qualcosa che potremmo infine rassegnarci a battezzare con un nome molto antico: l’armonia delle sfere, di pitagorica memoria.
17. Questo sistema armonico in effetti sembra avere un significato matematico che si spinge ben al di là di quello che abbiamo potuto vedere fino ad adesso. Il rapporto da cui siamo partiti è quello che possiamo vedere ancora una volta qui sotto
rp/re = 1,535 : 2,817940367 = 0,54472408
Ma, naturalmente, avremmo potuto analizzare anche l’inverso di questo rapporto. In questo caso, è utile includere anche le potenze del 10, per dei motivi che risulteranno evidenti quasi subito
re/rp = 2,8179403267 x 10-15 : 1,535 x 10-18 = 1,835791.. x 103
Se adesso facciamo la stessa cosa con la massa del protone mp e quella dell’elettrone me abbiamo che
mp/me = (1,6725 x 10-27) : (9,1091 x 10-31) = 1,836076.. x 103 ≈ re/rp = 1,835791.. x 103
E qui possiamo notare due cose. La prima, che questo numero lo si potrebbe ricavare in modo diretto, e con buona approssimazione, direttamente dalla radice 16sima della massa del protone mp moltiplicata per 104
16√(1,6725 x 104) = 16√16725 = 1,83637..
La seconda invece, è che il rapporto fra le potenze del 10 ci riporta a π.
1 : [(31 : 27)2 – 1] = 1 : [(1,148148..)2 – 1] = 1 : (1,31824417.. – 1) = 1 : 0,31824417.. =
= 3,1422.. ≈ π = 3,1415..
In questo caso, per arrivare a π, possiamo anche far riferimento alla trigonometria
sen x = 27 : 31 = 0,87096774193548387096774193548387
x = 60°,571292823133005218369344016337
tg 60°,57129.. = 1,77263.. ≈ √π = 1,77245..
La proporzione fra il raggio classico dell’elettrone e quello del protone risulta interessante anche da un altro punto di vista. Infatti, da essa possiamo ricavare la radice di 10/6 – ovvero della costante che ci serve per passare dai centesimi ai sessantesimi di grado – nel modo che vediamo sotto
1,835791.. – 1/1,835791.. = 1,2910666.. ≈ √10/6 = 1,29099..
Invece, se elevata al cubo ci da un numero molto simile a (ɸCheope – 1) x 10.
1,835791.. 3 = 6,1868517 ≈ (ɸCheope – 1) x 10 = 6,1859034
Questo numero, moltiplicato per c = 2,9979246, ci da un numero molto simile al numero di Cheope moltiplicato per 10
6,1868517.. x 2,9979246 = 18,54771.. ≈ NC x 10 = 18,541059..
Questo genere di relazioni ci da un’idea del perché un numero come il 18 (= 6x3 = (3 + 3) x 3) possa essere stato sacralizzato da una cultura tanto appassionata di astronomia e matematica, come quella Maya. Una cosa che possiamo comprendere ancor meglio quando ci rendiamo conto che la radice di ɸ (che corrisponde in modo quasi perfetto alla tangente dell’angolo di base della Piramide di Cheope), elevata alla 12sima potenza (6x2), ci da un numero molto vicino al 18. Questo non sarebbe nulla di importante, se non fosse per il fatto che la differenza fra 18 e questo numero corrisponde a sua volta a 1/ɸ6, e se l’angolo di 18° (come i suoi multipli interi 36, 54, 72) non fosse connesso in modo immediato a funzioni di ɸ
18 – (√ɸ)24 = 0,05572809.. = 1/ɸ6
sen 18° = 1/2ɸ; cos 36° = 1/(2/ɸ); sen 54° = 1/(2/ɸ); cos 72° = 1/2ɸ;
Ma, a parte questo, come il lettore avrà notato, in questo caso la cosa veramente notevole non è la scoperta di relazioni fondate su π e su ɸ (a cui forse oramai siamo abituati). Quel che in questo caso sembra di decisiva importanza è che massa e raggio classico di protone ed elettrone (e dunque anche di elettrone e neutrone) risultano quasi esattamente l’inverso. La differenza è talmente trascurabile che possiamo tranquillamente attribuirla al principio di indeterminazione.
Potremmo dunque ipotizzare in via euristica che la massa sia inversamente proporzionale allo spazio occupato dalla carica elettrica dato che il raggio del protone risulta circa 1/1836 quello dell’elettrone.
Da questa proporzione, in The Snefru Code parte 3 e parte 7 avevamo avanzato l’ipotesi che la massa (e dunque il campo gravitazionale espresso dalla massa) possa essere considerata – per così dire – energia magnetica nello spazio. O, viceversa: che l’energia magnetica possa essere considerata come massa nello spazio. Il che potrebbe anche voler dire che, quando misuriamo la massa, in realtà stiamo trasformando la carica elettrica in massa. Oppure che, quando misuriamo la carica elettrica, stiamo trasformando la massa in carica elettrica. Ovvero: che tutti gli elementi (o: le forze) che costituiscono l’atomo possano trasformarsi l’uno nell’altro, spazio compreso.
È sul fondamento di questa ipotesi che in The Snefru Code parte 3 e parte 7 avevamo avanzato altre conclusioni, di tipo storico-tecnico, che in quel contesto erano utili per dare una prospettiva di comprensione a una gran massa di reperti archeologici, che stavamo analizzando in quella sede. Reperti archeologici che, stante l’attuale interpretazione scientifica del mondo, vanno al di là di qualsiasi ipotesi esplicativa di tipo tecnico.
Ma adesso dobbiamo trascurare questi argomenti, per quanto interessantissimi, dato che quel che ci preoccupa in questo contesto sono i rapporti armonici fra le costanti, e la loro relazione con quei numeri caratteristici che abbiamo indicato sopra (ɸ, π, 10 e il numero di Eulero). Riprenderemo in modo più vasto e approfondito nelle parti successive i rapporti fra la presente indagine e la cultura Antico Egizia.
18. Continuando la nostra indagine sui rapporti armonici fra le costanti atomiche, notiamo che dividendo per 3 il rapporto fra la massa del protone e quella dell’elettrone, otteniamo di nuovo una discreta approssimazione di ɸ. Un’approssimazione leggermente peggiore di quella che possiamo ricavare dividendo la stessa cifra per c = 2,9979246. Infatti
(mp/me)/3 = 1,836076.. : 3 = 0,612025.. ≈ 1,836076.. : 2,9979246 = 0,612449.. ≈ 1/ɸ = 0,618033..
Già a questo livello, la relazione fra mp/me e re/rp e ɸ sembra stabilita abbastanza bene. Ma ancor più sorprendente essa ci parrà se invece di scrivere questo rapporto come 1,836076.. x 103 lo scriviamo come 18,36076.. x 102. A questo punto, ci rendiamo conto che se prendiamo il numero di Eulero e lo moltiplichiamo per -1, e poi facciamo per 4 volte l’inverso del logaritmo naturale, arriviamo a un numero praticamente identico
inv. Ln (inv. Ln (inv. Ln (inv. Ln 2,7182818.. x -1)))) = 18,3600497..
Questo ci spinge ad osservare che il valore del rapporto fra i raggi classici (1,835791..), assomiglia in modo che pare assolutamente caratteristico a quel numero cui, facendo la radice usando il numero stesso nel suo valore negativo, ci da e – 2.
-1,8356765..√ 1,8356765.. = 0,718281.. = e – 2
E qui non possiamo non ricordare che il rapporto rp/re = 0,54472408.. elevato alla potenza di sé stesso ci dava proprio e – 2. Un numero dunque che si conferma alla radice della struttura spaziale dell’atomo allo stesso livello di ɸ e di π.
0,54472408..0,54472408.. = 0,7182721.. ≈ e – 2 = 0,7182818..
Dunque, a livello euristico, potremmo provare a circoscrivere i rapporti fra massa e raggio di protone ed elettrone in questo modo
inv. Ln (inv. Ln (inv. Ln (inv. Ln -e)))) x 103 ≥ mp/me ≥ re/rp ≥ (e – 2) -1,8356765.. x 103 = 1,8356765.. x 103
Questo genere di relazione armonica si estende anche alla carica unitaria (che di solito si scrive “e”, ma che in questo contesto scriveremo “cu” per non far confusione con il numero di Eulero), che corrisponde esattamente alla radice del prodotto della massa del protone mp per il raggio classico del protone rp. Un fatto questo che sembra una conferma dell’ipotesi che abbiamo avanzato sopra: cioè che in ambito microscopico possiamo immaginare che ogni elemento (compreso lo spazio) si possa trasformare in un altro.
√(mp x rp) = √(1,6725 x 1,535) = √2,5672875 = 1,6022.. ≈ cu = 1,6022..
Invece, il prodotto mp x rp elevato al quadrato ci da una buona approssimazione di un valore della costante di Planck che si colloca più o meno nel mezzo fra quello attualmente in uso e quello che fu calcolato da Planck stesso all’inizio del secolo
(mp x rp)2 = (1,6725 x 1,535)2 = 2,56728752 = 6,5909.. ≈ h = 6,626 – 6,55
Qui sembra abbastanza importante notare che – utilizzando il 10 – si può ricondurre il rapporto fra la massa e il raggio del protone a una cifra simile a ɸπ, nel modo che vediamo sotto
√[(mp x rp) x 10] = √(2,5672875 x 10) = √25,672875.. = 5,06684.. ≈ πɸ = 5,0832..
Comunque sia, se teniamo conto del principio di indeterminazione, sembra che – diciamo così – Dio abbia scelto i valori caratteristici di massa e raggio classico del protone in modo tale che la radice del loro prodotto debba essere uguale al valore della carica unitaria cu, mentre il suo quadrato debba essere uguale alla costante di Planck. La loro somma invece, corrisponde esattamente al doppio della carica unitaria.
mp + rp = 1,6726 + 1,535 = 3,2076 ≈ 2√(mp x rp) = 1,6022 x 2 = 3,2044.. ≈ 2cu = 2 x 1,6022 = 3,2044 ≈ 2ɸ = 3,23606..
Tutto quel che abbiamo visto ci consente di scrivere questa serie di equazioni, in cui si conferma che i numeri che definiscono il protone devono avere davvero qualcosa di speciale
16√(mp + rp + cu) = 16√(1,6725 + 1,535 + 1,6022) = 16√4,8097 = 1,1031444.. ≈
≈ (5 + ɸCheope)/10 = 6,61859034../10 = 1,10309839 ≈
≈ 16√3cu = 16√(3 x 1,6022) = 16√4,8066 = 1,1030999.. ≈
≈ 16√[3(3√mp x rp x cu)] = 16√[3(3√1,6725 x 1,535 x 1,6022)] = 16√(3 x 3√4,1133..) = 16√(3 x 1,60225..) = 16√4,80675.. = 1,103102
Il che, in estrema sintesi, significa che massa, carica e raggio classico del protone – escluse naturalmente le potenze del 10, stanno nella relazione che vediamo sotto
16√(mp + rp + cu) ≈ 16√[3(3√mp x rp x cu)] ≈ (5 + ɸCheope)/10 ≈ 1,1031
Dunque è del tutto probabile che gli Antichi Egizi tentassero di imitare l’intelligenza divina quando costruirono il sarcofago di Djedefre, di cui ci occuperemo anche noi fra poco.
19. Se adesso facciamo il prodotto fra la massa dell’elettrone me e il raggio classico dell’elettrone re potremmo dire di trovarci di fronte a una sorpresa, se già non sapessimo che il raggio classico e la massa di protone ed elettrone hanno un rapporto inverso. Questo significa che il risultato della radice del prodotto me x re risulta quasi identico a quello che abbiamo or ora visto nel protone dato che
√(me x re)= √(9,1091.. x 2,81777..) = √25,667348707 = 5,06629.. ≈ √[(mp x rp) x 10] = 5,06684.. ≈ πɸ = 5,0832
Una conseguenza di questa simmetria inversa fra i valori di massa e raggio classico di protone ed elettrone è che possiamo risalire alla funzione di π e ɸ caratteristica del prodotto di massa e raggio classico di protone ed elettrone per mezzo della carica elettrica unitaria cu, dato che
√(cu2 x 10) = √(1,60222 x 10) = √(2,56704484 x 10) = √25,6704484 = 5,0666 ≈ √[(mp x rp) x 10] = 5,06684.. ≈ √(me x re) = 5,06629.. ≈ πɸ = 5,0832
Inoltre, il rapporto che possiamo istituire fra la massa e il raggio classico dell’elettrone risulta immediatamente come una buona approssimazione di una funzione di ɸ. Infatti
me/re = 9,1091.. : 2,81777.. = 3,23273.. ≈ 2ɸ = 3,23606..
La differenza invece sembra situarsi in prossimità di una funzione di π, dato che
(me – re)/2 = (9,1091.. – 2,81777..) : 2 = 6,29133.. : 2 = 3,1456.. ≈ π = 3,1415..
La somma invece, in un primo senso, ci da un numero cui, facendo la radice usando come esponente il numero stesso, ci da una buona approssimazione della lunghezza di Planck
(me + re)√(me + re) = (9,1091.. + 2,81777..)√(9,1091.. + 2,81777..) = 11,92687 √11,92687 = 1,231007 ≈ 2(ℓp – 1) =
= 1,232504
In un secondo senso, se ne facciamo la radice quarta, la somma ci porta a quel numero che, elevato alla potenza di sé stesso, ci da la radice di 10
4√(me + re) = 4√(9,1091.. + 2,81777..) = 4√11,92687.. = 1,8583675842121691124625328215388
1,85836758421216911246253282153881,8583675842121691124625328215388 = 3,1633.. ≈ √10 = 3,1622.. ≈
≈ 5 – π = 1,8584073464102067615373566167205
Ritroveremo in seguito di questo numero, che pare avere una grande importanza nella struttura matematica profonda dell’atomo. Una struttura di cui fino a questo momento non avevamo neppure sospettato l’esistenza. Fra l’altro possiamo ricavare un’ottima approssimazione di questo numero anche per via trigonometrica, in un modo così splendidamente armonico che viene spontaneo di definirlo musicale. Ad esso si connette fra l’altro un’approssimazione straordinariamente buona di π. Un’approssimazione che differisce dal valore reale di soli 4 miliardesimi
tg x = [(√10 x 10) + 2] : 102 = 0,336227766..; x = 18°,584073895315399895044484206921
5 – (18,5840738953153998950444.. : 10) = 3,141592610.. ≈ π = 3,141592653.. (-0,0000000043)
Anche se includiamo nella somma e nel prodotto dei numeri caratteristici dell’elettrone anche il valore della carica unitaria, come abbiamo fatto nel caso del protone, arriviamo a dei risultati che sembrano interessanti. Infatti essi sono molto vicini a dei multipli interi del numero di Eulero e della radice di 10. Multipli interi che, per di più, sono rispettivamente il quinto e il settimo membro della serie di Fibonacci, vale a dire il 5 e il 7
(me + re + cu)/5 = (9,1091 + 2,81777 + 1,6022)/5 = 13,52907/5 = 2,705814 ≈ e = 2,71828..
(me x re x cu)/13 = (9,1091 x 2,81777 x 1,6022)/13 = 41,1242260983554/13 = 3,1634020075658 ≈ √10 = 3,162277..
L’importanza del numero di Eulero pare confermata dal fatto che sommando la sommatoria e il prodotto dei numeri caratteristici delle costanti dell’elettrone, e poi facendo la radice quarta, otteniamo di nuovo un’approssimazione di e, questa volta nettamente migliore di quella che abbiamo ricavato in precedenza
4√[(me + re + cu) + (me x re x cu)] = 4√(41,1242260983554 + 13,52907) = 4√54,6532960983554 = 2,718967.. ≈ e = 2,7182818..
Invece, sommando tutti i valori caratteristici di protone ed elettrone, compresa la carica elettrica unitaria, arriviamo ad ottenere un risultato che equivale a circa 10 volte la massa del protone
mp + me + rp + re + cu = 1,6725 + 9,1091 + 1,535 + 2,81777 + 1,6022 = 16,73657 ≈ 10mp = 16,725
Da ciò ne viene di conseguenza che se prendiamo il totale di questa somma e lo dividiamo per la massa dell’elettrone, otteniamo una cifra molto vicina a quella che determina il rapporto fra la massa del protone e quello dell’elettrone
16,73657 : 9,1091 = 1,837.. ≈ mp/me = 1,836
Se lo dividiamo per il raggio classico dell’elettrone e poi facciamo la radice troviamo una buona approssimazione al rapporto fra la massa e il raggio classico di protone ed elettrone
16,73657 : 1,535 = 10,9033.. ≈ 10mp/rp = 10,89576
Se lo dividiamo per la carica elettrica unitaria, possiamo ottenere una buona approssimazione della lunghezza di Planck
√(16,73657 : 1,6022)/2 = √10,445993 : 2 = 3,23202.. : 2 = 1,616013.. ≈ ℓp = 1,616252..
Se lo dividiamo per il raggio classico dell’elettrone e poi per π2 otteniamo la carica unitaria -1
(16,73657 : 2,81777) : π2 = 5,9396.. : π2 = 0,601812.. ≈ cu – 1 = 0,6022
Infine, sommando tutti i valori caratteristici di protone ed elettrone, ma escludendo la carica unitaria, arriviamo a ɸCheope nel modo che segue
Ln (mp + me + rp + re)/3 = Ln (1,6725 + 9,1091 + 1,535 + 2,81777)/3 = Ln 15,13437/3 =
= Ln 5,04479 = 1,61835602.. ≈ ɸCheope = 1,61859034
Anche il prodotto dei numeri caratteristici che descrivono l’atomo ha degli elementi di interesse.
mp x me x rp x re x cu = 1,6725 x 9,1091 x 1,535 x 2,81777 x 1,6022 = 105,5777116094815889775
La sua radice quarta equivale a due volte la carica unitaria
4√105,577711609481588977 = 3,20547.. ≈ 2cu = 3,2044
Questo numero equivale anche a circa due volte l’angolo che ha per tangente 1 + 1/(√10/10)
tg x = 1 + 1/(√10/10) = 1,3162277..; x = 52°,77435833..
2 x 52,77435833.. = 105,5487166.. ≈ mp x me x rp x re x cu = 105,57771
Adesso, se andiamo a vedere più in dettaglio, vediamo che il rapporto me/re corrisponde in modo quasi perfetto a due volte la lunghezza di Planck (escludendo le potenze del 10, che, come vedremo subito dopo, hanno fra di loro un rapporto molto simile a quello fra me/re, anche se meno immediato)
(me/re) : 2 = 3,23273.. x 10-16 : 2 = 1,616365.. x 10-16 ≈ ℓp = 1,616 252 × 10-35
Come abbiamo detto, in questo caso la relazione fra le potenze del 10 tende a imitare quella fra me/re. Nel senso che anche in questo caso troviamo che la loro relazione sia quasi immediatamente riconducibile a 2ɸ
(√35 : 16)3 = (√2,1875)3 = 1,4790199..3 = 3,23535.. ≈ 2ɸ = 3,23606..
Sopra, abbiamo anche osservato che la differenza fra la massa dell’elettrone e il suo raggio classico ci dava una discreta approssimazione di π. Se proviamo a moltiplicarla per l’approssimazione di ɸ che possiamo ricavare da mp + rp diviso per due, abbiamo che
[(me – re)/2] x [(mp + rp) : 2] = 3,1456.. x (3,2076 : 2) = 3,1456.. x 1,6038 = 5,0449.. ≈≈ √(cu2 x 10) = 5,0666.. ≈ √[(mp x rp) x 10] = 5,06684.. ≈ √(me x re) = 5,06629.. ≈ πɸ = 5,0832..
A questo punto, nessuno si stupirà più di tanto se anche il prodotto della massa del protone mp e della massa dell’elettrone me risulta un’approssimazione del multiplo di un numero maggiore di eɸ e minore di ɸπ
(me x mp) : 3 = (9,1091 x 1,6726) : 3 = 15,23588.. : 3 = 5,07862.. ≈ πɸ = 5,0832..
Questa relazione risulta praticamente perfetta se, al posto del 3, usiamo c = 2,9979246
(me x mp) : c = (9,1091 x 1,6726) : 2,9979246 = 15,23588.. : 2,9979246 = 5,0824.. ≈ πɸ = 5,0832..
La somma di me con mp sembra invece riportarci al rapporto fra 2ɸ/π che, come ben presto ci accorgeremo, caratterizza in modo decisivo i rapporti fra massa e raggio classico di protone ed elettrone
3√[(me + mp)/π2] = 3√[(9,1091 + 1,6726) : 3,1415..2] = 3√(10,7817.. : 9,8696..) = 3√1,0924146 =
= 1,0299018.. ≈ 2ɸ/π = 1,030072.. (-0,00001)
Qui sembra anche notevole il fatto che dal prodotto πɸ e dal 360 si possa ottenere un’ottima approssimazione di π. Sembra notevole questo fatto perché in The Snefru Code parte 9 abbiamo visto come la trigonometria basata su un angolo giro diviso in 360 parti abbia un rapporto specialissimo con π. E questa sembra un’ulteriore dimostrazione di quanto questi numeri siano fra di loro strettamente connessi in un sistema. Un sistema che dunque potrebbe integrarsi perfettamente alla struttura dell’atomo
1 : πɸ√360 = 1 : 3,183405819099.. = 0,3141289.. ≈ π/10 = 0,3141592..
E qui è molto importante notare che il 360 ha un legame estremamente profondo anche con ɸ, dato che si può ricavare un’approssimazione molto buona di ɸ nel modo che possiamo vedere sotto
8√(1/360) + 1 = 1,47913973.. ≈ 3√2ɸ = 1,479128409.. (+0,00001)
Vedendo risultati come questi, non è chiaro se sia più arduo accettare l’ipotesi – vertiginosa per gli uomini della nostra epoca – che i rapporti fra le costanti atomiche siano davvero rapporti armonici, costituiti da una mente intelligente sulla base di ɸ, π, il 10 e il numero di Eulero. Oppure, continuare a credere quello in cui di solito crediamo: che tutto quel che si trova in natura, compreso relazioni matematiche del genere che abbiamo appena visto, siano un prodotto del caos e del caso.
20. Lo riconosciamo apertamente: data l’assoluta novità dell’indagine che stiamo portando avanti, peraltro senza usare nessun metodo più preciso che quello del tutto spontaneo e indescrivibile dell’intuizione o dell’istinto, qualsiasi dubbio si volesse avanzare risulta auspicabile, oltre che ragionevole e ben fondato.
Ciò detto, a noi sembra che andando avanti in questo lavoro di analisi non facciamo altro che trovare nuove conferme all’ipotesi da cui siamo partiti: ovvero che la struttura dell’atomo sia caratterizzata da una sorta di armonia prestabilita fra quei numeri che abbiamo citato appena sopra. Abbiamo appena visto che il rapporto fra me/re corrisponde con buona approssimazione a una funzione di ɸ (potenze del 10 comprese) e in modo quasi perfetto al doppio della lunghezza di Planck.
Ma la simmetria fra la massa e il raggio classico di protone ed elettrone dovrebbe avere come conseguenza che una simmetria interna fra la massa e il raggio classico dell’elettrone dovrebbe trovare un equivalente anche nel rapporto fra la massa e il raggio classico del protone. Infatti
mp/rp = 1,6725 : 1,535 = 1,089576.. ≈ (2ɸ/π)3 = 1,092957..
La differenza di (2ɸ/π)3 con il valore che viene fuori da mp/rp appare piuttosto ridotta. Ma siccome avevamo visto che me/re ≈ 2ɸ, ecco che se facciamo la radice cubica di mp/rp e la usiamo come dividendo di me/re dovremmo trovare un numero molto vicino a π. E infatti le cose stanno proprio così. Anche questa volta il risultato riusciamo ad ottenerlo con un grado di precisione davvero straordinario, dato che la differenza con il valore effettivo di π è di soli 6 milionesimi.
(me/re)/ 3√(mp/rp) = 3,232733686…. : 3√1,089576.. = 3,232733686…. : 1,02900917… = 3,141598…. ≈ π = 3,141592… (+0,000006)
Un rapporto molto simile sembra esistere anche fra la costante di Planck e la lunghezza di Planck
1/(h/ℓp4) = 1/(6,626 : 1,616252..4) = 1 : (6,626 : 6,8239..) = 1 : 0,97099.. = 1,029875.. ≈ 3√(mp/rp) = 1,029009..
L’importanza di questo risultato per la nostra ipotesi di lavoro sembra confermata dal fatto che un’ottima approssimazione di 3√mp/rp = 1,029009.. la possiamo ricavare anche dal rapporto fra √ɸ e 2/ɸ. Infatti
√ɸ/(2/ɸ) = 1,272019.. : (2 x 0,618033..) = 1,272019.. : 1,236067.. = 1,029085.. ≈ 3√mp/rp = 1,029009..
Questo ci indica che possiamo ricavare una buona approssimazione di π anche dalla funzione di ɸ che vediamo sotto
2ɸ/[√ɸ/(2/ɸ)] = 3,23606.. : [√1,618033.. : (2 x 0,618033..)] = 3,23606.. : (1,272019.. : 1,23606..) =
= 3,23606.. : 1,29009.. = 3,1446055.. ≈ π = 3,141592.. ≈ 2 + Ln π = 2 + 1,1447298.. = 3,1447298..
Questo a sua volta vuol dire che
e {2ɸ/[√ɸ/(2/ɸ)]} – 2 = e3,1446055..- 2 = e1,1446055.. = 3,141201.. ≈ π = 3,141592..
Qui è interessante anche notare la stretta relazione che sembra esistere fra c = 2,9979246 e πCheope, dato che
Ln πCheope + c – 1 = 1,1451323.. + 2,9979246 – 1 = 3,143056.. ≈ πCheope = 22/7 = 3,142857..
21. Altri riscontri alla tesi che l’atomo si strutturi attraverso una trama di rapporti fra π, ɸ, il 10 e il numero di Eulero possiamo trovarli utilizzando dei valori che abbiamo già preso in considerazione, interpolandoli però in modo diverso. Per esempio, se adesso procediamo a fare il rapporto fra le radici dei prodotti di massa e raggio classico di protone ed elettrone dobbiamo prepararci a un’altra sorpresa, che sembra davvero molto interessante. Infatti
√(me x re)/ √(mp x rp) = 5,06629.. : 1,6022.. = 3,16208.. ≈ √10 = 3,16227.. (- 0,0002)
Se teniamo conto del principio di indeterminazione, sembra di poter dire che √10 sia l’altro polo della proporzione armonica che tiene legati la massa e il raggio classico di protone ed elettrone, essendo l’altro quello che abbiamo visto sopra, cioè π. Conviene rivedere ancora una volta come siamo arrivati a questo risultato, per avere un’idea delle somiglianze e delle differenze con quello a cui siamo arrivati a √10
(me/re)/ 3√(mp/rp) = 3,232733686…. : 3√1,089576.. = 3,232733686…. : 1,02900917… = 3,141598…. ≈ π = 3,141592… (+0,0000006)
Il nostro stupore è destinato ad aumentare quando ci rendiamo conto che alterando un po’ il calcolo possiamo ricavare una buona approssimazione della massa del protone mp da quegli stessi valori che abbiamo appena utilizzato e ricavato. Infatti
√10√[√(me x re)] = √10√5,06629 = 1,67048.. ≈ mp = 1,6725 ≈ √10√ɸπ = 1,67224..
Manipolando questi stessi dati in modo un po’ diverso ritorniamo di nuovo a una buona approssimazione di ɸ e una ancora migliore della lunghezza di Planck
√(me x re) : [√(mp x rp)]3}= 5,06629.. : 1,6022..3 = 5,06629.. : 4,1129.. = 1,231799.. ≈ 2 x 1/ɸCheope = 1,235643.. ≈ 2(ℓp – 1) = 1,232516..
22. Ma le meraviglie matematiche della struttura dell’atomo non finiscono qui, anche se a questo punto sono forse diventate persino un po’ prevedibili e scontate. Infatti, come oramai ci possiamo aspettare, se proviamo a interpolare le costanti in modo – diciamo così – disomogeneo, arriviamo ugualmente a risultati degni di nota. Per esempio, se mettiamo in relazione la massa dell’elettrone con il raggio classico del protone, con l’ausilio della costante di Planck h = 6,626 arriviamo di nuovo a un’approssimazione di 2ɸCheope
√[(me/rp2) + h] = √[(9,1021 : 1,5352) + 6,626] = √[(9,1021 : 2,356225) + 6,626] = √(3,863001.. + 6,626) = √10,489001.. = 3,23867.. ≈ 2ɸCheope = 3,23718..
Con la radice 44sima arriviamo a una buona approssimazione di ħ
44√[(me/rp2) + h] = 44√10,489001.. = 1,054868.. ≈ ħ = 1,054571..
Usando 2c al posto di h arriviamo invece a un’approssimazione di π
√[(me/rp2) + 2c] = √[(9,1091/1,5352) + (2 x 2,9979246)] = √(3,865972.. + 5,9958492) = √9,8618.. = 3,1403.. ≈ π = 3,1415..
Se invece della somma, facciamo la moltiplicazione fra (me/rp2) e 2c e la dividiamo per 10 al quadrato abbiamo che
[(me/rp2) x 2c] : 102 = (3,865972.. x 5,9958492) = 23,179.. : 100 = 0,23179.. ≈ 1/ɸ3 = 0,23606.. ≈ (ℓp – 1)3 = 0,23403..Facendo la radice quarta del prodotto me x rp e dividendo per π arriviamo invece a una buona approssimazione di 1/ɸCheope
4√(me x rp) : π = 4√(9,1091 x 1,535) : π = (4√13,9824685) : 3,1415.. =
= 1,93373.. : 3,1415.. = 0,61552..≈ 1/ɸCheope = 0,617821..
Dalla radice ottava della massa dell’elettrone me possiamo ricavare una buona approssimazione di π, dato che
1 : (8√me – 1) = 1 : [(8√9,1091) – 1)] = 1 : (1,318057.. – 1) = 1 : 0,318057.. = 3,14408.. ≈ π = 3,14159..
Quel che abbiamo appena visto significa che
1 + [1/(2 + Ln π)]8 = [1 + (1 : 3,144729..)]8 = (1 + 0,317992..)8 = 1,317992..8 = 9,1054.. ≈ me = 9,1091
E qui notiamo come sembri esservi una relazione molto stretta fra π, ɸ e la costante c, dato che
1/π + c/10 = 0,31830988.. + 0,29979246 = 0,61810234.. ≈ 1/ɸ = 0,61803398..
Invece, ancora dalla radice ottava della massa dell’elettrone me e da c/10 possiamo ricavare di nuovo un’ottima approssimazione di ɸCheope
(8√me) + c/10 = (8√9,1091) + 0,29979246 = 1,318057.. + 0,29979246 = 1,6178501.. ≈ 1 + (1/ɸCheope) = 1,617821..
Oppure, se mettiamo in relazione il raggio dell’elettrone con la massa del protone, salta fuori di nuovo un’approssimazione della radice cubica del rapporto fra la massa e il raggio classico del protone, e quindi anche di 2ɸ/π
(re/mp2)4 = (2,81777 : 1,67252)4 = (2,81777 : 2,79725625)4 = 1,007333..4 = 1,029668.. ≈ 3√mp/rp = 1,029009 ≈ 2ɸ/π = 1,030072..
Un rapporto molto simile sembra esistere anche fra il momento magnetico del protone 2,793 e la carica elettrica unitaria cu = 1,6022, dato che
3√(2,793 : 1,60222) = 3√1,0880215.. = 1,028519.. ≈ 3√(mp/rp) = 1,029009..
23. Da tutto quel che abbiamo visto sembra di poter capire che la struttura dell’atomo sia composta da numeri il cui prodotto, il cui rapporto, o somma o sottrazione che sia fa sempre capo a quei numeri caratteristici che abbiamo indicato. In questo senso, possiamo dire che la struttura dell’atomo assomigli in un modo che forse possiamo definire caratteristico al sarcofago di Djedefre. A sua volta, sembra che questo sarcofago sia stata la risposta ad un problema matematico molto antico: quali dimensioni deve avere un oggetto perché tutte le sue misure lineari e tutti i suoi volumi corrispondano a un solo numero: al suo valore nominale, al suo quadrato, al suo inverso o alla sua metà?
Gli Antichi Egizi lo risolsero con le dimensioni di questo sarcofago, che ruota attorno a un numero caratteristico che per solito si dice essere il 234. Però qui sotto lo vediamo espresso con 1,17, che è un numero equivalente
Volume esterno del sarcofago = 2,34 x 1,17 x 0,855 = 2,340819;
Volume interno del sarcofago = 2 x 0,855 x 0,685 = 1,17135;
2,34 = 2 x 1,17; 0,855 = 1/1,17; 0,685 = (1,17)2/2; 1,17 = 1,17;
Come prima cosa, è del tutto notevole il fatto che questo numero (1,17) corrisponde in modo praticamente perfetto alla radice 2c + 1, e che il volume interno del sarcofago sembra avere una relazione strettissima con il ciclo delle fasi lunari e con ħ. Il volume esterno invece sembra avere una relazione ancora più stretta con ɸCheope. Infatti
2c + 1√3 = (2 x 2,9979246) + 1√3 = 6,9958492√3 = 1,170039.. ≈ 7√3 = 1,6993.. ≈ Ln (Ln 52) = 1,16903.. ≈ 3√cu =
= 3√1,6022 = 1,170142.. ≈ 2ɸ√1,66666.. = 1,17099.. ≈ 4√[(e +√10) – 4] = 1,17104
3√1,17135 = 1,054133.. ≈ ħ = 1,054571..
4√2,340819 = 1,236920098.. ≈ 2(ɸCheope – 1) = 1,23718068
1,171358 x 102 = 354,399.. ≈ anno delle fasi lunari = 354,36 giorni
Questo rapporto del sarcofago di Djedefre con l’anno delle fasi lunari ci spinge a pensare che abbia anche dei rapporti con l’elettrone. Diciamo questo per due motivi. Il primo è che già in The Snefru Code parte 3 e parte 7 avevamo scoperto che massa e raggio classico di elettrone e protone stavano fra di loro nello stesso rapporto che l’anno solare e quello delle fasi lunari. Il secondo è quello che ci accingiamo a vedere adesso.
24. Cominciano con una curiosità di tipo matematico. Le costanti atomiche della nostra fisica, oltre al modo consueto con cui le esprimiamo, potrebbero essere espresse con dei numeri elevati alla potenza del loro stesso valore moltiplicato per -1. Per esempio, il raggio classico dell’elettrone potremmo esprimerlo attraverso quel numero che vediamo sotto (che, fra l’altro, corrisponde in modo quasi perfetto al ciclo di retrogradazione dei nodi della luna (6792,6 giorni) diviso per la durata di due anni Maya “Tzolkin”, pari a 260 giorni l’uno)
13,044418..-13,044418.. = 2,81794.. x 10-15 raggio classico dell’elettrone
L’inverso di questo numero corrisponde in modo praticamente perfetto al ciclo delle fasi lunari (354,36 giorni) per 1012. Infatti
13,044418..13,044418../1012 = 354,86.. x 1012 ≈ 354,36.. x 1012
Qui è interessante notare che l’altro numero del calendario Maya Tzolkin – il 26 – corrisponde in modo quasi perfetto alla lunghezza di Planck
26,001181..-26,001181.. = ℓp = 1,616252.. x 10-37
A questo punto nessuna sorpresa quando scopriamo che il ciclo annuale del sole è legato al raggio classico del protone
15,107029.. -15,107029.. = 1,53499.. x 10-18 m raggio classico del protone
La radice quinta dell’inverso di questo numero corrisponde a circa 10 volte il ciclo annuale del sole. Infatti
5√(15,107029.. 15,107029..)/ 10 = 5√651466816893464643,85953768936835/10 = 365,4 ≈ 365,26 durata dell’anno solare.
In un contesto di questo genere vale forse la pena di notare che 10ɸ elevato alla potenza di sé stesso ci da a sua volta una buona approssimazione della durata dell’anno solare
10ɸ10ɸ/1017 = 364,611.. ≈ 365,25..
25. La scoperta di queste proporzioni ci fa capire quanto sia profondo e sensato paragonare l’atomo a un piccolo sistema solare. Essa ci spinge inoltre ad indagare a fondo su quella che i pitagorici chiamavano “armonia delle sfere”. Vedendo cose di questo genere, dopo tutto quel che abbiamo visto in The Snefru Code parte 10, abbiamo l’ennesima conferma che mondo macroscopico e microscopico sono l’uno il riflesso dell’altro, dato che paiono dominati dalle stesse proporzioni. Proporzioni che sono rimaste invisibili a causa dei metodi da noi usati per portare avanti le nostre indagini.
Per fare un altro esempio, possiamo ricavare un valore come la costante per ricavare la velocità della luce c = 2,9979246 – moltiplicato però per 10-15 – nel modo che vediamo sotto
13,02706527..-13,02706527.. = 2,9979246 x 10-15
L’inverso di questo numero è
13,02706527..13,02706527.. = 333564083934438,04166295131711216
Ebbene, se dividiamo questo numero per π6 otteniamo la durata dell’anno delle eclissi. Se lo dividiamo per π9 otteniamo il quadrato di un numero caratteristico che in The Snefru Code parte 10 abbiamo ricavato dalle misure della Camera del Re, vale a dire quel numero cui facendo la radice usando come esponente il numero stesso otteniamo la costante di Dirac. Se lo dividiamo per π13 otteniamo una buona approssimazione di 360/π. Se lo dividiamo per π14 otteniamo l’anno solare. Infatti
(13,02706527..13,02706527.. / π6)/109 = 346,96.. ≈ 346,6 anno delle eclissi
√(13,02706527..13,02706527.. / π9)/1010 = √1,11900088.. = 1,0578283793911136196874399326311
1,0578283793911136196874399326√1,057828379391113619687439932 = 1,054582.. ≈ ħ = 1,054571..
√(13,02706527..13,02706527.. / π13)/106 = 114,8764.. ≈ 360/π = 114,5915..
(13,02706527..13,02706527.. / π14)/105 = 365,66.. ≈ 365,25
26. In generale, anche con un’analisi superficiale si nota i numeri da cui si possono ricavare le costanti atomiche hanno delle caratteristiche che appaiono un po’ speciali anche da altri punti di vista. Forse, il valore che con le caratteristiche più sorprendenti è quello da cui si può ricavare la massa dell’elettrone. Una sua buona approssimazione di può ricavare dal numero di Eulero – 2 e da π, mentre il suo inverso equivale a circa π/10
22,2855.. -22,2855.. = 9,1091 x 10-31 = me ≈ (e – 2)π3 = 0,718281.. x 3,1415..3 = 22,2712..-22,2712.. =9,6394 x 10-31
1/(22,2855.. : 7) = 0,3141055.. ≈ π/10 = 0,3141592..
Il numero da cui si può ricavare il raggio classico del protone si può ricavare con ottima approssimazione dalla carica elementare e da πCheope, mentre il logaritmo naturale di quello da cui si può ricavare la massa moltiplicato per 6 è praticamente identico alla costante di Planck
15,107029.. -15,107029.. = 1,53499.. x 10-18 = rp ≈ 3cuπCheope = 15,1064..
20,4345..-20,4345 = 1,6725*10-27 mp
Ln (Ln 20,4345) x 6 = 1,10433.. x 6 = 6,626024.. ≈ h = 6,626
Infine, il numero da cui possiamo ricavare la carica unitaria, si può a sua volta ricavare da una semplice funzione di ɸCheope
15,712055..-15712055.. = 1,60219*10-19 cu ≈ 3(2ɸCheope + 2) = 15,711542.. ≈ 5π = 15,70796..
27. Qui, prima di proseguire oltre nell’indagine della struttura armonica dell’atomo, possiamo soffermarci per qualche momento sul fatto che una tale struttura fondata su π e ɸ sembra estendersi oltre il microcosmo. In effetti, se facciamo il rapporto fra la costante di Newton e quella di Planck e poi lo dividiamo per la costante che ci serve per misurare la massa del protone, scopriamo che viene fuori un numero molto vicino alla carica unitaria cu – 1
(G : h) : mp = (6,672 : 6,626) : 1,6725 = 0,602058.. ≈ cu – 1 = 1,6022 – 1 = 0,6022
E qui possiamo di notare di passaggio che cu – 1 ha un rapporto armonico con il numero di Avogadro NA, dato che
(cu – 1) x 10 = (1,6022 – 1) x 10 = 0,6022 x 10 = 6,022 ≈ NA = 6,02252
Lo ripetiamo: quale possa essere il significato profondo di tutte queste relazioni ancora non siamo in grado di capirlo. Di certo sembra che tali relazioni sussistano, e vadano oltre l’orizzonte del mondo microscopico. Per fare ancora un esempio, la velocità del suono in aria viene calcolata pari a 3,32 x 102 m/sec, un valore che è quasi identico a
2 x 1/(cu – 1) = 2 x (1/0,602..) = 2 x 1,6608 = 3,3216;
Né meno sorprendente pare il fatto che l’accelerazione di gravità in prossimità della superficie della terra (g) sia pari a
g = 9,8 m/sec2 ≈ π2 = 9,86..,
Un simile rapporto con π lo mostra anche il raggio della Terra, dato che
6,37 x 103 Km ≈ 2/π x 104 = 6,366 x 103
Tutto questo può suonare, di nuovo, come un caso. Ma non possiamo fare a meno di notare che – come abbiamo visto in The Snefru Code parte 9 – 2π è precisamente il limite a cui tende la funzione 360/(x/sen x) quando x tende a 0 (una cosa questa che ci accingiamo a rivedere più oltre). Quindi la Terra, misurata attraverso quel particolarissimo sistema di misura che è il sistema metrico decimale, risulterebbe una sorta di proiezione simbolico-cosmologica del cerchio composto di 360 parti, che a sua volta ha un rapporto assolutamente unico con π. Dunque, nessuno stupore se il raggio della nostra vecchia Terra, misurato con il sistema metrico decimale, possa aver costituito una potentissima allusione a quell’armonia delle sfere che tanto ha affascinato i nostri progenitori.
Per altro verso, rammentandoci che 5 = (ɸ + 1/ɸ2)2, vediamo che G e la costante per misurare la massa del protone mp hanno un rapporto fondato su ɸ, dato che
G – mp = 6,672 – 1,672 = 5 = (ɸ + 1/ɸ2)2
28. Qui sopra abbiamo tolto l’ultimo decimale alla costante della massa del protone per ottenere un risultato assolutamente esatto. Ma che la costante di Newton e quella della massa del protone debbano avere qualcosa a che fare con il 5 lo si capisce dal fatto che la radice cubica del loro prodotto corrisponde in modo praticamente perfetto a √5
3√(6,672 x 1,6725) = 3√11,15892 = 2,234639.. ≈ √5 = 2,23606..
L’approssimazione di ɸ che possiamo ricavarne va molto vicino a ɸCheope
1 : [(2,234639.. + 1) : 2] = 1 : 1,61731953.. = 0,618307.. ≈ ɸCheope – 1 = 0,61859..
C’è inoltre da notare che è possibile ricavare una buona approssimazione della lunghezza di Planck a partire dalla costante di Dirac nel modo che vediamo qui sotto
[(3√10ħ2) + 1] : 2 = [(3√10 x 1,112121..) + 1] : 2 = [(3√11,12121..) + 1] : 2 == (2,232119.. + 1) : 2 = 3,232119.. : 2 = 1,616059.. ≈ ℓp = 1,616252..
Una simile relazione la si può riscontrare anche fra G e la massa dell’elettrone, dato che la radice ottava del prodotto ci porta a un numero molto vicino a quello della massa del protone
8√(6,672 x 9,1091) = 8√60,7759152 = 1,67096.. ≈ mp = 1,6725
A sua volta, il prodotto del raggio classico dell’elettrone per la costante di Planck si svela essere una funzione di π e ɸ, dato che
3√(2,81794.. x 6,626) : π2 = 3√1,8918357.. = 1,23678.. ≈ 2/ɸ = 1,23606..
La radice 32sima della massa dell’elettrone me = 9,1091 moltiplicata per 102 da un risultato molto simile a 2/ɸ
32√(me x 102) = 32√910,91 = 1,23732.. ≈ 2(ɸCheope – 1) = 1,23718068
La radice 128sima del raggio dell’elettrone moltiplicato per 105 invece è quasi esattamente pari a (5 + ɸ) : 6
128√(2,81794 x 105) = 1,10300528.. ≈ (5 + ɸ) : 6 = 1,10300566
Considerando tutto quel che abbiamo visto sopra, sembra del tutto chiaro che andando avanti in questo modo potremmo esplicitare un gran numero di nuove relazioni di questo genere fra G, la costante di Planck e tutti numeri caratteristici delle costanti atomiche che abbiamo fino ad ora analizzato. Ma, dobbiamo ricordarci che questo lavoro ha uno scopo diverso da quello della semplice enumerazione di rapporti matematici per quanto interessanti. Perciò rimandiamo questo lavoro ad altra sede.
ALCUNE CONCLUSIONI PROVVISORIE
1. Per finire, siccome questa disamina della struttura armonica dei valori matematici che caratterizzano l’atomo è partita da dei reperti archeologici Antico Egizi, è forse giusto soffermarsi per qualche rigo sul fatto che una cifra molto simile a 2ɸ/π = 1,030007.. – che sembra stare al fondo dei rapporti fra massa e raggio classico, e fra carica elettrica e momento magnetico del protone – può essere ottenuta a partire da numeri contenuti nell’Antico Testamento (un testo che molto probabilmente, almeno per quanto riguarda il Pentateuco, fu profondamente influenzato dalla cultura Antico Egizia).
Infatti, uno dei possibili significati di tipo scientifico del 40 – un numero che quasi ossessivamente ricorre in momenti fondamentali dell’Antico come del Nuovo Testamento – è che la sua radice 128sima ci da un rapporto simile alla radice cubica del rapporto fra la massa e raggio classico del protone
3√mp/rp = 3√1,089576.. = 1,0290091.. ≈ 128√40 = 1,029238..
A un risultato ancor meglio approssimato possiamo arrivare facendo la radice di h = 6,626 usando un esponente che numerologicamente allude al Numero della Bestia, il celebre 666
66√h = 66√h 6,626 = 1,029065.. ≈ 3√mp/rp = 3√1,089576.. = 1,0290091..
Qui possiamo osservare che un riferimento a π pare contenuto anche nella durata dell’anno solare, dato che la sua radice 256sima ci porta molto vicini π/3. Ciò fa sì che
(128√365,25) x 3 = 1,047177.. x 3 = 3,141532.. ≈ π = 3,141592.. (-0,00006)
A questo punto, è facile notare che un valore molto simile alla durata dell’anno solare, a livello numerologico, corrisponde abbastanza bene alla costante di Balmer, pari a 364,6 nm. Se ne può dunque ricavare una discreta approssimazione di π seguendo lo stesso procedimento
(128√364,6) x 3 = 1,047162.. x 3 = 3,141488.. ≈ π = 3,141592.. (-0,000104)
2. Per ultimo, lasciamo quel numero di cui abbiamo parlato abbastanza a lungo all’inizio. Quel numero di Cheope che costituisce una sintesi quasi perfetta (perfetta fino al milionesimo) del 3, di π e di ɸ. Come pura curiosità, possiamo notare che elevato alla 81esima potenza ci da un’ottima approssimazione di un multiplo di 2ɸ (e dunque, di riflesso, anche alla misura del lato nord-sud della Camera del Re)
1,85410596792102643..81 = 5,2347831.. x 1021 ≈ 2ɸ x 1021 = 5,23606.. x 1021
Invece, facendo la radice ottava del numero di Cheope moltiplicato per 10 alla diciassettesima otteniamo una quasi perfetta approssimazione della durata di 2 Giorni Precessionali, ovvero di un numero sacro diffuso nelle mitologie di tutto il mondo, il 144
8√(1,85410596792102643.. x 1017) = 144,0511.. ≈ 2 Giorni Precessionali = 144 anni
La validità di questa connessione del numero di Cheope con il ciclo precessionale sembra confermata dal fatto che, elevandolo alla quindicesima potenza, ne otteniamo la data in cui la costellazione del Leone si è levata davanti agli occhi della Sfinge. Questo è accaduto perché tale costellazione era quella che si poteva vedere alla levata eliaca all’equinozio di primavera. E’ questa anche l’epoca in cui la disposizione sul terreno delle tre Piramidi di Giza coincideva con quella delle tre stelle della Cintura di Orione nel cielo. Un risultato molto simile lo otteniamo moltiplicando ɸ per c8
1,85410596792102643..15 = 10520,06.. ≈ entrata dell’Era del Leone ≈ 10500 AC ≈ ɸc8 = 10557
In quel momento del ciclo precessionale Orione raggiunse il punto più basso all’orizzonte di Giza. Da quel momento in poi ha cominciato lentamente ma inesorabilmente a risalire. Sono passati da allora circa 12500 anni. Fra 300 anni raggiungerà il punto più alto, e comincerà un ciclo di discesa, che durerà per altri 13000 anni circa.
Questo fatto potrebbe essere anche molto meno banale di quanto sul momento non si possa credere. Vi è una tradizione copta, registrata da uno storico arabo, che attribuisce la costruzione delle Piramidi di Giza a un re chiamato Saurid. Secondo questa tradizione, costui volle edificare questi monumenti per conservare in essi tutta la conoscenza che si era fino a quel momento accumulata, per proteggerla dal Diluvio. Ma il Diluvio, seguendo de Santillana e von Dechend, di cui ci sentiamo di condividere in pieno le conclusioni, altro non è stato che il passaggio da un’era zodiacale a un’altra. E questa interpretazione del mito ha, fra i molti meriti, anche quello di renderci pienamente comprensibile quel passo del Timeo in cui Platone dice che gli Egizi conservavano la memoria di molti Diluvi, e non solo di uno, come i Greci e gli altri popoli (questo Diluvio, di cui anche i Greci conservavano la memoria, Platone lo colloca circa 9000 anni prima del suo tempo: una data abbastanza vicina dunque al 10500 AC). Seguendo il pensiero di de Santillana e von Dechend, quella frase non vuol dire che gli Antichi Egizi erano sopravvissuti e conservavano la memoria di molte inondazioni del globo terrestre. Significa invece che hanno conservato la memoria di numerose volte in cui un ciclo o un semiciclo precessionale è giunto alla fine per iniziare di nuovo .
A sua volta, questo significa che nel Timeo si è conservata una tradizione di osservazione del cielo stellato, durata decine e decine di millenni, che per più volte ha visto Orione raggiungere il punto più basso a Giza e poi quello più alto, che è quello che vedranno fra circa 300 anni i nostri pronipoti.
3. Dunque: circa 300 anni prima che Orione raggiungesse a Giza il punto più basso all’orizzonte (cioè attorno al 10800 AC) le Piramidi vennero costruite per conservare una saggezza antichissima, che si sarebbe accumulata nei circa 13000 anni in cui Orione stava discendendo all’orizzonte. Adesso, circa 300 anni prima che un altro semiciclo precessionale si compia, questa saggezza viene riscoperta dall’Occidente nel pieno della sua decadenza. Una decadenza che per di più sembra protendersi verso una catastrofe di dimensioni difficilmente immaginabili.
Come molto spesso siamo inclini a dimenticare, il mondo è disseminato di armi di distruzione di massa capaci di raderlo al suolo per decine di volte. Armi che fino ad adesso siamo riusciti in qualche modo a tenere al sicuro in dei container e a usare solo come deterrente. Ma quanto potrà durare questo stato di cose? Siamo certi di poter escludere che un giorno non cadranno in mano a menti ancora più folli di quelle che le hanno volute e progettate e non saranno usate come arma di distruzione effettiva, e non solo di minaccia?
La paleontologia moderna ci dice che, con ogni probabilità, la fine del semiciclo precessionale precedente è stata segnata da terribili catastrofi naturali, connesse con la deglaciazione. Si sarebbe trattato di terremoti e, soprattutto, di inondazioni di dimensioni difficilmente immaginabili, che hanno portato fra l’altro all’estinzione di un gran numero di specie animali. Molto probabilmente, un sacerdote Antico Egizio non avrebbe visto in un evento del genere una coincidenza, ma invece una necessaria conseguenza dello stato dei cicli cosmici: il Diluvio che si verificava nel Regno dei Cieli doveva avere per forza di cose delle conseguenze sulla Terra.
Se anche noi, a livello di esperimento mentale, adottiamo questo genere di interpretazione della storia, e la vediamo come una sorta di epifenomeno dei cicli celesti, è legittimo domandarsi se la terza guerra mondiale – che sembra incombere sempre più minacciosa all’orizzonte – non sarà la controparte terrena di quel Diluvio che nel cielo segnerà il cambio di Era: cioè il cambio di direzione di Orione nella sua traiettoria all’orizzonte a sud di Giza.
4. La nostra cultura ci ha insegnato a pensare che le connessioni che abbiamo or ora segnalato non siano altro che banali coincidenze. Le stelle non hanno nulla a che fare con quel che accade in questo grumo di polvere che chiamiamo “Terra”. Chi la pensa diversamente, viene per solito trattato come una scimmia rimasta di qualche passo indietro nel cammino dell’evoluzione. D’altra parte, possiamo notare che quella dell’evoluzione non è una teoria e nemmeno un’ipotesi scientifica, dato che non si può immaginare un metodo di poterla falsificare.
La teoria evolutiva, coscienti o meno che ne siamo, non è altro che un cascame dell’interpretazione gotica del cristianesimo. Ce lo testimoniano in modo chiarissimo il fatto che essa si costituisce di un punto iniziale unico e irripetibile, e di un tempo lineare, che tende verso la sua fine irreversibile.
Queste sono le caratteristiche riconoscibili della visione del mondo di tutte le scienze occidentali, compresa la linguistica, che vede i vari linguaggi come l’evoluzione di un unico linguaggio originario, l’indo europeo, il cui Big Bang sarebbero state le migrazioni dei popoli che l’avrebbero diffuso nel mondo. Troviamo queste stesse identiche concezioni anche nella storia della civiltà, che sarebbe nata in Mesopotamia e si sarebbe poi irradiata in tutto il globo. Anche in questo caso troviamo un punto di unicità che prende a dilatarsi e a diffondersi, inesorabilmente e irreversibilmente. Ma, ovviamente, questa non è la realtà delle cose: è solo la proiezione metafisica delle idee fondamentali della nostra cultura.
Questo è tanto vero che tutti i reperti che ci testimoniano del contrario (come i forni per la cottura della terracotta ad alta temperatura di Dolni Vestonice, risalenti al 26000 a.C, o le migliaia e migliaia ritrovati da Michael Cremo e pubblicati nel suo capolavoro “Forbidden Archaeology”), ovvero tutti gli argomenti che si oppongono all’idea preconcetta che la storia non si costituisce di una singola linea evolutiva irreversibile, vengono manipolati o semplicemente rimossi dalla coscienza e dalla discussione scientifica. Quasi che la scienza stessa – o lo spirito scientifico in quanto tale – potesse essere minacciata dall’introduzione di idee della storia diverse dall’evoluzionismo.
Eppure il metodo quantitativo, ovvero il metodo misura-calcolo-previsione, in cui si risolve qualsiasi scienza esatta, non ha proprio nulla a che fare con visioni metafisiche come quelle che abbiamo or ora esposto! A ben vedere, che cosa c’entra l’evoluzionismo con un esperimento come quello dei rulli sul piano inclinato, messo a punto da Galilei?
5. Dunque – almeno in teoria – possiamo rimanere uomini di scienza semplicemente accettando il metodo quantitativo e, quanto al resto, adottando una posizione di fermo relativismo. In questo modo, possiamo provare a metterci nei panni di chi per millenni ha visto la storia con una prospettiva diversa da quella della modernità.
Questa gente, molto probabilmente, vedrebbe nella riscoperta del sapere antidiluviano conservato nella Grande Piramide come un segno dei tempi, o quasi come un avvertimento per gli esseri umani: visto il punto in cui è giunto il ciclo delle stelle, essi devono prepararsi a superare una catastrofe reale, che dovrebbe avvenire in concomitanza con quel Diluvio cosmico che certamente si verificherà all’orizzonte di Giza, fra circa 300 anni.
A ben pensare, perché le cose non dovrebbero stare così? Perché chi vede la storia in questo modo dovrebbe avere per forza torto, e chi la vede invece come un succedersi di casualità (magari di casualità evolutive) dovrebbe invece essere considerato il custode della verità (o dei fatti) al di là di ogni ragionevole dubbio?
6. Già perché? Questo non è molto chiaro. Forse la ragione di certi nostri atteggiamenti, che siamo inclini a definire del tutto ovvi e razionali, sta nel fatto che la nostra cultura (o i nostri pregiudizi culturali?) ci costringono a pensare che ipotesi di interpretazione della storia alternative a quelle evoluzionistiche non siano altro che bubbole. Che l’universo è da considerarsi senza meno come il prodotto di un’esplosione catastrofica avvenuta molti miliardi di anni fa, quando la materia che lo compone, oggi dispersa in innumerevoli fuochi fatui sparsi dal caso a caso nel vuoto universale, si trovava tutta compressa in pochi centimetri cubi di non si sa bene cosa, se la teoria della relatività ha reso profondamente incerto il concetto stesso di spazio. Da quel momento in poi l’universo si muove di un movimento espansivo, che finirà con la sua morte termica o con un regresso catastrofico a quelle condizioni iniziali (il cosiddetto Big Crunch) che hanno prodotto la sua esplosione.
Oggi siamo talmente convinti di queste cose che il tono con cui se ne parla negli articoli specializzati o divulgativi che siano non è quello di chi fa ipotesi a partire da dati e leggi scientifiche falsificabili. Il tono è invece quello di colui che ha visto. Proprio lo stesso di quelli che ci raccontano dell’uomo che discende dalle scimmie: a nessuno viene in mente che quelle che vengono proposte non sono altro che ipotesi, che non hanno miglior fondamento della fantasia, a volte veramente fervida, di coloro che le propongono. Eppure, chi porta argomenti contro questa teoria non viene considerato come uno scienziato che la pensa diversamente. Viene considerato un pazzoide – o un piramidiota – che tiene per vero il proprio delirio e non quello che può vedere coi suoi stessi occhi.
7. Lo stato della nostra scienza è questo. Il clima in cui riflettiamo, discutiamo e facciamo ipotesi è quello di una sorta di Inquisizione morbida, che considera l’eretico non un figlio del demonio, ma un malato di mente da curare.
Eppure, in The Snefru Code parte 3 e parte 7 abbiamo visto – e lo vedremo ancor meglio alla fine di questo lavoro – che ci sono buoni motivi per pensare che l’universo – nella sua totalità come nelle sue parti – sia sottoposto a cicli di espansione e di contrazione. Che dunque quel punto di estrema contrazione che avrebbe causato il Big Bang potrebbe essere solo un’allucinazione indotta da una falsa interpretazione dei dati di fatto, causata da una teoria gravitazionale incompleta. Se la nostra ipotesi si rivelasse infine quella giusta, avrebbe ragione il Platone del Timeo, che parla dell’universo come un essere animato. Un’entità cioè che si contrae e si dilata, si contrae e si dilata, come un essere vivente mentre respira (pare che anche la Terra stessa sia attraversata da un’onda di espansione e contrazione: un fenomeno su cui lavorò a lungo un genio oggi così poco considerato come quello di Tesla).
E, come vedremo bene alla fine di questo lavoro, questo modo di agire della gravità non sarebbe nemmeno da considerarsi un evento inusitato, dato che è proprio in questo modo che l’interazione forte tiene unite le particelle che costituiscono i protoni e i neutroni. Si tratterebbe solo di estendere certi concetti, che già conosciamo piuttosto bene, a degli ordini di grandezza astronomici. Il che, di per sé, non offre nessuna difficoltà di tipo logico od ermeneutico. Il vero problema è che ci costringe ad abbandonare delle abitudini di pensiero talmente consolidate da assomigliare a lapidi di un cimitero. Non è escluso che, al di là del conformismo delle fonti ufficiali, vi siano dei fisici che già da un pezzo cominciano a giudicarle un po’ stantie.
Chissà, forse la storia – tanto quella del cosmo come quella umana – è qualcosa di radicalmente diverso da quello che l’Illuminismo ci ha convinto a tener per vera. Forse tutte quelle visioni antichissime che abbiamo considerato alla stregua di superstizioni e riutilizzato come fiabe per bambini sono nel giusto da millenni (o, se avesse ragione Platone: dall’inizio del tempo). E invece la nostra Epoca Moderna, con tutta la prosopopea di chi si crede la punta di lancia dell’evoluzione, non sarebbe altro che un sistema di ingenuità storico-scientifiche, che, per maggior paradosso, si crede un adulto vecchio e saggio.
parte 3: UN’ANALISI DEI PROBLEMI AFFRONTATI DA BOHR CON IL SUO MODELLO DI ATOMO E UNA PROPOSTA DI SOLUZIONE ALTERNATIVA A PARTIRE DAI RISULTATI CHE ABBIAMO FINORA CONSEGUITO
1. Come è del tutto chiaro già nel titolo, l’obbiettivo della nostra ricerca è di mostrare come la teoria dei campi unificati che possiamo supporre esser stata codificata nella Grande Piramide sia in grado di risolvere alcuni dei problemi epistemologici più rilevanti che affliggono la nostra la nostra scienza empirica. Per poter adempiere a questo scopo, abbiamo però bisogno di mostrare nel modo più completo ed esauriente possibile che, effettivamente, i rapporti fra le costanti con cui descriviamo l’atomo – e dunque fra le forze che lo costituiscono – possano essere trasformati in funzioni di ɸ e π, di 10 e del numero di Eulero. Il lavoro che abbiamo svolto ci sembra abbastanza completo, a livello di rapporti fra i raggi classici e masse di protone ed elettrone. Ma, quanto ai rapporti fra i raggi classici di protone ed elettrone e i raggi delle orbite degli elettroni intorno al nucleo, ci rendiamo conto di aver tralasciato alcuni aspetti che sembrano importanti. Dunque, non possiamo passare alla parte più propriamente filosofica di questo lavoro prima che la sua parte matematica sia stata svolta in un modo che possa essere considerato – se non completo – almeno accettabile.
Però, prima di andare avanti con le analisi matematiche, cercheremo di dare al lettore un’idea, sia pure sintetica parziale, dei problemi epistemologici lasciati aperti dalle nostre teorie scientifiche. Perché sono proprio questi problemi a dare un senso alle analisi matematiche che stiamo portando avanti, e al lavoro filosofico che ci aspetta negli ultimi due capitoli. Per questo sarà utile dare un’occhiata alla strana situazione cui si trovò di Fronte Niels Bohr, quando mise al punto il primo modello quantistico della struttura dell’atomo.
2. Detto in maniera molto semplice e riassuntiva, potremmo dire che, all’inizio del secolo scorso, la scienza occidentale, dopo aver scoperto l’elettrone, era arrivata a concepire l’atomo come una struttura costituita da un nucleo composto di particelle pesanti e caricate positivamente (oppure dotate di carica neutra). Intorno ad esso si pensava che ruotassero– come in un minuscolo sistema planetario – gli elettroni, particelle dotate di massa molto minore (come abbiamo visto sopra, circa 1/1836 di quella del protone) e dotate di carica negativa. Però, questo modello di atomo cozzava contro dei problemi teorici che parevano insormontabili a partire dalle teorie fisiche – riguardanti il mondo macroscopico – che al tempo si credevano verificate e dunque vere al di là di ogni ragionevole dubbio.
Il primo problema di questo modello dell’atomo è che, se supponiamo che gli elettroni si trovino nei pressi del nucleo, bisogna anche supporre che risentano dell’attrazione coulombiana esercitata su di essi dai protoni. Stando così le cose, non potrebbero rimanere fermi, in quanto il campo elettrico positivo li accelererebbe fino a farli collassare sul nucleo. Ma un tale collasso è un fenomeno che di fatto non si verifica. Al contrario, la materia appare di solito perfettamente stabile, almeno dal punto di vista magnetico.
Il secondo problema è che, a partire dalle leggi fisiche che sembrano regolare il macrocosmo, neppure si può immaginare che l’elettrone possa muoversi attorno al nucleo, vincendo in questo modo l’attrazione del campo elettrico.
Questo è esattamente quello che fanno i pianeti, che ruotando attorno al Sole riequilibrano in questo modo l’attrazione del suo campo gravitazionale con la forza centrifuga. Ma all’elettrone non si può attribuire un movimento orbitale perché, se così fosse, dovrebbe emettere radiazioni con continuità, perdendo nel contempo energia sotto forma di fotoni. In questo modo però, in pochi miliardesimi di secondo, la sua traiettoria diverrebbe sempre più piccola fino a portarlo a cadere a spirale sul nucleo.
Per risolvere questi problemi – che agli inizi del secolo parevano ancora più stupefacenti che irrisolvibili – Bohr immaginò un modello planetario radicalmente diverso da quello di Rutherford. Un modello fondato su due postulati. Il primo riguardava lo stato stazionario degli elettroni, e lo possiamo esprimere in questo modo
Negli atomi, normalmente gli elettroni non emettono onde elettromagnetiche, poiché si muovono lungo orbite preferenziali, orbite stazionarie, caratterizzate ognuna da una ben definita quantità di energia.
Il secondo postulato invece riguardava lo stato eccitato degli elettroni
Le emissioni di energia sotto forma di onde elettromagnetiche si verificano solo quando un elettrone salta da un orbita ad energia maggiore ad un’altra ad energia minore.
Una conseguenza di questi due postulati è che gli elettroni si muovono su delle traiettorie ben precise, ovvero dentro un’orbita determinata dalle differenti energie e non a distanze qualsiasi dal nucleo. Il raggio di ciascuna orbita si determina con questa formula
r = n2 x 1bohr
dove “n” è il numero quantico principale corrispondente a ognuno dei sette livelli energetici: dunque “n” può assumere i valori 1,2,3,4,5,6,7. Invece, 1bohr è quella costante che abbiamo visto nella parte precedente di questo scritto, corrispondente al raggio della prima orbita dell’atomo dell’idrogeno. Il suo valore è uguale a 5,292 x 10-11 metri (il valore di 5,292 è uno di quelli che si possono trovare andando in giro su internet: un altro che si trova abbastanza frequentemente è quello “rotondo” di 5,3 x 10-11metri)
3. Ovviamente, il modello di Bohr era e resta in contraddizione con tutte le leggi che regolano il macrocosmo, a cui tutti facciamo più o meno coscientemente riferimento nella vita di tutti giorni. In effetti, nei sistemi planetari che si possono osservare, e in primo luogo nel sistema solare, le orbite effettive seguite dai pianeti non paiono dotate di caratteristiche speciali rispetto ad altre che potremmo facilmente immaginare. A nessuno verrebbe in mente, per esempio, che quelle seguite dai satelliti di Giove sono orbite che si possono definire “stazionarie”. E, soprattutto, i pianeti non saltano istantaneamente da un’orbita all’altra assorbendo o emettendo energia. In generale, sul piano macroscopico, nessuno si aspetta che una distanza per quanto minima possa essere percorsa senza impiegare del tempo, perché nessuno si aspetta che un corpo qualsiasi possa raggiungere una velocità infinita.
Invece nel modello di Bohr, pur se gli elettroni coprono orbite intorno al nucleo a diverse distanze (come i pianeti intorno al sole), si dimostra che queste orbite sono fissate in modo assolutamente rigido da dei parametri energetici quantizzati. Una cosa questa di cui non si ha nessuna evidenza osservando il sistema solare, nel quale le orbite dei pianeti paiono fissate dal caso. Qui, la parola “caso” significa: dalle condizioni iniziali in cui ogni pianeta è stato catturato dal campo gravitazionale del Sole. E tali condizioni noi crediamo fermamente che siano state generate in modo totalmente imprevedibile dal Big Bang, ovvero da un’esplosione originaria della materia. E un’esplosione sembra effettivamente un evento del tutto casuale e caotico, cui è impossibile attribuire qualsiasi razionalità.
Per di più, queste orbite vengono tracciate in uno spazio che appare a tutti gli effetti continuo e infinitamente divisibile, che non sembra permettere “salti” di alcun genere a nessuna entità macroscopica che possiamo immaginare (almeno se costringiamo la nostra immaginazione entro i limiti fissati dalle leggi scientifiche vigenti riguardanti il macrocosmo).
Ma, per quanto contraddicesse con tutto quel che si era creduto fino a quel momento, la spiegazione di Bohr venne col tempo accettata e istituzionalizzata nell’ambito della meccanica quantistica (sebbene in forma un po’ diversa dal modo in cui fu da lui inizialmente proposta). Si verificò così un fatto che, a ben vedere, molte volte si è verificato nell’ambito del sapere umano. Quel che dapprima veniva registrato come un fatto estremamente problematico – che l’elettrone, viaggiando su certe orbite, non è sottoposto all’attrazione del protone e non emette energia sotto forma di fotoni – è diventato il fondamento di qualsiasi spiegazione che si voglia dare della struttura dell’atomo. Lo stesso accadde quando Newton si rese conto che la forza di gravitazione agisce a distanza: da fatto problematico e inspiegabile, col passare del tempo l’azione a distanza divenne il fondamento della spiegazione di un gran numero di fenomeni, se non proprio di tutti (e qui possiamo ricordare il Wittgenstein che in “Della Certezza” sosteneva, ricordando John Henry Newman, che in molti casi è impossibile distinguere fra i fatti e le spiegazioni dei fatti: il Pascal dei “Pensieri” sosteneva probabilmente qualcosa di simile, quando diceva che, volendo dimostrare qualcosa di particolare, conviene dar per dimostrati quei concetti generali la cui dimostrazione avviene attraverso quei casi particolari che con essi si vogliono dimostrare).
4. Ma, a partire da quel che abbiamo visto in questo lavoro, come anche in The Snefru Code parte 3 e parte 7, noi possiamo riaprire questo circolo vizioso – in cui un fatto inspiegabile diventa il fondamento della spiegazione – e tornare a porci di fronte alle problematiche affrontate da Bohr domandandoci: perché l’elettrone, viaggiando su certe orbite, non è soggetto alle leggi di Coulomb e non emette onde elettromagnetiche?
Noi possiamo riaprire la questione per vari motivi. In primo luogo, perché abbiamo constatato che il rapporto fra il raggio classico del protone e quello dell’elettrone è uguale e contrario a quello fra le rispettive masse. Il raggio classico del protone è circa 1836 volte più piccolo di quello dell’elettrone, mentre la sua massa è circa 1836 volte maggiore. Questo fatto, già in The Snefru Code parte 3 e parte 7 ci ha spinto a ipotizzare che lo spazio possa o forse debba essere considerato alla stregua di una vera e propria forza – per così dire – uguale e contraria a quella espressa dalla massa in rapporto alla carica elettrica.
Se accettiamo questa ipotesi di lavoro, allora vediamo che il significato del valore di “d2” in una formula come quella di Newton cambia radicalmente, così come cambia anche nelle formule di Coulomb. Infatti, anche l’attrazione coulombiana, proprio come quella gravitazionale, diminuisce con il quadrato della distanza. Ma, se questo è vero, allora la distanza che separa elettrone e protone non sarebbe più da intendersi come il mero “essere lì” di un entità amorfa (appunto, la distanza). Sarebbe da considerarsi invece come la presenza attiva di una forza che si oppone agli effetti della massa su altra massa e, soprattutto, a quelli enormemente più potenti della carica elettrica positiva su quella negativa. Lo spazio sarebbe dunque da pensarsi non solo come una sorta di forza di gravità di segno contrario, ma anche come una sorta di contro campo elettrico, in grado di frenare l’azione dell’attrazione fra protoni ed elettroni, in modo perfettamente simmetrico a come accade nel caso della forza di gravità.
5. Un’ipotesi di questo genere, almeno sul momento, può sembrarci del tutto assurda. Ma, a ben vedere, questa non è altro che la teoria della relatività portata alle sue estreme conclusioni. Se la massa può avere un effetto sullo spazio-tempo, perché lo spazio-tempo non dovrebbe avere un effetto sulla massa – magari attraverso la mediazione della distribuzione della carica elettrica?
A pensarci bene, quest’ipotesi non solo non appare affatto assurda, ma infine nemmeno troppo sorprendente. In un primo senso, questa sarebbe la dimostrazione della verità di quel che tutti abbiamo imparato al liceo: ovvero, che ad ogni azione si oppone una reazione, uguale e contraria. Inoltre, quale altro potrebbe essere il significato della quantizzazione dello spazio nella struttura dell’atomo, se non che lo spazio è un costituente della materia che sta sullo stesso piano di tutti gli altri?
Già in questo momento le teorie correnti ci mostrano chiaramente che quando misuriamo la posizione di un elettrone, collocandola su un certo orbitale, nello stesso momento misuriamo anche la sua distanza dal nucleo. Ma questa distanza è intimamente connessa con un certo stato energetico. Non è un dato di fatto a sé stante. Nel mentre studiamo la struttura spaziale dell’atomo dunque, che lo si voglia o no, ci si occupa anche della sua struttura magnetica. Questo significa che, almeno a livello microscopico, lo spazio non lo possiamo pensare più come una sorta di insignificante e innocua “vasca” dove la struttura magnetica va come per caso a collocarsi.
Per altro verso, ci rendiamo conto che – a livello macroscopico – abbiamo la costante impressione che le cose stiano in un altro modo: ovvero che lo spazio, come anche il tempo, siano delle entità autonome, continue e dunque del tutto destrutturate, in cui in modo casuale vanno a collocarsi gli oggetti fisici, dando forma a fatti, i cui mutamenti si succedono nel tempo. E questa sembra una contraddizione non facilmente risolvibile.
Una possibile ipotesi di spiegazione è che a livello del cosiddetto “senso comune” abbiamo l’illusione che il mondo sia costituito di spazio assoluto, tempo assoluto, e da oggetti dotati di massa che, come in una vasca infinita, vi si muovono dentro – solo perché spazio, tempo e massa sono quegli elementi della realtà che non si neutralizzano a vicenda (gli atomismi classici e il nostro materialismo settecentesco sarebbero un’ipostatizzazione di questa illusione).
Al contrario, noi vediamo che le forze magnetiche, pur essendo miliardi di miliardi di volte più potenti di quelle gravitazionali, per solito non si manifestano, perché sono costantemente in equilibrio.
Questo potrebbe essere il motivo per cui gli atomi, componendosi fra di loro, tendono a sommare in modo indefinito i loro elementi spaziali e quelli gravitazionali (costituiti dalla massa). Al contrario, la somma dei loro elementi magnetici – per solito – resta costantemente pari a zero.
Se prendiamo, per esempio, un blocco di granito, sembra proprio di poter dire che le sue misure spaziali e quella della sua massa dipendono dalla somma di quelle microscopiche quantità di spazio e di massa che costituiscono i suoi atomi. Viceversa, la somma dei loro elementi magnetici risulta quasi sempre in un nulla di fatto, o poco più. Ciò fa sì che osservando un blocco di granito, come il celebre obelisco incompiuto di Assuan, tutti rimaniamo impressionati dalla sua massa, che ci appare gigantesca e inamovibile, e che ci pone tante interessanti questioni sulla tecnica di movimentazione della pietra Antico Egizia. A nessuno viene in mente di pensare che quelle forze spaventose che tengono insieme i suoi atomi, se liberate attraverso un’esplosione, ridurrebbero in polvere la Terra in un istante.
Ma questo discorso vale anche per i pianeti, per i soli e i sistemi solari e anche per le galassie. Vale, probabilmente, per l’universo tutto. Spazio e massa sono gli elementi dell’atomo (e dunque della materia nel suo insieme) che appaiono ovunque manifesti. Al contrario, le forze magnetiche per solito restano occulte e non percepite, se facciamo eccezione per la luce. E potrebbe essere proprio questa situazione particolare a farci tener per vera quella visione del mondo per cui l’universo sarebbe costituito da oggetti dotati di massa che si muovono nell’infinita vasca di spazio e tempo assoluti. Ma cosa accade a questa visione del mondo quando ci domandiamo se per caso lo spazio – a un livello profondo – non possa essere una componente dell’essere sullo stesso piano delle forze magnetiche?
6. Come esperimento mentale, proviamo a tener per vera questa ipotesi: che lo spazio sia un elemento fra quelli che compongono l’atomo. Un elemento come tutti gli altri. Una volta accettato questo presupposto, a questo punto, dire che una carica elettrica deve avere trovarsi in un certo punto dello spazio ha lo stesso valore che dire che un certo punto dello spazio deve avere una certa carica elettrica (magari pari a 0).
Accettando questa ipotesi, saremmo in grado di comprendere perfettamente quel che Platone fa dire a Timeo nel celebre dialogo omonimo (che in realtà non sembra altro che un monologo di Timeo, proprio come La Repubblica non sembra altro che un monologo di Socrate)
“(..) e v’è poi una terza specie sempre esistente, quella dello spazio, la quale è immune da distruzione, e da sede a tutte le cose che nascono, e si può percepire per mezzo di un ragionamento bastardo in cui non ha parte la sensazione, che è appena credibile, guardando alla quale noi sogniamo e diciamo che è necessario che tutto quello che è anche si trovi in qualche luogo, e che tutto ciò che non si trova né in cielo né in terra non esiste.”
A ben vedere, questo discorso di Platone pare avere un certo fondamento. Noi con i sensi non vediamo affatto “lo spazio”, ma oggetti costituiti (anche) di spazio (e dunque anche di tempo). Come peraltro, sollevando un oggetto dotato di massa, noi non abbiamo a che fare solo con la massa, ma anche tutte le altre forze di cui l’oggetto è composto, di cui però in quel momento non siamo affatto coscienti. Questo, secondo la nostra ipotesi, accade perché spazio e massa sono appunto quei componenti della materia che, trovandosi in costante disequilibrio, possono apparire con quella caratteristica che siamo soliti definire “estensione”.
Un indizio che questa una possibilità di spiegazione del fenomeno sia plausibile ce lo indica il fatto che percezione dello spazio, nel caso degli esseri umani, avviene per lo più attraverso gli occhi, dunque per mezzo della luce, cioè dell’unico fenomeno elettromagnetico che è in grado di diffondersi in modo quasi del tutto libero attraverso lo spazio (come è noto, la luce può essere neutralizzata per solito solo dai buchi neri, che sono entità molto rare, anche se hanno un ruolo molto importante nella struttura gravitazionale dell’universo). E ciò fa sì che la luce, non ostante la sua impalpabilità, venga considerata un’entità reale al pari della massa e dello spazio.
Inoltre, che cos’altro può voler dire l’affermazione di Einstein che la massa è in grado di incurvare lo spazio? Se lo spazio fosse un nulla non potrebbe affatto incurvarsi! Se lo spazio si piega, e per altro verso è capace di indebolire l’azione della massa e dell’attrazione coulombiana in ragione della distanza al quadrato, questo significa che si tratta di una forza che interagisce con altre forze, non di un mero campo di azione delle forze.
7. Ma nel corso di questa indagine abbiamo visto che lo spazio in quanto forza (o: in quanto elemento dell’essere) risulta costituirsi in relazione alle altre forze attraverso delle funzioni di π, ɸ, 10 e numero di Eulero. E questo può accadere soltanto se e perché la carica elettrica (che genera l’attrazione coulombiana) e la massa (che genera l’attrazione gravitazionale) sono determinate esse stesse da quei numeri. Dunque lo spazio, che in questa concezione non è altro che una forza che si oppone a queste forze attrattive, deve per forza di cose contro-determinarsi in relazione ad attrazione coulombiana e gravitazionale ugualmente a partire da π, da ɸ, dal 10 e dal numero di Eulero. E si controdetermina in proporzioni tali da consentire l’esistenza dell’atomo, nel modo in cui di fatto la registriamo (o meglio: la determiniamo) con i nostri esperimenti.
Tutto questo fa sì che la forma delle orbite dell’elettrone intorno al nucleo sia determinata essa stessa da π e da ɸ, dal 10 e dal numero di Eulero. E la prima dimostrazione di questo fatto l’abbiamo data in The Snefru Code parte 7, quando abbiamo visto che esse tutte vanno a incastrarsi in modo sistematico con la struttura della Grande Piramide, che è stata a sua volta generata dai suoi costruttori sulla base di π e di ɸ, di 10 e del numero di Eulero.
E qui conviene forse rinfrescarci un po’ la memoria, tornando a vedere, in successione, la Grande Piramide in relazione al diagramma dello spazio-tempo di Fappalà e in relazione al diagramma dell’atomo di idrogeno. Osserveremo inoltre come una caratteristica tipica della spirale aurea – vale a dire la costanza del suo modulo di accrescimento – fa sì che le strutture fondate ɸ possano risultare geometricamente omogenee e dunque sovrapponibili, anche se le loro dimensioni assolute risultano piuttosto diverse (è una cosa che abbiamo visto nel caso dei rilievi Antico Egizi, di cui inseriamo un esempio).
In questa sede, per ragioni di brevità, mostriamo solo poche immagini. Ma ne metteremo molte di più nell’appendice fotografica, in modo tale che il lettore possa avere una dimostrazione veramente convincente di questa affermazione.
A partire da questo materiale visivo e da tutte le relazioni matematiche che abbiamo fino ad adesso scoperto, sembra dunque che possiamo affermare che nella struttura dell’atomo non vi sia niente di arbitrario. In essa, ogni grandezza presuppone e determina l’altra. Il che a sua volta vuol dire che esse si co-determinano a vicenda, in un gioco di forze di cui è impossibile stabilire tanto l’inizio che la fine. Ed è proprio per questo che all’inizio abbiamo scritto che in questa teoria dei campi unificati non esiste una forza primordiale, che si possa quantitativamente descrivere, che costituisca la radice di tutte le altre forze. Al contrario, ogni forza è l’espressione quantitativamente definibile di un qualcosa che sta al di là di ogni definizione. Ed è per questo che all’inizio abbiamo scritto che, se di “piramide cognitiva” si vuole in ogni caso parlare, occorre allora parafrasare Ermete Trismegisto e dire che la teoria matematica in grado di descrivere l’universo è una piramide la cui cuspide è ovunque e la cui base è da nessuna parte.
Ma se le cose stanno così, questo significa che se i protoni, elettroni e neutroni hanno un certo raggio classico, una certa carica elettrica – positiva, negativa o neutra – una certa massa, etc, questo può accadere soltanto perché la materia ha una struttura precisa. Una struttura in cui ogni elemento co-determina l’altro. E questo ci impedisce di pensare all’atomo come a una certa somma di particolari.
È vero: un chiaro limite teoretico fra la struttura come totalità e l’elemento come co-determinante la struttura non possiamo stabilirlo. Che però abbiamo a che fare con una struttura sembra rendersi manifesto nel fatto che non possiamo alterare un solo elemento (per esempio, il raggio delle orbite) senza alterare con ciò tutti gli altri elementi (se alteriamo il raggio dell’orbita, alteriamo con ciò la lunghezza d’onda dell’elettrone: se alteriamo la sua lunghezza d’onda, alteriamo la sua massa, etc).
Inoltre, noi possiamo tentare di descrivere la totalità di questa struttura a partire dai rapporti armonici fra gli elementi. Se, per esempio, ci rendiamo conto per mezzo del calcolo, che
1) i rapporti e i prodotti fra massa, raggio classico e carica elettrica di protone ed elettrone hanno come fondamento ɸ, π, il 10 e il numero di Eulero
2) se per mezzo di un approfondito lavoro grafico osserviamo che gli orbitali degli elettroni sono funzioni di ɸ, π, 10 e numero di Eulero – perché tendono a “incastrarsi” con una struttura geometrica a sua volta generata sulla base di ɸ, π, 10 e numero di Eulero
3) allora noi possiamo affermare in modo davvero sensato che l’atomo non è affatto una somma di particolari.
In effetti, tutto quel che abbiamo visto fino ad adesso ci spinge a pensare che l’atomo sia una struttura articolata, in cui ogni particolare gioca un ruolo determinato e determinante a partire dai fondamenti matematici su cui è stata costituita la struttura. Dunque anche lo spazio, nella misura in cui fa parte di questa struttura, deve avere un ruolo altrettanto decisivo che tutti gli altri elementi, perché in una struttura organica come quella che stiamo indagando non possiamo immaginare che anche il minimo dettaglio sia stato lasciato al caso.
8. È proprio per questo che, essendoci resi conto che il raggio classico di elettrone e protone è inversamente proporzionale alla loro massa, possiamo ipotizzare in modo del tutto ragionevole che lo spazio non sia un elemento casuale e passivo della struttura dell’atomo, ma viceversa un suo elemento vitale: altrettanto vitale che la sua carica elettrica e la sua massa. Dunque una vera e propria forza, che contribuisce a produrre quei fenomeni che possiamo constatare con i nostri apparati sperimentali.
Se accettiamo di procedere in questo modo, ecco che si apre uno spiraglio per poter spiegare quel fenomeno inspiegabile che fino ad ora sono state le orbite stazionarie.
Forse il nome “orbite stazionarie” che venne dato a queste orbite particolari – ruotando sulle quali l’elettrone non perde energia e non cede all’attrazione coulombiana – risulta particolarmente conveniente proprio perché lungo queste orbite l’elettrone si muove a causa di un’accelerazione indotta dal punto di equilibrio che proprio lì si crea fra
1) l’attrazione coulombiana
2) l’attrazione gravitazionale
3) la forza con cui lo spazio si oppone a questi due tipi di attrazione in ragione di “d2”.
In effetti, se è vero che lo spazio può essere considerato come una forza repulsiva e contraria sia al campo gravitazionale che a quello elettrico, ecco che l’effetto attrattivo e quello repulsivo, combinandosi, potrebbero dare luogo tanto al moto orbitale che allo spin. Un moto che però, essendo generato da un punto di equilibrio tra forze contrapposte, sul piano energetico – per così dire – non costa nulla all’elettrone, dato che lungo quel percorso esso verrebbe trascinato da queste forze come un grano di polvere in un mulinello di vento. E proprio questo potrebbe essere il motivo – a questo punto del tutto comprensibile – per cui non emette energia sotto forma di fotoni: perché il suo moto, sul piano energetico, risulta al contrario una forma di immobilità.
Nella prossima parte di questo lavoro vedremo nei dettagli come questa ipotesi possa risolvere tutti quei paradossi di cui sembra costituirsi la meccanica quantistica. Lì il lettore potrà rendersi conto che, dopo che li avremo analizzati con i nuovi strumenti concettuali – nuovi per noi, però sostanzialmente derivati dall’architettura sacra Antico Egizia e dal Timeo di Platone – tutti quelli che ci appaiono in questo momento – appunto – come paradossi potrebbero essere riportati alla logica matematica più rigorosa.
Ma prima di inoltrarci in questa indagine – che implica necessariamente un lavoro molto complesso di filosofia della scienza – conviene di concludere la nostra indagine quanto alla struttura armonica dell’atomo, con particolare riguardo alle orbite dell’elettrone intorno al nucleo.
parte 4: ANALISI MATEMATICA DELLE RELAZIONI FRA RAGGIO CLASSICO DI PROTONE ED ELETTRONE ED IL RAGGIO DI BOHR
1. La prima cosa da osservare è che – essendo riconducibile l’unità di misura di queste orbite a una funzione di ɸ – ecco che necessariamente anche i multipli interi di questa unità di misura (che altro non è che il raggio della prima orbita) risultano da una funzione di ɸ. Infatti, queste orbite si calcolano, come abbiamo visto sopra, con la formula
r = n2 x 1bohr
con “n” che è un numero intero che varia fra 1 e 7. Ma abbiamo visto anche che 1bohr lo possiamo interpretare come una funzione di ɸ, dato che
2ɸ + (√ɸ)3 = 3,236067.. + 1,272019..3 = 3,236067.. + 2,058171.. = 5,294239.. ≈ 1bohr = 5,292..
Tutto questo significa ovviamente che ognuna delle orbite che l’elettrone può percorrere attorno al nucleo può essere considerata un multiplo intero di una funzione di ɸ. E questo a sua volta significa che esse tutte sono delle funzioni di ɸ – quanto al raggio – come altrettanto ovviamente lo sono di π quanto alla circonferenza. Ma abbiamo dimostrato sopra che anche i raggi classici e le rispettive masse di protone ed elettrone – come anche il valore assoluto della carica elettrica – sono essi stessi funzioni di π e ɸ. Dunque è lecito aspettarsi che quella struttura armonica che abbiamo riscontrato a livello di massa e raggi classici la si possa riscontrare in qualche modo anche estendendo la nostra analisi ai rapporti fra questi valori e quelli delle orbite dell’elettrone.
2. Possiamo cominciare analizzando i rapporti fra il raggio dell’elettrone e 1bohr
1bohr/rp = 5,3 x 10-11 : 2,8179403267 x 10– 15 =
= 0,00000000005292 : 0,0000000000000028179403267 = 18808,063285735581506414445252348
Se facciamo la stessa operazione con il raggio classico del protone arriviamo invece a questo risultato
1bohr/rp = 5,3 x 10-11 : 1,535 × 10-18 = 0,000000000053 : 0,000000000000000001535 = 34527687,296
Se dividiamo questo numero per quello che abbiamo ottenuto quanto all’elettrone abbiamo che
34527687,2964.. : 18808,0632 = 1835,791
Ovviamente, ritroviamo ancora una volta il numero che definisce il rapporto inverso fra il raggio e la massa di protone ed elettrone. E, fin qui, nessuna sorpresa. Però, se proviamo a elaborare minimamente questi dati, ecco che le sorprese cominciano a venir fuori una dietro l’altra.
Per cominciare, se moltiplichiamo re per 10 e poi facciamo la radice 16sima abbiamo che
16√(2,8179403267 x 10) = 16√28,179403267.. = 1,2320284.. ≈ 2(ℓp – 1) = 1,232504.. ≈
≈ 2(1χ/10) = 2(6,16227766.. : 10) = 2 x 0,616227766.. = 1,23245..
Se facciamo la radice 81sima di 1bohr/rp otteniamo un risultato piuttosto simile, dato che
√(1bohr/rp) = √34527687,296… = 1,23897.. ≈ 2(ɸCheope – 1) = 1,23718..
Invece, se dividiamo per 10 1bohr/rp e poi facciamo la radice quadrata otteniamo un risultato che, come molte volte ci è capitato durante questa ricerca, sulle prime potrà sembrare del tutto anonimo e insignificante
√[(1bohr/rp) : 10] = √(34527687,296… : 10) = √3452768,7296… = 1858,162729
Questo numero però assume significato perché sembra stabilire una proporzione fra il raggio della prima orbita e quello di protone ed elettrone, alludendo a un altro misterioso valore costante. Un valore che non dipende solo da π e da ɸ, ma anche dal 10, e che dunque conferma anche sul piano di questi rapporti la nostra ipotesi iniziale: ovvero, che ai fondamenti della struttura dell’atomo vi sia anche il 10, oltre che, come abbiamo abbondantemente visto, ɸ, π e il numero di Eulero.
Individuiamo questo valore se dividiamo 1bohr/re per 10 e poi facciamo il rapporto con √[(1bohr/rp) : 10]. In questo modo troviamo che
[(1bohr/re) : 10] : √[(1bohr/rp) : 10] = (18808,0632 : 10) : 1858,162729 = 1880,0632 : 1858,162729 = 1,0121860104…Parliamo di questa cifra come di un valore costante perché se facciamo la proporzione fra 1858,162.. e il rapporto fra il raggio del protone e quello dell’elettrone troviamo ancora che
1858,162729 : 1835,791… = 1,0121864248…
Moltiplicando re/rp per questo valore elevato al quadrato e poi per 10 ritroviamo 1bohr/re
1835,791… x 1,012186…2 x 10 = 18808,0628…
Questo sembra significare che i rapporti fra i raggi classici di protone ed elettrone e quello della prima orbita arrivano davvero comporre una solida struttura matematica. Il motivo per cui fino ad adesso non siamo riusciti scorgerla sembra da ricondursi, molto banalmente, al fatto che il sistema matematico-formale con cui fino ad adesso abbiamo descritto il mondo microscopico ce lo impediva (ma i suoi indizi emergevano comunque nel fatto che già adesso un certo numero di costanti risulta da funzioni di alcune di esse, che venivano perciò considerate più fondamentali)
3. Già a questo punto abbiamo cominciato a trovare quelli che sembrano dei nuovi indizi di quella intelaiatura matematica profonda che starebbe all’atomo come il nitido disegno del tappeto in relazione alla trama confusa che appare osservandolo a rovescio. Ma altri indizi li possiamo trovare analizzando ancora una volta la funzione matematica che vediamo sotto
√[(1bohr/rp) : 10] = 1858,162729
Come prima cosa, c’è da sottolineare che se trasformiamo questo rapporto nel modo che vediamo sotto (ed escludendo le potenze del 10) troviamo la conferma di una cosa molto importante che abbiamo visto nella seconda parte di questo lavoro. Ovvero della possibile importanza di quel punto di unicità della trigonometria che corrisponde a quell’angolo che ha il seno uguale a 0,6, il coseno pari a 0,8, e la tangente pari a 0,75. Infatti, anche nel caso che vediamo sotto, si nota che aggiungendo 0,8 al risultato dell’equazione otteniamo di nuovo un risultato estremamente simile al logaritmo naturale di π.
[(1bohr/rp) : 10] + 0,8 = [(5,292 : 1,535) : 10] + 0,8 = (3,447557.. : 10) + 0,8 = 0,344755.. + 0,8 == 1,1447557.. ≈ Ln π = 1,1447298.. ≈ rp/re + 6/10 = 0,54472408.. + 0,6 = 1,14472408..
Invece, lasciando l’equazione così come l’avevamo costruita prima, se trasformiamo questa cifra in 1,858162729 x 103, possiamo escludere la potenza del 10 ed elevare 1,858162729 alla potenza di sé stesso. Così facendo, possiamo notare facilmente che il risultato è molto vicino, per non dire praticamente identico, alla radice di 10.
Dunque – come il numero di Cheope è quel numero che elevato alla potenza di sé stesso ci da π (e diviso per 3 ci da 1/ɸ approssimato al milionesimo) – così la radice quadrata del rapporto fra il raggio della prima orbita dell’elettrone diviso per 10 volte il raggio classico del protone possiamo ragionevolmente considerarlo come quel numero che, elevato alla potenza di sé stesso, ci da la radice 10.
Infatti
1,858162729..1,858162729.. = 3,1622877.. ≈ √10 = 3,1622776..
L’approssimazione di 10 che possiamo ricavarne sembra davvero ottima
3,1622877484709519404231281357609..2 = 10,000063..
Come abbiamo visto nella prima parte, questo valore corrisponde in modo praticamente esatto a 5 meno π.
5 – π = 5 – NcNc = 5 – 3,141592.. = 1,8584073..
Ma nelle analisi che abbiamo condotto nella parte precedente del nostro lavoro avevamo trovato che √10 caratterizza in due modi diversi i rapporti armonici fra elettrone e protone. Conviene rivederli, almeno per avere un’idea chiara della possibile importanza – fosse pure su di un piano puramente matematico – della scoperta che abbiamo appena fatto
√10√(me x re) = 3,162277..√5,06629 = 1,67048.. ≈ mp = 1,6725 ≈ √10√ɸπ = 1,67224..
√(me x re)/ √(mp x rp) = 5,06629.. : 1,6022.. = 3,16208.. ≈ √10 = 3,16227.. (- 0,0002)
Quanto a questo numero, occorre notare ancora che facendo il logaritmo naturale della media che possiamo ottenere sommandolo al numero di Cheope, ci da un risultato molto vicino a (ɸCheope – 1) e al numero di Cheope diviso c = 2,9979246
Ln [(1,854105967921026432.. + 1,858162729..) : 2] = Ln (3,712268696921026432 : 2) =
= Ln 1,856134348460513216.. = 0,61849601.. ≈ (ɸCheope – 1) = 0,61859034.. ≈ NC : c =
= 1,854105967921026432.. : 2,9979246 = 0,61846317..
A questo punto, conviene il rapporto fra il raggio classico del protone e la prima orbita di Bohr possa avere delle relazioni simili a quelle che abbiamo visto sopra anche con il 360, ovvero con l’angolo giro. E se lo facciamo dobbiamo prepararci a un’altra, stranissima sorpresa
{360 – [(1bohr/rp) : 105]} : 23 = (360 – 345,27687296) : 8 =
= 14,72312704 : 8 = 1,84039088
Questo che abbiamo ottenuto – con l’ausilio di numeri che hanno un significato molto speciale in riferimento alla trigonometria e alla fisica – numeri come il 360, l’8, e il 5 – è, strano a dirsi, proprio quel numero che elevato alla potenza di sé stesso ci da il diametro classico del protone dp. Infatti
1,84039088..1,84039088.. = 3,0728.. ≈ dp = 3,07
Lo abbiamo già detto alcune volte, ma conviene ripeterlo: in questo momento, noi non siamo capaci di comprendere il significato profondo – tanto a livello matematico che, soprattutto, a livello fisico – di queste relazioni. Però si può arguire che un tale significato esista. E riuscire a individuare, sia pure in mezzo a tanta foschia teorica, la costanza di queste relazioni ci sembra il punto di partenza per ulteriori indagini, destinate a chiarire definitivamente questo problema.
4. A questo punto, non possiamo non ricordare quel che abbiamo visto in The Snefru Code parte 10 quanto alle complesse relazioni matematiche del raggio dell’elettrone con la trigonometria e – per mezzo della trigonometria, con ħ. Un argomento molto complesso, che qui non possiamo rivedere per ragioni di brevità. Però qui ci sentiamo costretti a ricordare che in quella sede avevamo visto che il raggio classico dell’elettrone, elevato alla potenza di sé stesso, ci dava questo valore
2,81794032672,8179403267 = 18,53023561112687123105481228456
Ottenuto questo risultato, lo avevamo trasformato in 1,85302.. x 10, ottenendo un numero straordinariamente simile al numero di Cheope. E infatti l’approssimazione a π che avevamo ottenuto era piuttosto buona. Ancora migliore era quella che avevamo ottenuto di 1/ɸ dividendo il solito 1,85302.. per c = 2,9979246
1,853023.. 1,853023.. = 3,13609.. ≈ π = 3,14159.. (-0,00549414475819792261999496395033)
1,853023.. : 2,9979246 = 0,618101.. ≈ 1/ɸ = 0,618033..
Qui possiamo anche aggiungere che questo numero (1,853023..) è vicinissimo (-0,00062) a quello cui, sottraendo il suo inverso, possiamo ottenere 1 + π/10
1,8536387.. – 1/1,8536387.. = 1,3141592.. = 1 + π/10
Il numero di Cheope e la sezione aurea del 3 si trovano a cavallo fra questo numero e quello cui, sottraendo il suo inverso, possiamo ottenere 1 + √10/10
1,8552412292.. – 1/1,8552412292.. = 1,31622776601..
E qui, per pura curiosità, possiamo notare che il numero che elevato alla potenza di sé stesso ci da 10 è molto simile a √2π. Infatti
2,50618415..2,50618415.. = 10; 2,50618415.. ≈ √2π = 2,5066282..
Lo riconosciamo: tutto questo strano genere di rapporti potrebbe essere il frutto di una serie di coincidenze, e nulla più. Alla fine, a nessun matematico al mondo era mai passato per la testa di indagare le caratteristiche e i reciproci rapporti di quei numeri che, elevati alla potenza di sé stessi, ci danno la possibilità di ottenere, π, ɸ, √10, etc. E questo potrebbe voler dire che i pochi casi di interesse che abbiamo segnalato potrebbero anche essere gli ultimi. Ma, per altro verso, essi potrebbero anche essere la punta dell’iceberg di una matematica di tipo radicalmente diverso da quella a cui siamo abituati. Una matematica che è capace di descrivere l’atomo – e dunque l’universo – con una profondità che ci è ancora sconosciuta. Dunque, anche di aprire delle prospettive di trasformazione della materia che in questo momento non siamo capaci di immaginare.
A questo proposito, prima di tornare al nostro argomento principale, possiamo e forse dobbiamo osservare ancora che dal numero cui, sottraendo l’inverso, possiamo ricavare 10, si può ricavare una buona approssimazione di c = 2,9979246 in due modi diversi. Il numero in questione è quello che vediamo sotto
10,099019513592783.. – 1/10,099019513592783.. = 10
I due modi per ricavare c sono questi che vediamo qui sotto
sen x (Ln 10,099019513592783 : 2) – 1 = 0,156219170636376..
x = 8,98751099.. ≈ c2 = 8,9875519..
10,099019513592783.. 10,099019513592783.. =
= 13875075423,522083368355394813925
[(8√13875075423,522083368355394813925) : 10] : 3 == 1,8525904419608153238345983439707 : 3 = 0,617957.. ≈ 1/ɸCheope = 0,617821..
10,099019513592783√10,099019513592783 = 1,2573125166713108687691971044234
[(1,2573125..1,2573125..) – 1] = 1/(1,333617.. – 1) = 1/0,333617.. = 2,9974462.. ≈ c = 2,9979246Dallo stesso numero possiamo inoltre ricavare una buona approssimazione di ɸCheope nel modo che vediamo sotto
Ln (10,099019513592783.. : 2) = 1,61929116.. ≈ ɸCheope = 1,61859034..
Prima di andare oltre, conviene osservare che se eleviamo il raggio classico del protone rp = 1,535 alla potenza di sé stesso e poi lo dividiamo per quell’approssimazione di π che abbiamo trovato nel sarcofago di Djedefre (πDjedefre = 3,12179..), otteniamo di nuovo un’ottima approssimazione di ɸCheope – 1
1,5351,535 : 3,12179.. = 1,930529.. : 3,12179.. = 0,61840358.. ≈ ɸCheope – 1 = 0,61859034..
Oppure, se prendiamo quel numero che elevato alla potenza di sé stesso ci da 5 (e il 5, lo ricordiamo, può essere visto (ɸ + 1/ɸ)2 cioè, in ultima analisi, come una funzione di ɸ), che è questo che vediamo sotto
2,12937246.. 2,12937246.. ≈ 5
e poi il numero che elevato alla potenza di sé stesso ci da il numero di Eulero, che è questo
1,76322283435.. 1,7632228335..= 2,718281828..
ecco che scopriamo che elevando il numero che elevato alla potenza di sé stesso ci da 5 per quello che elevato alla potenza di sé stesso ci da il numero di Eulero e poi dividendo il prodotto per due, troviamo una buona approssimazione della costante che ci serve per calcolare la massa del protone
(1,76322283435.. 2,12937246.. ) : 2 = 3,345644.. : 2 = 1,672882.. ≈ mp = 1,6725
È del tutto chiaro che una matematica tanto inusitata – per di più applicata alla meccanica quantistica – necessita di ulteriori approfondimenti e verifiche. Ma almeno lo stimolo per iniziare una ricerca sembra che possiamo dire che lo abbiamo trovato.
5. Tornando ai rapporti fra il raggio della prima orbita dell’elettrone e il raggio classico del protone, e in particolare a quel misterioso valore costante che abbiamo creduto di poter individuare (1,012186..), dobbiamo osservare che questo numero – che di nuovo risulta all’apparenza del tutto inusitato e insignificante – corrisponde invece in modo abbastanza esatto al rapporto fra la costante di Planck h così come viene utilizzato adesso (6,626) e quello che invece venne misurato da Plank stesso all’inizio del secolo (6,55).
In The Snefru Code parte 9 avevamo visto come questi due valori siano legati fra di loro da una proporzione trigonometrica tale per cui, se interpretiamo 6,626 come una tangente e poi ne facciamo l’inverso, interpretando il risultato come un coseno, ecco che ci accorgiamo, che questo è il coseno di quell’angolo che ha come tangente 6,55. Per le complesse conseguenze storiche di questo fatto straordinario, rimandiamo il lettore a The Snefru Code parte 9. Ma, per quanto riguarda l’aspetto strettamente matematico, conviene rinfrescarci un po’ le idee, e rivedere in concreto il calcolo
cos x = 1/6,626 = 0,15092061575611228493812254753999
x = 81°,319718653708886232001844325622
tg 81°,319718653708886232001844325622 = 6,550105..
Ebbene, quel che ci apprestiamo a scoprire è che questa non è la sola proporzione che lega il valore della costante di Planck così come viene usato oggi e quello che fu calcolato da Planck stesso all’inizio del secolo. Questi due valori – che con ogni probabilità non sono altro che i punti estremi di oscillazione di quella che dunque dovrebbe essere una variabile, e non una costante – sono legati da una proporzione molto simile a quella del valore costante che sembra legare la prima orbita di Bohr al raggio classico di protone ed elettrone. Infatti
6,626 : 6,55 = 1,011603.. ≈ [(1bohr/re) : 10] : √[(1bohr/rp) : 10] = 1,012186.. (-0,000582)
La differenza è leggermente inferiore a 6 decimillesimi. Cioè, in un certo senso, del tutto trascurabile, dato che – come abbiamo detto più volte – le costanti utilizzate per descrivere l’atomo sono soggette a oscillazioni a volte piuttosto notevoli – almeno a partire da secondo o terzo decimale – a seconda dei criteri che sono usati per stabilirle.
Inoltre, questo valore può essere considerato una vecchia conoscenza perché lo avevamo già incontrato una ventina di pagine fa in relazione a quel numero (√10 – 3) che mostrava caratteristiche in parte simili al numero d’oro. Tramite esso avevamo già ottenuto numerologicamente questa costante nel modo che rivediamo sotto
[(√10 – 3) x 1000] : 2 = 162,277660168379331998893 : 2 = 81°,13883008418966599944677221..1/sen 81°,13883.. = 1,012079689..
6. Con un po’ di buona volontà, questo potrebbe essere considerato come un ennesimo “dono del caso”, se non fosse per il fatto che questa proporzione la possiamo ricavare in un altro modo, ancora una volta legato alla trigonometria. Infatti, se consideriamo c2 = 8,9875519.. come un angolo, e poi andiamo a fare l’inverso del coseno che ne risulta abbiamo che
1/cos.2,99792462 = 1/cos.8,9875519.. = 1/0,9877223.. = 1,0124303.. ≈
≈ [(1bohr/re) : 10] : √[(1bohr/rp) : 10] = 1,012186.. (+0,00036)
Di fronte a un fatto come questo, non possiamo non ricordare che la nostra ricerca scientifico-matematica è partita dall’analisi di reperti storici Antico Egizi. In particolare, dalla Grande Piramide e dalla piastra che il colonnello Vyse rinvenne al temine del Pozzo Stellare Sud della Camera del Re. Questo ci spinge ad osservare che il minimo raggiunto da Orione a Giza nel 10500 AC corrispondeva proprio a un angolo attorno ai 9°, numerologicamente molto simile a c2 = 8,9875519.. Ma c2 è esattamente il valore della costante che ci serve per ottenere l’energia contenuta nella massa nella celebre equazione di Einstein, E = mc2. E c2 corrisponde anche al valore della costante di Coulomb, se escludiamo la potenza del 10.
Tutto questo ci dice che nei parametri astronomici di Giza troviamo di nuovo l’allusione a una costante fisica fra le più fondamentali, che è stata fino ad adesso trascurata. D’altra parte, quei calcoli che abbiamo visto sopra sembrano mostrare che c2 – considerata come un angolo – contiene in sé un numero che descrive rapporto fondamentale fra i raggi classici di protone ed elettrone e quello della prima orbita di Bohr: un rapporto di cui fino ad oggi non eravamo affatto coscienti.
Inoltre (e questo pare un fatto ancor più importante) possiamo ricavare un valore simile a 1,012186 anche per via cosmologica, facendo la radice-π del rapporto fra numero dei giorni “puri” del calendario solare Antico Egizio (360) con il numero di giorni dell’anno delle eclissi. Infatti
π√(360 : 346,6) = 3,141592..√1,03866128.. = 1,012147.. ≈ [(1bohr/re) : 10] : √[(1bohr/rp) : 10] = 1,012186..
E qui non ci può non tornare in mente tutta la complessa ricerca che abbiamo svolto in The Snefru Code parte 10 sulle misure della Camera del Re, in cui avevamo studiato la relazione fra le costanti scientifiche e i più importanti cicli cosmici che riguardano il nostro pianeta. Questa che abbiamo visto adesso sembra l’ennesima conferma che quelle stesse proporzioni matematiche che scopriamo nel microcosmo sono le stesse che regolano il macrocosmo.
Abbiamo già analizzato alcuni di questi rapporti in The Snefru Code parte 3 e parte 7, ma un lavoro più approfondito lo pubblicheremo speriamo fra non molto. Un lavoro in cui vedremo come il sistema solare tutto sembra girare intorno a quelle stesse proporzioni che regolano il sistema armonico dell’atomo (in appendice a The Snefru Code parte 3 della versione francese di questo sito questo materiale, che in italiano ancora manca, è già stato quasi completamente pubblicato).
7. Tornando all’analisi dei valori costanti che determinano la struttura dell’atomo, noi sappiamo che le distanze delle orbite degli elettroni dal nucleo sono intimamente connesse con il loro stato energetico, connesso a sua volta con il numero quantico principale. Sembra quindi che fra spazio e stato energetico vi sia, a livello microscopico, un’intima connessione, simile a quella che nella relatività generale troviamo fra massa ed energia.
Ma se noi prendiamo sul serio l’ipotesi che abbiamo fatto sopra, ovvero che lo spazio non sia altro che una particolare forma di energia – in grado di opporsi sia all’attrazione coulombiana che a quella gravitazionale – ne risulta che una via possibile per giungere alla teoria dei campi unificati sia una qualcosa che potremmo definire come la radicale generalizzazione della relatività generale. In essa lo spazio entra nella definizione del’atomo proprio come la massa e la carica elettrica. Ovvero: con la dignità di una forza elementare.
Ma se lo spazio diventa una forza come le altre, a questo punto non può essere pensato come una premessa dell’esistenza dell’atomo e delle particelle, ma invece come un costituente dell’atomo che si situa allo stesso livello di massa, carica elettrica, e spin.
Radicalizzando il principio di complementarità, si potrebbe pensare di descrivere l’atomo esclusivamente in termini spaziali. In questa descrizione comparirebbero solo estensioni: raggio classico (a cui sono connesse la carica e la massa), il raggio degli orbitali e le lunghezze d’onda (a cui sono connessi gli stati energetici e la frequenza, e dunque il tempo). Ma da queste estensioni spaziali si potrebbero dedurre tutti gli altri parametri. Viceversa, si potrebbe costruire un altro genere di descrizione in cui le determinazioni spaziali sono escluse, ma implicitamente contenute nei dati. E proprio in questo consisterebbe la teoria dei campi unificati che fu codificata nella Grande Piramide: nella possibilità di trasformare ogni elemento della realtà in ogni altro, dato che ogni elemento della realtà è da pensarsi come relativo/complementare all’altro.
8. Comunque sia, tutte quelle relazioni armoniche che abbiamo fino ad adesso analizzato hanno delle ovvie conseguenze sulle equazioni in cui vengono messi in rapporto i valori dinamici delle particelle elementari. Siccome abbiamo già visto queste cose in The Snefru Code parte 3 e parte 7 non ripeteremo il lavoro che abbiamo svolto in quella sede. Però riportiamo uno di quegli esempi, perché ci offrirà l’occasione per fare un’osservazione che risulta interessante in relazione all’idea che abbiamo esposto sopra: ovvero che lo spazio possa essere considerato una forma di energia.
Possiamo cominciare la nostra esposizione dal fatto che la massa dell’elettrone me e il raggio classico dell’elettrone re sembrano essere determinati da una relazione prossima a 2ɸ
me/re = 9,1091 : 2,81777 = 3,23273… ≈ 2ɸ
Possiamo ricavare così una buona approssimazione della massa dell’elettrone me dal suo raggio classico re e da 2ɸ
me = re 2ɸ = 9,118495..
Se accettiamo l’errore contenuto in questo risultato, considerando fra l’altro che questi valori sono soggetti a oscillazioni dovute al contesto sperimentale e ai criteri di determinazione, potremmo trasformare la celebre equazione sulla lunghezza d’onda dell’elettrone di De Broglie, che vediamo qui sotto
λ/v = h/me
in questo modo
λ/v = h/me = (seno (π/2)° + coseno (π/2)° + tangente (π/2)°) x 2π/re x 2ɸ
Ma se facciamo 1 il raggio dell’elettrone (se lo teniamo cioè come unità di misura) ecco che l’equazione diventa una semplice funzione di π e ɸ
λv = h/me = (seno π/2° + coseno π/2° + tangente π/2°) x 2π/2ɸ
Invece, la lunghezza d’onda dell’elettrone λ è uguale alla lunghezza dell’orbita divisa per n. Se il raggio dell’orbita è 1bohr, ecco che la formula diventa
λ = 2π 1bohr/n
Se accettiamo l’approssimazione di 1bohr che abbiamo visto sopra
1bohr = 2ɸ + (√ɸ)3 = 5,294239..≈ 1bohr = 5,292.. (+0,003)
Noi possiamo trasformare la formula di De Broglie in questo modo
{2π [2ɸ + (√ɸ)3] /n} v = (sin π/2° + cos π/2° + tg π/2°) x 2π/2ɸ
Di conseguenza abbiamo che v sarebbe uguale a
v = [(sen (π/2)° + cos π/2° + tg (π/2)°) x 2π] : {2ɸ {2π [2ɸ + (√ɸ)3]/n}}
9. A questo punto possiamo fare l’osservazione che più ci interessa, ovvero che la massa del protone sembra avere un rapporto molto stretto con il raggio della prima orbita dell’elettrone e proprio per mezzo di ħ, dato che
1bohr : 3ħ = 5,292 : 3,1637.. = 1,6727.. ≈ mp = 1,6726..
D’altra parte, abbiamo visto in The Snefru Code parte 3 e 7 che l’angolo caratteristico della piastra che Vyse ha ritrovato all’estremo del Pozzo Stellare Sud della Camera del Re è proprio quell’angolo che ha per tangente c = 2,9979246. Questo angolo è quello di 71°,55315… Se dividiamo 1bohr per il coseno di quest’angolo moltiplicato per 10, ecco che di nuovo ci troviamo di fronte a una discreta approssimazione di mp
1bohr : (10 x cos 71°,55315..) = 5,292 : (10 x 0,316424..) = 5,292 : 3,16424.. = 1,67243.. ≈ mp = 1,6726..
Una proporzione di questo genere ci può dare un’idea di quel che può voler dire quel che dicevamo sopra: ovvero che lo spazio (in questo caso il raggio della prima orbita dell’elettrone) si può tradurre in energia. In questo caso, vediamo che si può tradurre nell’energia connessa a quella della massa del protone (dato che E = mc2) per mezzo di ħ. E, inoltre, abbiamo di nuovo una misteriosa connessione fra questo valore e la proiezione trigonometrica di un valore intimamente connesso con l’energia, vale a dire con l’angolo che ha per tangente c = 2,9979246.
Certo, questo calcolo – ottenuto a partire da un metodo che, almeno prima facie, pare un po’ rozzo, esclusivamente basato sull’intuizione e privo di qualsiasi fondamento empirico e teorico, potrebbe essere del tutto ingannevole. Quindi va preso, come si dice, con le molle. Però non possiamo escludere che analizzando una proporzione di questo genere con mezzi sperimentali non si possa arrivare a un’equivalenza empiricamente fondata fra il valore energetico della massa del protone e il raggio della prima orbita dell’elettrone.
Se davvero riuscissimo ad arrivare a una verifica empirica di questo genere, questo sarebbe una conferma della nostra tesi, ovvero che nell’ambito dell’atomo ogni elemento – spazio incluso – va considerato come una forza, e ogni forza come una funzione di ɸ, di π, di 10 e del numero di Eulero. Dunque, il campo gravitazionale espresso dalla massa dell’elettrone, del protone e del neutrone risulterebbe un’emanazione di una particolare distribuzione nello spazio del campo magnetico. O, viceversa, siccome le grandezze sono connesse per mezzo del raggio, il campo magnetico risulterebbe da una particolare distribuzione della massa nello spazio.
Se le cose stessero in questa maniera, tutto quel che ci rimarrebbe da capire è come mai, oltre un certo limite di grandezza, gli effetti dovuti al principio di indeterminazione tendono a svanire (diciamo intenzionalmente “tendono a svanire” e non “svaniscono” perché in certi casi, alcuni dei quali ben conosciuti, non è chiaro se svaniscano o meno (il caso del gatto di Schrödinger, o gli effetti che possono avere sul cervello, ovvero sul paradosso che la natura stessa costruisce, quello di un meccanismo biologico macroscopico funzionante però sulla base miliardi di miliardi di entità microscopiche, e quindi influenzate dal principio di indeterminazione)
10. Quello che abbiamo detto, lo riconosciamo, non è – in senso assoluto – una novità, dato che già la teoria della relatività ci aveva avvertito che l’energia può essere pensata come uno stato della materia, e la materia uno stato dell’energia. Da un certo punto di vista, l’operazione che abbiamo compiuto è piuttosto banale, come vedremo meglio nel capitolo successivo. Tutto quel che abbiamo fatto non è altro che estendere e radicalizzare la teoria della relatività fino alle sue estreme conseguenze, rendendoci così conto che in questo modo essa va a coincidere con il principio di complementarità – se anche questo accettiamo di portarlo fino alle sue estreme conseguenze.
In questo modo avremmo anche inteso l’origine del monofisismo in quanto teoria religiosa. Infatti, se le nostre ipotesi corrispondessero a realtà, potremmo affermare su basi scientifiche che ogni entità è sé stessa e anche tutte le altre (o, usando le parole di Platone: che nessun elemento è quel che è, perché muta o può mutare continuamente in un altro). Questo vuol dire, che tutte le diverse o diversissime entità che costituiscono l’universo sono in realtà Una e la Stessa, che ogni volta si mostra con un volto diverso.
11. Rimane ancora aperto il problema, spinosissimo, di come sia possibile proiettare la struttura dell’atomo – e dunque in ultima analisi dell’intero universo – in un sistema astrattissimo come quello della trigonometria a base 360. Questo è un problema talmente enorme che, per forza di cose, non possiamo analizzarlo in questa sede, dato che gli scopi che ci siamo prefissati sono altri. Possiamo però ipotizzare che vi sia qualcosa come un isomorfismo logico-strutturale fra le funzioni d’onda che descrivono le entità microscopiche e quelle che si possono ricavare dalla funzione del seno e del coseno (che già ad oggi, in veste grafica, appaiono come onde), come anche da quelle di seno + coseno, o da seno + coseno – tangente, etc.
In altre parole, può darsi che tutti quei miracolosi rapporti di proporzionalità che esistono, per esempio, fra π e ħ (con ħ che risulta dalla somma di seno, coseno e tangente di π/2) siano dovuti a interazioni particolari di tutte quelle “onde” che si possono costruire a partire dai valori fondamentali della trigonometria.
Ma, come ripetiamo, questa è una difficoltà il cui superamento rimandiamo ad un lavoro successivo. Qui ci limitiamo a notare che, se tutto quanto abbiamo ipotizzato fino ad adesso risultasse verificato, questo potrebbe significare solo una cosa: che l’universo è stato creato da Dio sulla base della trigonometria con l’angolo giro diviso in 360 parti. Dunque questa trigonometria non sarebbe da considerarsi di origine babilonese, ma divina. In questo modo, avremmo anche risposto alla domanda più fondamentale fra quelle che hanno tormentato i filosofi della scienza negli ultimi secoli. Questa domanda è: perché la matematica è in grado di descrivere la realtà? Ebbene, la risposta è questa: perché la realtà, nelle sue profondità ultime, non si distingue dal numero. Il rapporto fra matematica e realtà sarebbe dunque del tutto simile a quello fra il linguaggio musicale e la musica.
Comunque sia, adesso che l’analisi matematica della struttura armonica dell’atomo è giunta a un buon punto, possiamo volgerci ad analizzare le possibilità che questa teoria dei campi unificati Antico Egizia ci offre per risolvere tutti quei problemi ermeneutici ed epistemologici che sono a tutt’ora lasciati aperti dalle nostre teorie scientifiche: la meccanica quantistica e la meccanica einsteiniana.
parte 5: UNA POSSIBILE SOLUZIONE DI ALCUNI PROBLEMI EPISTEMOLOGICI LASCIATI APERTI DALLE TEORIE COSMOLOGICHE CLASSICHE E DALLA MECCANICA QUANTISTICA A PARTIRE DALL’IDEA CHE SPAZIO E TEMPO POSSANO ESSERE CONSIDERATI ALLA STREGUA DI FORZE FISICHE COME TUTTE LE ALTRE
1. I problemi che le nostre attuali teorie scientifiche più evolute lasciano aperti appaiono sia di natura empirica, sia di natura logica ed epistemologica. Nel caso della meccanica einsteiniana abbiamo scoperto che le sue previsioni, in alcuni casi, non sembrano concordare con i fatti osservabili. Ma, per altro verso, già da tempo sapevamo che questa teoria sembra prevedere nulla di meno che la contraddizione dei suoi stessi presupposti (infatti, da un lato la teoria presuppone che nessun corpo possa muoversi a una velocità superiore a quella della luce, dall’altro prevede l’esistenza di entità particolari – i buchi neri – in cui i corpi vengono accelerati a una velocità superiore a quella della luce).
Per altro verso, la meccanica quantistica tende a suscitare ogni sorta di perplessità perché – pur avendo retto a ogni tentativo di falsificazione, e pur sembrando consistente dal punto di vista logico-matematico – ha degli aspetti che sembrano non aver nulla a che vedere con la realtà con cui abbiamo a che fare nel mondo quotidiano. Elettroni che “saltano” istantaneamente da un’orbita quantizzata all’altra (raggiungendo dunque una velocità infinita?), onde che sono particelle e particelle che sono onde (ma solo di probabilità): dove poter osservare qualcosa di simile durante la vita quotidiana? Che cosa hanno a che fare questi stranissimi fenomeni – non diciamo con il senso comune – ma anche solo con una meccanica – per quanto sconvolgente – come quella di Einstein, dove ancora regnano incontrastati continuità e determinismo?
Ebbene, noi siamo convinti che una possibile soluzione di questi problemi empirici, filosofici ed epistemologici sta proprio nell’interpretare spazio e tempo (o: lo spazio-tempo) non come un luogo in cui i fenomeni accadono, ma come delle forze che costituiscono i fenomeni. Forze (o: elementi) che si trovano sullo stesso piano di massa e magnetismo, e che con massa e magnetismo interagiscono stando sullo stesso piano.
Sul momento, una concezione di questo genere può parere del tutto scioccante, o addirittura completamente assurda. Ma siamo fiduciosi che il lettore, seguendo passo passo l’argomentazione, arriverà a concordare con le nostre conclusioni. O, almeno: a considerare la nostra ipotesi di lavoro come una possibilità concreta di evolvere lo stato della nostra scienza empirica, sia sul piano matematico sia su quello ermeneutico.
2. Probabilmente, il punto di partenza più opportuno di questa indagine è ancora oggi lo stupore che Isaac Newton provò di fronte alla sua scoperta scientifica più celebre, la teoria della gravitazione universale. La sua espressione matematica, che più o meno tutti abbiamo appreso alle scuole superiori, appare una formalizzazione matematica di questa relazione concettuale: la forza di attrazione gravitazionale (Fg) che si genera fra due oggetti dotati di massa m1 e m2 è uguale al prodotto di queste due masse e di un valore costante G (che però non corrisponde ad alcuna realtà fisica direttamente osservabile) fratto la distanza fra le due masse (d) elevata al quadrato. Questa formula si può scrivere in questo modo
Fg = (G x m1 x m2) : d2
Come abbiamo detto, questa formula è familiare più o meno a tutti. O, almeno, a tutti coloro che hanno ricevuto un’istruzione che corrisponde più o meno a quella media superiore. Tanto familiare che nessuno o quasi nessuno oramai è in grado di neppur più immaginare la meraviglia o forse addirittura lo sgomento che Newton provò di fronte alla natura inusitata di quella misteriosa forza, la forza di gravitazione universale, con cui cercava di spiegare il funzionamento del sistema solare.
In effetti, questa formula appare – almeno apparentemente – molto chiara solo perché il formalismo matematico presuppone e al tempo stesso nasconde un concetto che invece, a ben vedere, risulta molto oscuro e problematico. Un concetto che Newton fu tanto pronto a notare quanto al giorno d’oggi siamo inclini a trascurare.
Quella formula infatti presuppone che una massa possa agire (nel senso di “attrarre”, ovvero di “trascinare verso di sé”) un’altra massa attraverso lo spazio (cioè attraverso il vuoto). E a quei tempi un concetto di questo genere appariva tanto inconcepibile quanto oggi risulta scontato o perfino banale.
La ragione di questa, chiamiamola così, discrepanza emotiva fra noi e Newton, è che a quell’epoca la parola “causa” – almeno in ambito fisico – era sinonimo di un concetto che potremmo esprimere così: urto di una porzione di materia contro un altro pezzo di materia. L’urto allora era considerato non come una causa fisica fra le tante possibili, ma “la” causa fisica (distinta da altre, di tipo metafisico). Nel senso che allora era l’unico modo con cui si concepiva la possibilità che una porzione di materia potesse agire su un’altra porzione di materia (sui manuali delle medie superiori un esempio tipico di questo genere di interazione causale è stato per molti anni il reciproco interagire delle palle che si muovono su un biliardo).
Parimenti, il moto era l’unica forza dinamica che a quel tempo si attribuiva alla materia (la materia allora veniva concepita, seguendo l’idea di Cartesio, come un’estensione di pieno, in sintonia/contrapposizione allo spazio, che era concepito come un’estensione di vuoto). A nessuno passava per la testa un’idea, comunissima oggigiorno, come quella del “campo di forza”. Un qualcosa come una “azione a distanza”, veniva attribuita esclusivamente alla magia.
Come ben si vede, questa visione della causalità fisica coincide in modo praticamente perfetto con quella di Epicuro e dell’atomismo Greco Classico in generale. Tanto era radicata questa visione del mondo che Newton concepì anche la luce come un corpuscolo, e non fu affatto facile per Young andare contro le convinzioni diffuse nel suo tempo, e dimostrare che aveva le caratteristiche di un’onda.
Ma se nell’urto fra due porzioni di materia in moto si risolve ogni causa fisica, come è possibile – si domandava Newton e con lui gli scienziati e gli intellettuali dell’epoca – che una porzione di pieno possa agire su un’altra porzione di pieno senza arrivare in contatto con essa?
Fu a commento di questo problema posto dalla sua stessa teoria – un problema che a quel tempo risultava davvero scioccante – che Newton pronunciò la celebre frase “ipotesi non fingo”. Questa frase significa più o meno questo: un fenomeno come la gravità (cioè: il fenomeno dell’azione-attrazione a distanza fra due masse) non può essere altro che il frutto di qualcosa come la magia. Dunque, è del tutto impossibile proporre ipotesi di spiegazione, o almeno: ipotesi di tipo scientifico. Infatti la scienza si occupa o dovrebbe occuparsi solo di corpi che arrivano fra di loro in contatto (e che in questo modo si scambiano fra di loro quantità di moto).
3. Alla luce di queste considerazioni, lo sgomento di Newton appare più che comprensibile. Se solo proviamo a identificarci con lui e con il punto di vista prevalente del suo tempo, subito ci sorgerà spontanea la domanda: ma che cosa può voler mai dire un’espressione come Fg = (G x m1 x m2) : d2 ?!? Come è possibile che un’assurdità del genere possa corrispondere a qualcosa che accade effettivamente in Natura? La Natura infatti è opera di Dio (questo era infatti quel che credeva fermamente Newton), e Dio non può aver creato il mondo in modo assurdo!
In effetti, alla luce della concezione della causalità fisica che abbiamo sopra esposto, quella formula non sembra altro che un susseguirsi di contraddizioni e/o di non sequitur.
Come prima cosa, vediamo che sulla sinistra del segno “=” abbiamo un’entità incognita – Fg – che è o dovrebbe essere qualcosa come una “forza”. Questa forza però – seguendo le concezioni del tempo – scaturisce dal rapporto fra entità che forze non sono. Infatti, m1 e m2 – quando prive di moto e/o della possibilità di trasmetterselo reciprocamente per mezzo di un urto – non rappresentano una forza, ma materia inerte.
Lo stesso discorso vale per d2, che rappresenta una porzione di vuoto che separa le due masse: e il vuoto non ha nessuna possibilità di trasmettere né di ricevere impulsi di alcun genere. Quanto a G, si tratta di un puro numero, dato che ad esso non pare che nulla corrisponda o possa corrispondere nella realtà osservabile (esso è simile alla potenza a cui viene elevata “d”). E come possiamo pensare che un’entità tanto astratta – un puro numero – possa avere effetti di qualsiasi genere sul mondo reale, ovvero sulla materia? Oppure: come può qualcosa di assolutamente immateriale – come lo spazio – avere degli effetti sulla materia? Tanto vale rassegnarsi a credere alle streghe – si vorrebbe dire.
Però, contrariamente a quanto si potrebbe credere, questi enigmi a cui si trovò di fronte Newton, lungi dall’essere anacronistici, non sono stati ancora toccati dai progressi tecnico-matematici che da allora la scienza empirica ha compiuto. Il ruolo delle costanti nel mondo fisico rimane ad oggi completamente insoluto. Tanto ostico appare agli scienziati e ai filosofi della scienza che, in pratica, viene quasi sempre risolto col non affrontarlo. Quanto allo spazio, ancora Feynman si domandava come mai l’azione della massa sia quella del campo elettrico debbano dividersi in ragione del suo quadrato.
Stando così le cose, la perplessità di Newton e dei suoi contemporanei – non meno che di intellettuali di secoli successivi, fra i quali possiamo citare anche il Giacomo Leopardi dello Zibaldone – appare del tutto comprensibile. Molto meno comprensibile appare invece il modo piuttosto scontato con cui oggi si accetta una situazione che, almeno dal punto di vista logico ed epistemologico, appare enigmatica solo a chi non abbia il coraggio di riconoscerla come apertamente contraddittoria. Fin dalle elementari si impara che non si debbono sommare le pere con le mele, intendendo con ciò che non si possono mettere in diretta relazione entità eterogenee senza con ciò commettere un pasticcio logico, che si rivelerà poi tale nella sua completa inutilità pratica.
Questo è quel che si impara alle elementari. Poi però si arriva al liceo, e si comincia a studiare fisica. A quel punto, si deve constatare che pere e mele – se si vuol arrivare a padroneggiare la caduta dei gravi – bisogna moltiplicarle e/o dividerle fra di loro. In effetti, se entità come la massa o la forza di gravità le consideriamo pere – perché corrispondono a delle misurazioni ben definite che si possono effettuare su oggetti ben definiti – un’entità come G dobbiamo considerarla come una mela, dato che non risulta da misurazioni che si possono effettuare su questo o quell’oggetto. Inoltre, vediamo che la distanza indebolisce la forza in ragione del suo quadrato. Ma la distanza è puro vuoto! Come può il puro vuoto indebolire l’azione di una forza? Non ci aveva insegnato Galileo, che un corpo che si muove di moto rettilineo uniforme e che non venga turbato dall’azione di altri corpi, mantiene intatto il suo moto potenzialmente per l’eternità?
Arrivando all’università, le cose si complicano un po’, e se andiamo a fare fisica ci spiegano che il campo gravitazionale si propaga nel vuoto a una velocità più o meno pari a quella della luce per mezzo di particelle – cioè di corpuscoli – sia pure di tipo un po’ particolare. Questa nuova concezione ovviamente, posto che risolva qualche problema, non risolve quello che a noi interessa di più in questo momento: come può il vuoto diminuire l’azione di questi corpuscoli in ragione del quadrato della distanza dal punto in cui sono stati emessi? Il principio di inerzia non sarebbe in questo modo falsificato?
Certo, le misurazioni e gli esperimenti – non meno che le operazioni che compiamo tutti i giorni con elettrodomestici e macchine derivate dalle nostre teorie scientifiche – confermano costantemente che lo spazio (cioè: il vuoto) ha un’azione sulla forza di gravità come anche sul magnetismo. Questo è vero. Ma che significato può avere una situazione del genere?
4. La soluzione di questo problema l’abbiamo accennata nelle parti precedenti di questo scritto e, alla fine, consiste né più e né meno che nello sviluppare fino alle sue estreme conseguenze logico-epistemologiche la saggia raccomandazione che ci è stata fatta alle elementari. Pere e mele, ci è stato detto, non si devono sommare. Se questo è vero, allora non si devono neppure dividere o moltiplicare fra di loro. Però, se ci troviamo costretti a moltiplicare e dividere pere e mele – e da ciò si ottengono ottimi risultati! – questo può significare soltanto una cosa: che quelle che ci appaiono come pere e mele (cioè come entità del tutto eterogenee fra di loro) sono invece, in un certo senso, la stessa cosa: altrimenti, come potrebbero stare tutte insieme dentro la stessa equazione?
Già l’etimologia della parola “equazione” ci dice che le entità che vengono messe in relazione devono essere sostanzialmente omogenee – dato che “equazione” viene dal latino aequare ‘uguagliare’. Se il fisico “uguagliasse” fra di loro entità che invece uguali non sono non potrebbe ottenere buoni risultati. Ma i buoni risultati vengono: dunque le entità che vengono “uguagliate” debbono condividere una medesima sostanza. Ed è questa sostanza che rende possibile la loro “equazione”.
Un passo in questa direzione venne fatto da Einstein, quando propose che energia e materia siano da considerarsi, in un certo senso, come la stessa cosa. La sua celeberrima equazione, E = mc2, ci dice proprio questo. Ma, a ben vedere, ci dice anche altro.
In effetti, nel modo in cui l’abbiamo appena scritta, l’incognita è “E”. Ma, d’altra parte, l’incognita potrebbe essere “m”. Allora l’equazione dovremmo scriverla in questo modo: m = c2/E. Ma, giunti a questo punto, come potremmo evitare di arrivare alle estreme conclusioni del ragionamento? L’incognita potrebbe essere la velocità della luce, e allora dovremmo scrivere c = √(mE). Dunque, la conseguenza ultima della formula di Einstein è che non solo massa ed energia sono la stessa cosa (un concetto molto arduo, dal punto di vista del senso comune, ma infine in qualche modo comprensibile), ma che la velocità partecipa – deve partecipare – dell’omogeneità logica che deve regnare nell’equazione perché essa possa essere – in senso pieno – un’uguaglianza.
Dunque, se massa ed energia sono una forza, allora lo è anche la velocità. Ma che altro è la velocità, se non un certo spazio percorso in un certo tempo?
In particolare, la velocità della luce è c = 2,9979246 x 108 m/s, cioè 299792460 metri al secondo. Dunque la formula di Einstein ci dice che questa velocità, la velocità della luce, è, almeno in un certo senso, la stessa cosa che la massa e l’energia (un po’ come π non è altro che la circonferenza e il raggio e viceversa). Ma se le cose stanno così, occorre pensare che questa velocità abbia qualcosa di davvero particolare, qualcosa che la distingue da tutte le altre velocità che si possono misurare nell’universo.
In effetti, la teoria della relatività ci dice che la velocità della luce ha davvero qualcosa di assolutamente unico: essa è la massima velocità che si possa raggiungere, e che un oltre non c’è né ci può essere. Questo accade perché, a quanto ci dice la teoria di Einstein, via via che un corpo si avvicina a questa velocità, la sua massa aumenta, intanto che il tempo e lo spazio (cioè lo spaziotempo) in cui si muove si contraggono. Questa funzione cresce in modo esponenziale e si arriva al punto che, raggiunta la velocità della luce, la massa sarebbe infinita, e lo spazio e il tempo si contrarrebbero in un punto inesteso.
Ora, che spazio e tempo si contraggano in un punto inesteso è qualcosa che di fatto può anche accadere, e che la teoria prevede: la luce infatti si muove in uno spaziotempo che è un punto inesteso. Quel che invece secondo la teoria non può accadere è che una massa infinita si possa muovere – non diciamo alla velocità della luce – ma anche solo con quella di una lumaca. Infatti, siccome per mezzo della teoria della relatività si pensa che l’universo sia finito, è per forza di cose finita anche la quantità di energia da esso posseduta. Ed una quantità di energia finita non può smuovere nemmeno di un centimetro una massa infinita. Questo pone dei limiti alla velocità con cui l’uomo può pensare di far viaggiare – per esempio – un’astronave che volesse inviare in esplorazione in giro per il cosmo.
5. Questa visione di Einstein è oggi universalmente o quasi universalmente accettata, anche se non da tutti e anche se vi sono dei problemi che la sua teoria lascia aperti (pur senza voler negare in nessun modo la sua capacità di descrivere un gran numero di fenomeni e la sua non meno innegabile e formidabile utilità pratica).
Per esempio, tutti sappiamo che la teoria della relatività si fonda sull’idea che la velocità della luce, da qualsiasi punto di osservazione la si misuri, rimane sempre la stessa. Questo vuol dire che se mi muovo verso una fonte di luce a una velocità di – supponiamo – ventimila chilometri al secondo, questa velocità non si sommerebbe a quella dei fotoni che mi vengono incontro. Se mi allontanassi a una velocità simile dalla fonte di luce, ugualmente questi ventimila chilometri al secondo non verrebbero sottratti alla velocità della luce. Il mio moto relativo avrebbe un effetto solo sulla frequenza dell’onda luminosa, che nel primo caso aumenterebbe e nel secondo caso diminuirebbe.
In ultima analisi, questo sembra voler dire che a sommarsi sarebbe l’energia, dato che la frequenza è uno dei fattori determinanti nel calcolo della quantità di energia posseduta da una particella qualsiasi, e dunque anche di quella di un fotone. Il significato profondo di questo aspetto della teoria sembra dunque questo: che il moto che percepiamo intorno a noi è un’illusione, è pura apparenza. In realtà, tutti i corpi sono immobili rispetto alla luce (o, come potremmo dire, rispetto alla velocità della luce, dato che l’unicità di questo valore è tale che “luce” e “velocità della luce” potrebbero senz’altro essere considerati dei sinonimi).
Inoltre, questo è un aspetto che sembra contraddittorio rispetto alla celebre formula che abbiamo visto sopra. E = mc2: questo sarebbe vero per tutte le particelle dell’universo, ma non per i fotoni, dato che per muoversi alla velocità della luce i fotoni dobbiamo immaginarli privi di massa. Ma, pur essendo privi di massa, i fotoni non sono e non possono essere privi di energia, dato che un fotone rappresenta appunto un quanto di energia.
Dunque per i fotoni l’equazione E = mc2 non varrebbe affatto. Oppure: vale in un modo un bel po’ particolare. E questa sembra una contraddizione piuttosto grave che, per quanto se ne sa, non si è ancora trovato il modo di risolvere in modo veramente soddisfacente.
6. Un altro problema della teoria della relatività sorge dal fatto che uno dei suoi postulati fondamentali è che da qualsiasi punto dello spazio si può ottenere una descrizione vera dell’universo: vera perché traducibile in quella che si può ottenere da qualsiasi altro punto dello spazio (che è diversa solo nel fatto fondamentale che il punto di riferimento è diverso dal nostro. Dunque, nella nostra descrizione ad essere in quiete siamo noi e ad essere in moto è la Luna; in quella che otterremmo dalla Luna, ad essere in moto è la Terra e ad essere in quiete sarebbe la Luna, come ben si sono accorti gli astronauti che vi sono sbarcati).
Dunque ogni punto di osservazione deve risultare equivalente all’altro – pena la falsificazione della teoria. In pratica, questo significa che l’affermazione galileiana – a cui tutti siamo inclini a dare credito – che è la Terra a girare intorno al Sole e non il Sole a girare intorno alla Terra – risulta falsificata dalla teoria della relatività. La teoria di Einstein ci dice invece che le due affermazioni – che Galileo vedeva come contraddittorie – sono e devono essere considerate invece come perfettamente equivalenti. A seconda del punto di riferimento che scegliamo, è la Terra che gira attorno al Sole o è il Sole che gira attorno alla Terra. Ed è proprio per questo che la teoria della relatività si chiama in questo modo: perché nessun punto dello spazio può essere considerato un punto di riferimento assoluto, o più assoluto di un altro. In effetti, se seguiamo fino in fondo la prospettiva einsteiniana, dobbiamo accettare che ogni punto dello spazio è un centro dell’universo, dato che l’universo – come abbiamo visto in The Snefru Code 3, nella parte dedicata a Platone – è una sfera dove il centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte.
A sua volta, questo significa che ogni punto dell’universo – ove sia considerato come punto di osservazione equivalente agli altri – deve essere considerato come immobile rispetto ai fenomeni osservati. Una cosa questa che deriva logicamente dal fatto che ogni punto dell’universo risulta immobile rispetto alla velocità della luce, che ha preso il posto dello spazio assoluto in quanto punto di riferimento rispetto al quale situarci nel cosmo.
Da ciò consegue a sua volta che, per quanto io possa accelerare rispetto a un sistema che prendo come punto di riferimento esterno, devo sempre pensare di stare immobile e che in realtà è il mio sistema di riferimento esterno ad accelerare. E, a questo punto, la conseguenza ultima è che il celebre paradosso dei gemelli sembra contenerne un altro, forse ancora più oscuro ed enigmatico di quello che per solito viene esplicitato.
7. Il paradosso dei gemelli è molto conosciuto, ma per chi non lo conoscesse ne offriamo una breve sintesi. Se immaginiamo un uomo che prende un’astronave e comincia a orbitare intorno alla Terra a una velocità prossima a quella della luce, per lui il tempo comincerebbe a passare più lentamente. L’effetto immediato, sarebbe che lui vedrebbe gli eventi che si succedono sulla Terra svolgersi in modo accelerato. Poi, al momento in cui riatterrasse, vedrebbe che il suo gemello è invecchiato più di lui. Una cosa che pare in un primo momento persino ovvia. Se sulla Terra gli eventi si susseguono a velocità maggiore che sull’astronave, anche l’invecchiamento biologico deve avvenire più rapidamente.
Questa formulazione del paradosso però non tiene conto del fatto che nella teoria della relatività ogni punto di riferimento risulta di fatto immobile rispetto allo spazio circostante. Questo significa che il gemello che viaggia sull’astronave potrebbe o forse dovrebbe considerare la sua accelerazione rispetto alla Terra non come un suo aumentare di velocità, ma come un aumento di velocità della Terra nel suo ruotare intorno al suo asse. Questo significa che quando torna sulla Terra il gemello più giovane dovrebbe essere quello che è rimasto a casa, e non lui. E che le cose debbano stare così ce lo conferma il fatto che, anche dal punto di vista della sua velocissima astronave, la velocità della luce verrebbe misurata allo stesso modo che sulla Terra. È vero, un raggio di luce che gli si fa incontro avrebbe una frequenza maggiore. Ma, d’altra parte, un raggio di luce che si allontana avrebbe una frequenza minore. E i raggi di luce possono venire da tutte le direzioni.
E, di nuovo, qui non è chiaro cosa si debba pensare di una situazione epistemologica di questo genere. Qui sembra emergere un elemento problematico nella teoria, che però per solito non viene mai menzionato. Neppure come una possibile illusione a cui sia soggetto il profano che si immerge negli studi della fisica senza l’opportuna guida di un esperto.
8. Il senso di questo paradosso, diciamo così, di secondo grado, che sembra trovarsi nel paradosso dei gemelli così come di solito viene raccontato, pare connesso con il fatto fondamentale che ogni corpo – per quanto il suo moto relativo rispetto a un punto di riferimento esterno possa essere cospicuo – rispetto alla luce rimane sempre e comunque immobile. E questo, a sua volta, sembra l’altro lato del paradosso per cui alla velocità della luce spazio e tempo sono contratti in un punto. Dunque tutto l’universo come noi lo conosciamo – esteso nello spazio e nel tempo – se percorso alla velocità della luce, svanisce, per così dire, come precipitando in sé stesso. Qui forse potremmo pensare che alla velocità della luce tempo e spazio sono fusi fra di loro. E possiamo trovare un’analogia fra questo fenomeno fisico e quello del neutrone, in cui la carica positiva e quella negativa sono fuse in un’entità che, di loro costituendosi, li annienta in quanto singolarità per sé esistenti.
Dunque, tenendo conto del complesso delle affermazioni della teoria della relatività, l’immobilità assoluta di ogni punto dell’universo rispetto alla luce (quella rispetto ad un altro punto di riferimento esterno di qualsiasi genere è solo relativa) sembra la “conditio sine qua non” della possibilità stessa dell’esistenza del tempo e dello spazio in quanto categorie della percezione.
Come abbiamo visto in The Snefru Code parte 3, l’universo relativistico è comparabile alla “sfera assoluta” di cui parlava Ermete Trimegisto quando diceva che “l’universo è una sfera il cui centro è ovunque e la cui superficie è in nessun luogo”. Questa sfera è, verosimilmente, quella stessa cui alludeva anche Parmenide, quando paragonava l’Essere a “una ben rotonda sfera” che non conosce né può conoscere l’alterità del non-essere.
Platone però non ha accettato questa dottrina, e nel Timeo – pur conservando l’idea dell’universo come una sfera perfetta – ha connesso l’idea di una continua trasmutazione degli elementi (che, secondo il Timeo, ne impedisce sempre e comunque la sicura definizione ostensiva): un’idea questa che non pare altro, diciamo così, che una sorta di “laicizzazione” della dottrina sacra di Eraclito (il che ci porta a ipotizzare che il pensiero di Eraclito e quello di Parmenide, a loro volta, non siano altro che una rielaborazione di tradizioni ermetiche Antico Egizie, se è vero che in The Snefru Code parte 3 siamo riusciti a dimostrare che quella di Platone, che pare una sintesi delle due, deriva proprio dall’Antico Egitto ermetico).
Ma, considerazioni storiche a parte, possiamo notare che è solo a partire da un concetto come quello che si attribuisce a Ermete Trismegisto che si può affermare sensatamente – come fa Platone nel Timeo – che tutte le entità che costituiscono l’universo si trovano alla stessa esatta distanza dal centro. Esse si trovano tutte alla stessa distanza dal centro perché ogni punto dello spazio così concepito è un possibile centro.
Ma è del tutto chiaro che, muovendoci in uno spazio cosiffatto, non possiamo mai giungere a un punto privilegiato, che possiamo definire come “un centro unico e assoluto”. Al contrario, nell’ambito di questa sfera assoluta ognuno dei suoi infiniti centri è un possibile centro assoluto, perché questa sfera si costituisce esclusivamente di punti-centro. Ma secondo la teoria di Einstein, proprio come nella sfera di Ermete Trismegisto (e dunque anche di Platone), ognuno dei punti dello spazio che ci circonda ha la stessa dignità in relazione al Tutto. Dunque, ognuno dei punti dello spazio è un punto di osservazione altrettanto valido che ogni altro per ottenere una descrizione vera dell’Universo. Tradotto in termini moderni, noi diciamo che ogni punto dello spazio relativistico è uno degli infiniti centri assoluti dell’universo. Ma per essere davvero assoluto questo centro deve essere anche immobile, perché in caso contrario non sarebbe un centro.
9. A questo punto, è il concetto stesso di “velocità” a diventare problematico, dato che la formula ordinaria – con cui tutti lo abbiamo imparato per la prima volta – ce lo offre come spazio percorso nel tempo, ovvero come v = s/t. Ma qui, di nuovo, abbiamo che la concezione ordinaria di questa relazione produce una grave contraddizione. Finché considero la formula nella forma v = s/t, tutto va bene, perché vediamo o crediamo di vedere rispettate le definizioni date da Newton. Scrive Newton a proposito dello spazio e del tempo:
“Lo spazio assoluto, per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, rimane sempre uguale ed immobile..
…il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata”.
Ma nel momento in cui scriviamo la formula in quest’altro modo t = s/v, ecco che la sua forma può apparirci di colpo oscura ed enigmatica, perché in questo caso potremmo vedere il tempo – che siamo abituati a concepire in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno – come dipendente da qualcosa – la velocità – che invece siamo abituati a considerare come in tutto e per tutto dipendente da quelle altre due entità – spazio e tempo – che siamo abituati a considerare assoluti. Ma la formula di Einstein ci dice proprio il contrario. Ci dice che spazio e tempo possono apparirci in quella forma con cui in modo tanto efficace li descrive Newton solo perché vi è qualcosa, la velocità della luce, attraverso la quale possiamo percepire ogni punto dell’universo – e dunque anche quello in cui di fatto ci troviamo – come uno dei suoi infiniti centri e dunque anche come uno degli infiniti possibili punti di osservazione da cui si può dare di questo stesso universo una descrizione vera. Vera perché traducibile in quella che potrei ottenere da uno qualsiasi degli infiniti centri – o “punti di osservazione” – di cui l’universo si costituisce.
Questo fatto viene confermato, sia pure in modo indiretto, dal modo in cui per solito viene definita dalla scienza moderna l’estensione dell’universo. Il valore attualmente considerato corretto è di circa 13 miliardi di anni luce. Quando si sente per la prima volta questa definizione di solito essa non risulta trasparente. Spesso, se non sempre, chi la offre si sente chiedere che cosa possa significare un’affermazione del genere. Infatti, nella vita quotidiana, quando si parla di un’estensione spaziale non si prende in considerazione il tempo. E la risposta è questa: un anno luce corrisponde allo spazio che la luce percorre in un anno. Considerando che la luce percorre 2,9979246 x 108 metri al secondo – siccome in un anno vi sono circa 3,15576 x 107 secondi – la luce percorre (2,9979246 x 108) x (3,15576 x 107) metri (notiamo di passaggio che un anno pari a π x 107 secondi durerebbe 363,61 giorni, mentre uno di √10 x 107 secondi ne durerebbe 366,004..: il periodo di rotazione della Terra attorno al Sole sembra stare dunque fra una funzione di π e di √10, proprio come i rapporti fra i raggi classici e le masse di protone ed elettrone).
Non è chiaro il motivo per cui si è scelto di definire l’estensione dell’universo in modo tale che nella definizione venga compreso anche il tempo. Pure, di fatto, questo è l’unico modo corretto di definirla, dato che la teoria di Einstein implica che spazio e tempo – in quanto categorie della percezione – presuppongono l’immobilità di ogni punto dello spazio rispetto alla velocità della luce. Dunque, misurare lo spazio percorso dalla luce di fatto risulta l’unico modo veramente soddisfacente di misurare il tempo, e misurare il tempo per cui la luce ha percorso lo spazio è l’unico modo veramente soddisfacente per definire lo spazio.
Un secondo di tempo può passare in modo assoluto solo quando noi osserviamo la luce percorrere 2,9979246 x 108 metri. E questa appare come una conseguenza del fatto che la luce è l’unico ente che – seguendo i dettami della teoria della relatività – possiamo considerare assolutamente e dunque realmente in moto. Infatti, che Einstein l’abbia compreso o no, una conseguenza del suo pensiero è che qualsiasi altro moto che non sia quello della luce è un moto apparente. Questo significa che quella formula solo apparentemente banale, v = s/t, che tutti abbiamo imparato fin da piccoli, quando parliamo della velocità ha un unico valore al tempo stesso possibile e reale, che è quello della velocità della luce: tutti gli altri valori sono da considerarsi frutto della misurazione o della teorizzazione di fenomeni da considerarsi illusori e/o irreali.
10. Partendo da questi presupposti – che tempo e spazio sono forze alla stessa stregua di massa e magnetismo e che l’unica velocità possibile e reale è quella della luce – se ci volgiamo alla formula E = mc2 adesso siamo forse in grado capire il perché in essa possa essere presente un valore come “c2”, di cui fino ad ora non si poteva comprendere chiaramente il ruolo.
Infatti, con questo nuovo modo di concettualizzare tempo e spazio, noi adesso possiamo affermare che tanto lo spazio che il tempo sono da considerarsi forze. Forze che stanno sullo stesso piano dell’energia (E) e della massa (m). E, se accettiamo questa concettualizzazione, allora non ci pare più assurdo che la velocità della luce possa comparire sul lato sinistro della formula, in quanto incognita. La velocità della luce (e dunque la luce) è infatti generatrice di spazio e tempo, e dunque anche dell’universo così come lo percepiamo. A partire dalla formula di Einstein noi possiamo concepire lo scorrere del tempo e il dilatarsi dello spazio come un prodotto della luce (e dunque della velocità della luce, la cui sostanza si risolve nella sua velocità), nello stesso senso e nelle stesso modo in cui possiamo concepire la velocità della luce come un prodotto del rapporto fra spazio e tempo. Molto giustamente in astronomia si esprime l’estensione spaziale dell’universo per mezzo della velocità della luce e del tempo. Parimenti, potremmo concepire l’età dell’universo come un prodotto del rapporto fra la sua estensione e la velocità della luce.
In buona sostanza, questo significa che nella celebre formula E = mc2 non vi è nessun elemento che non sia traducibile nell’altro. La velocità della luce è, come abbiamo detto, c = 2,9979246 x 108 m/sec. Dunque, un secondo di tempo corrisponde a
1 sec. = (m x 2,9979246 x 108 metri)2 : E
Secondo la teoria della relatività infatti non vi è tempo se non vi è uno spazio percorso dalla luce, e non vi è spazio se non vi è un tempo in cui la luce lo percorre, come non vi è luce se non nello spazio e nel tempo. Anche se, dal punto di vista della luce, tempo e spazio non esistono, almeno nel modo in cui li percepiamo noi, perché sono contratti in un punto inesteso.
A questo punto, siamo in grado di intendere il profondo significato scientifico del racconto della Creazione che troviamo nella Genesi. Prima che Elohim dicesse “Sia la luce” il cosmo era deserto e tenebra, perché senza luce, spazio e tempo – che sono le forme attraverso cui ordinariamente percepiamo il mondo – esistono solo come pura potenzialità del tutto informe, e dunque come caos. Quando Dio – con il nome di “Yahwhè” – si manifesta a Mosè sotto forma di un cespuglio che brucia senza spegnersi, con ogni probabilità dobbiamo intendere questo cespuglio come una metafora del Sole, e dunque della luce. Quindi, il Dio biblico che dice “sia la luce” – che in nella Genesi viene chiamato “Elohim” – si svela poi a Mosè come una divinità che genera sé stessa, che si autogenera pronunciando la parola che corrisponde alla sua essenza, che è la luce (anche la parola “Dio” deriva da una parola latina – “dies” – che significa “giorno” o “luce”).
Si tenga anche presente che l’antico verbo ebraico “bara” – che viene ordinariamente tradotto come “creare” – nel senso occidentale moderno di “creare dal nulla” – significa invece originariamente qualcosa come “formare”. “Formare” nel senso in cui il vasaio forma un vaso a partire dall’argilla, o un artista “crea” un quadro a partire dai colori e dalla tela. Dunque, il significato del verbo ebraico “bara” è paragonabile a quello del verbo greco “poieo” o anche quello del termine latino da cui il verbo creare è derivato.
Dunque la celebre frase “In principio Dio creò il cielo e la terra” si dovrebbe tradurre “In principio Dio dette forma al cielo e alla terra”. E questo cielo e questa terra sono un deserto, un abisso in cui regnano le tenebre finché, il primo giorno, Dio disse: “Sia la luce”.
Questa sembrerebbe un’altra conferma del fatto che Mosè non fu un personaggio storico, ma un personaggio mitico con cui le Sacre Scritture alludono all’assorbimento da parte del popolo d’Israele della cultura Antico Egizia. Una cosa che, dato il contesto culturale, non stupisce più di tanto. In modo del tutto simile infatti il passaggio della cultura ermetica dal Vicino Oriente e dall’Egitto alla Grecia Classica venne simbolizzato da un altro personaggio che ha tutte le caratteristiche del personaggio mitico, Pitagora.
Se questo è vero, possiamo supporre che la casta sacerdotale Israelita si impadronì dei saperi egizi che più propriamente possiamo definire “ermetici” (e dunque della matematica, della geometria, dell’astronomia e della scienza empirica in generale). Saperi dunque destinati a rimaner segreti e ad essere tramandati per via orale da una casta di “eletti”. Sono quelli a cui si allude nelle scritture per mezzo delle misure dell’Arca dell’Alleanza, o di quella di Noè, o di quelli che in The Snefru Code parte 3 e parte 7 abbiamo definito come “i numeri del Diluvio”.
Al popolo d’Israele vennero invece fatte conoscere le nuove leggi che avrebbero regolato la morale individuale e l’organizzazione dello stato – che a quei tempi coincideva con l’apparato religioso. Il simbolo di questo sapere sono i Dieci Comandamenti scolpiti su due tavole di pietra. Mosè, in quanto personaggio mitico, sembra invece il simbolo di tutto il sapere matematico e scientifico detenuto dalla casta sacerdotale, destinato a rimanere incognito a chi non vi appartenesse.
11. Se la nostra interpretazione è giusta, la frase “Sia la luce!” rappresenta l’atto metafisico con cui un Dio-Luce (“luce da luce” viene definito nella liturgia cattolica) chiama sé stesso all’esistenza e – chiamando sé stesso all’esistenza – genera anche il cosmo nella forma ordinata di spazio e tempo. Che infatti, secondo la teoria della relatività, esistono solo perché c’è una luce che li percorre. Infatti le prime parole della Genesi sono queste
1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2E la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
3Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. 4Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre 5e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.
Non è affatto un caso che proprio questo atto creativo venga compiuto nel primo giorno della creazione. Infatti Elohim avrebbe potuto per prima cosa separare il cielo dalla terra e poi generare la luce – per mezzo del sole e delle stelle. Ma invece nel racconto biblico la luce viene creata prima che quelle che sono considerate le sue fonti. E questo ci conferma in modo molto chiaro che la parola “luce” è da considerarsi riferita a un’entità metafisica in grado di generare lo spazio e il tempo, non a dei corpi particolari, per sé esistenti nello spazio e nel tempo, che come per accidente ne emettono una grande quantità.
Questo a sua volta ci conferma che la Genesi è davvero l’erede della sapienza e della scienza Antico Egizie, che conoscevano già da molti millenni la teoria della relatività. In questa teoria, come abbiamo visto, a prescindere dalla luce non vi sono né spazio né tempo. E, naturalmente, al di fuori di spazio e tempo Dio non poteva generare alcuna altra entità.
Si ricordi che il nome di Dio è il tetragramma YHWH, che in ebraico non ha un significato chiaro, e che il contesto in cui viene pronunciato non aiuta più di tanto a comprendere. Stando all’interpretazione data dalla teologia cattolica del celebre passo tratto da Esodo 3:14 Dio rende manifesta a Mosè la sua essenza quando gli dice “Io sono colui che è”. Questa traduzione dell’originale ebraico non è però la sola possibile, e vi sono interpreti che danno della risposta di Dio a Mosè una traduzione anche molto diversa (come, per esempio, « Io sono quel che sono, tu non ti impicciare del mio nome »: questo sarebbe un modo con cui la divinità sfugge a un tranello di Mosè, che vorrebbe conoscere il nome di Dio per avere potere su di lui: una credenza questa molto diffusa nell’Antico Egitto).
Comunque sia, non pare per nulla un caso che questa autodefinizione che Dio da di sé – qualsiasi cosa significhi esattamente – compaia al capitolo 3 del paragrafo 14. Chiunque abbia effettuato questa suddivisione, doveva essere una persona al corrente di un sapere ermetico e, collocandola definizione del nome di Dio proprio al capitolo 3, paragrafo 14, probabilmente voleva indicare proprio il π, le cui prime cifre sono appunto 3,14,15 (π = 3,141592..). Quest’entità geometrica, avendo quell’enorme significato scientifico che abbiamo ripetutamente visto nelle parti precedenti di questo articolo, può essere interpretata come parte essenziale della mente di Dio. Perciò stesso, insieme a ɸ, essa diventa una proporzione fondamentale della sua Creazione.
Questa interpretazione è rafforzata dal fatto che il nome Yahwhè appare effettivamente di origine Antico Egizia.
I nomi con cui viene designata la divinità nell’Antico Testamento sono ’El, ’Elōah, Elōîm, Adonai: il Genesi mostra che i patriarchi conobbero dapprima Dio come ’Ēl Šaddai, che viene inteso come Dio onnipotente. Quando Dio parla a Mosè per la nuova promessa di liberazione, dice « Io sono Jahweh. Io apparvi ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe come ’Ēl Šaddai ma non mi sono fatto conoscere loro col mio nome di Jahweh. »
(..)
Il nome Jawheh è noto in Egitto dove è vissuto Mosè, è conosciuto nella lingua che egli parla; è usato come voce comune e determinativo indicante Dio: è l’egiziano jahw- “splendore del sole, fulgore” (‘sunshine, radiance; as god, deity’; cfr. R. O. Faulkner, A concise dict. of Middle Egyptian, Oxford,1972, p. 9). La teofania di Jahweh si circonda del fuoco avvolgente del roveto, la fiamma accende la vetta del monte Sinai, dove Dio detta le tavole della legge «poiché Jahvé era disceso su di esso in forma di fuoco ». (Es. 19, 18). « La visione della gloria di Jahvé appariva come una fiamma divoratrice ». (Es. 24, 17)
(Giovanni Semerano, Le origini della cultura europea, vol. 1, Il mondo del divino e degli eroi, Valore originale dei nomi biblici, pp. 138 – 140)
È dunque ipotizzabile che il senso profondo del racconto biblico sia anche il senso di un mito Antico Egizio della creazione che sembra molto simile. Stiamo parlando di quello che vede il dio Atum (“il Completo”) auto generarsi su una collinetta che si erge nel caos delle acque dell’alluvione primordiale: e non appena sorto all’esistenza, Atum prende la forma del Sole.
Certo, a dispetto di quello che pare il loro profondo significato scientifico, tanto il mito Antico Egizio che quello ebraico commettono un errore logico che sulle prime pare piuttosto grave. Entrambi infatti sembrano attribuire alla luce un valore ontologico primitivo, che di fatto nella teoria della relatività non si riscontra, dato che spazio, tempo e luce sono entità che si presuppongono l’un l’altra e non possono stare l’una senza l’altra.
Qui, per un verso, sembra emergere il dato psicologico, ovvero il fatto che l’essere umano quando viene al mondo “viene alla luce”. La prima cosa che il neonato percepisce separandosi dal caos delle acque materne è in effetti la luce, e anche in età più adulta si nota che l’essere umano sembra particolarmente stupito e gratificato dalla sua presenza. Per altro verso, il linguaggio scritto o parlato che utilizziamo oggi è un’entità lineare-temporale e dunque, in un certo senso, monodimensionale. Ciò spinge a pensare che non sia possibile esprimere attraverso di esso in modo davvero soddisfacente un concetto – diciamo così – di tipo circolare, come quello di una triade in cui ciascun elemento presuppone gli altri due per poter esistere (Schopenhauer sottolineò questa difficoltà quanto al suo capolavoro filosofico, “Il mondo come volontà e rappresentazione”, come peraltro è stata in mille modi sottolineata quanto al concetto cattolico-ortodosso di un Dio Trino ed Uno) .
Volendo definire di un concetto come questo, quale che sia il punto di partenza che scegliamo, commettiamo in un certo senso un errore, dato che per poterlo definire esattamente la nostra definizione non dovrebbe avere affatto un punto di partenza. Ci domandiamo dunque se i geroglifici Antico Egizi – che sono con ogni evidenza un linguaggio scritto pluridimensionale – non siano stati inventati proprio per poter esprimere concetti come questi in modo tale da evitare gli inevitabili paradossi in cui cadiamo usando un linguaggio monodimensionale.
Comunque sia, a noi pare indubbio il fatto che, in particolare nel mito ebraico, emerge chiaramente il dato scientifico-filosofico a cui in Occidente si è arrivati solo nel ventesimo secolo: che spazio e tempo non sono categorie che esistono indipendentemente l’una dall’altra e, soprattutto, che il loro essere è co-originario a quello della luce, senza della quale risultano impensabili.
12. Qui ci sembra molto importante sottolineare il fatto che se davvero possiamo tradurre tempo e spazio in energia e/o massa, in questo modo avremmo risolto uno degli enigmi più inquietanti della meccanica quantistica, quello del cosiddetto “salto quantico”, a cui accennavamo all’inizio di questa riflessione. Come è noto, questo fenomeno consiste nel fatto che quando un elettrone acquisisce una ben determinata quantità di energia – questa energia si traduce istantaneamente in un “salto” all’orbita successiva (qui “istantaneamente” vuol dire: in un tempo pari a zero).
Questo sembra un fenomeno davvero completamente assurdo, almeno in relazione alle esperienze del senso comune, dove per percorrere uno spazio per quanto minimo occorre impiegare una quantità di tempo, per quanto minima. Ma se davvero possiamo trasformare spazio e tempo in porzioni di energia, allora possiamo ipotizzare che quell’energia che l’elettrone assorbe si trasformi istantaneamente nel cosiddetto “salto quantico”: il tempo che sarebbe stato necessario per passare da un’orbita all’altra sarebbe dunque incluso nell’energia che è stata assorbita dall’elettrone. Il salto quantico non sarebbe altro che l’espressione spaziotemporale di tale assorbimento.
In questo modo possiamo spiegare anche un fenomeno ancora più strano, anche questo riguardante l’elettrone, che Feynman definisce senza esitazione come un viaggio a ritroso nel tempo.
In poche parole, noi vediamo che l’elettrone emette fotoni. Ma perché questo possa avvenire, l’emissione di un fotone deve essere preceduta dall’assorbimento di un fotone. Però a volte capita un fenomeno davvero molto strano: l’elettrone emette un fotone e solo dopo ne assorbe un altro. Siccome questo ordine temporale dei fenomeni è impossibile – come è impossibile digerire prima di aver mangiato – l’assorbimento del fotone – se posteriore all’emissione – viene definito come un viaggio a ritroso nel tempo.
Ma qui, di nuovo, possiamo spiegare questo fenomeno con l’idea che spazio e tempo sono traducibili in termini di energia. Se l’elettrone emette un fotone – cioè un quanto di energia – questa emissione di energia elettromagnetica la possiamo ipotizzare come una diminuzione di quella che possiamo chiamare la sua “energia temporale”. A questa perdita l’elettrone rimedia assorbendo un fotone che gli consente – diciamo così – di riagganciarsi al presente.
Questi risultati teorici, che conseguono dall’assimilazione di tempo e spazio alle altre forme di energia – sembrano già di per sé molto rilevanti. Ma, come vedremo presto, con questa ipotesi possiamo cercare di risolvere altri problemi che affliggono la nostra scienza empirica.
13. Un altro elemento problematico della teoria di Einstein è che essa ha previsto che nell’universo esistano dei corpi chiamati “buchi neri”, generati da quel che di solito si definisce un “collasso gravitazionale”. Questo fenomeno ha fatto sì che tutta la materia che costituiva una stella è – per così dire – precipitata in sé stessa, a causa della preponderanza della forza di gravità su tutte le altre forze. Gli elettroni sono precipitati nel nucleo e si è creato un cosiddetto “buco nero”, cioè un oggetto capace di incurvare lo spazio tempo in modo tale che neppure la luce – una volta catturata da questo campo gravitazionale potentissimo – può riuscire a sfuggirgli, dato che viene accelerata verso il centro del buco nero a una velocità superiore a 2,9979246 x 108 metri al secondo.
Però, come abbiamo visto, la teoria prevede che nell’universo sia impossibile muoversi a una velocità superiore a quella della luce. Come è possibile dunque che dentro il campo gravitazionale del buco nero la materia venga accelerata verso il centro a una velocità maggiore? Che cosa dobbiamo pensare di una situazione di questo genere? Qui siamo di fronte a qualcosa di più che a una falsificazione empirica: qui siamo di fronte a una teoria la cui verità implica la sua stessa falsificazione.
Questo fatto ha delle ulteriori, sconcertanti conseguenze teoriche. All’inizio del secolo scorso si è molto discusso intorno al problema della direzione del tempo, e infine si è giunti a un accordo più o meno universale intorno a questa definizione: il tempo scorre nella direzione del caos. L’universo tende all’entropia, cioè alla morte termica. Un giorno, per lontano che sia, tutta la materia presente nel cosmo, a furia di scambiarsi energia, raggiungerà un equilibrio assoluto, e questo equilibrio rappresenterà appunto la morte dell’universo, dato che la vita – compresa quella umana – consiste in uno scambio organizzato di energia, sotto forma di calore o in altro modo. Dunque, noi possiamo dire che il tempo scorre perché qualsiasi evento tende ad aumentare l’equilibrio termico dell’universo, e in questo modo ad avvicinare il momento della sua morte.
D’altra parte, la teoria della relatività ci dice che per un corpo che viaggia alla velocità della luce il tempo non passa affatto. La logica conseguenza di questa affermazione è che se un corpo potesse viaggiare a una velocità superiore a quella della luce, per questo corpo la direzione del tempo si invertirebbe. Ma che cosa può significare un’espressione di questo genere? Come può la direzione del tempo invertirsi?
Alla luce di quello che abbiamo visto sopra, che la direzione del tempo si inverta non può significare altro che questo: che invece di tendere verso il caos, questa porzione di materia tenderebbe in direzione opposta, ovvero verso un aumento dello squilibrio termico-energetico. Un buco nero flette lo spazio in modo tale che si crei un antispazio, e accelera il tempo in direzione inversa a quella ordinaria. Qui troviamo forse una nuova dimostrazione che anche il tempo è qualcosa come una forza, dato che può avere un segno più e un segno meno rispetto all’entropia.
Dobbiamo ammettere che non risulta chiaro in che cosa possa di fatto consistere un fenomeno di questo genere, né come si possano trascrivere nel linguaggio fisico ordinario le sue cause: forse è il segno delle costanti che si inverte? o tutte le equazioni che conosciamo prendono una forma diversa? Resta il fatto che, una volta catturate dal il buco nero, delle grandi quantità di materia vengono accelerate a una velocità superiore a quella della luce verso quello che chiamiamo il suo centro, senza però sapere più bene quel che diciamo con questa espressione: “il suo centro”.
Infatti, dentro un buco nero anche lo spazio assume una forma che non possiamo prefigurarci a partire da quello in cui viviamo nella vita quotidiana, e forse nemmeno prendendo in considerazione lo spaziotempo concepito dalla teoria della relatività. Questo genere di spazio è concepibile fino al punto in cui un oggetto viaggia alla velocità della luce, quando svanisce e si contrae in un punto inesteso. Ma oltre questo limite, cosa può mai succedere?
Il tempo, abbiamo detto, inverte la sua direzione, e la materia dunque si muove verso una sempre maggior squilibrio termico-energetico: ma cosa può succedere allo spazio? Lo spazio possiede forse una direzione, che si possa anch’essa invertire?
Questa sembra una conseguenza tanto inquietante quanto inevitabile. Se dentro un buco nero la direzione del tempo si inverte, lo spazio deve a sua volta aprirsi su delle dimensioni che sono per noi altrettanto inconcepibili che un tempo che si muova in direzione contraria a quella che consideriamo logica e ordinaria.
Secondo la nostra opinione, situazioni problematiche di questo genere si possono affrontare solo abbandonando l’idea che tempo e spazio siano degli elementi passivi e disomogenei rispetto alle altre entità con le quali vanno a formare le nostre equazioni. Viceversa, se all’idea di spazio-tempo della teoria della relatività sostituiamo il concetto di uno spazio e di un tempo intesi come forze, avremmo forse la possibilità di comprendere in modo più chiaro e profondo l’idea di campo gravitazionale. Esso non dovrebbe più essere inteso come il propagarsi di una sola forza – quella esercitata dalla massa – attraverso un medium passivo, ma come l’interazione di più forze che, interagendo e controbilanciandosi fra di loro, danno luogo a una terza entità, il campo gravitazionale appunto, che, proprio come il campo magnetico, non può esistere senza l’interazione di entità contrapposte. Entità che si presuppongono l’un l’altra, e non possono esistere l’una senza l’altra.
14. Dunque, un passo di questo genere potrebbe gettare le basi di una soluzione del problema con cui abbiamo aperto questa indagine, vale a dire la questione della disomogeneità logica tanto delle equazioni di Newton che di quelle di Einstein. Infatti, in entrambi i casi lo spazio viene concepito come un’entità meramente passiva, in cui si propagano forze elettromagnetiche – principalmente la luce – e poi quelle gravitazionali. Ma se questo fosse vero, come ci eravamo già chiesti e come di nuovo ci chiediamo, come è possibile che queste forze vengano influenzate in ragione del quadrato dello spazio?
In effetti, noi possiamo sostenere che la massa curva lo spazio-tempo. D’altra parte, potremmo anche dire il contrario, ovvero che lo spazio tempo si oppone all’azione gravitazionale della massa. In questo modo la incurva e la riduce in ragione del quadrato della distanza che separa una porzione di massa da un’altra porzione di massa. E, alla luce di quanto abbiamo visto fino ad adesso, questa sembra un’ipotesi sensata. Se lo spazio fosse un mero contenitore passivo, o puro vuoto, come si è pensato fino a questo momento, come potrebbe interporsi in quanto ostacolo all’azione della massa su altra massa, o di una carica elettrica su un’altra carica elettrica?
Lo spazio può essere un ostacolo all’azione di gravità e magnetismo solo se – diciamo così – gravità e magnetismo – nel percorrere lo spazio – trovano un qualche genere di opposizione, di resistenza. Ma se lo spazio fosse puro vuoto, privo di qualsiasi energia e direzione intrinseca, gravità e magnetismo potrebbero e dovrebbero dispiegarsi in modo totalmente indifferente rispetto alla distanza. Questo significa che se lo spazio non si opponesse alla sua azione, il campo gravitazionale della Via Lattea non dovrebbe essere diverso al centro costituito da un buco nero o ai confini della galassia. Ma ben si vede che le cose non stanno affatto così.
Dunque noi dobbiamo per forza di cose ipotizzare che lo spazio sia qualcosa come una sorta di forza che si oppone tanto all’azione della massa su altra massa che a quella attrattiva e repulsiva fra le cariche elettriche positive e negative.
Uno spazio concepito in questo modo renderebbe in qualche modo ragione di un altro fenomeno, forse il più strano fra quelli registrati dalla meccanica quantistica. Cioè, del fatto che nel vuoto possano avvenire delle fluttuazioni di energia magnetica che, allo sguardo della corrente filosofia della scienza, sembrano sorgere come dal nulla. Ma se lo spazio lo concepiamo come forza, ecco che questo fenomeno risulterebbe del tutto omogeneo rispetto ad altri fenomeni del mondo microscopico che fino ad adesso venivano giudicati inesplicabili. Stiamo parlando del salto quantico come dei viaggi a ritroso nel tempo compiuti dall’elettrone per assorbire il fotone che ha già emesso.
In questo caso, la spiegazione del fenomeno sarebbe questa. Come accade a volte che un atomo possa decadere – in base a una legge meramente statistica – emettendo una o più particelle, allo stesso modo possiamo pensare che lo spazio possa “decadere”. Ma questo “decadere” in realtà non sarebbe altro che un trasformarsi in energia elettromagnetica, secondo una legge parimenti statistica, emettendo a sua volta delle particelle. Questo fenomeno non sarebbe così da concepirsi come il sorgere di qualcosa dal nulla, ma come il trasformarsi di una forma di energia in un’altra forma di energia. Come la massa puntiforme di un elettrone può essere trasformata in pacchetto d’onde, così lo spazio tempo, secondo una certa legge, potrebbe trasformarsi in energia elettromagnetica.
parte 6: UN TENTATIVO DI SOLUZIONE DEL PROBLEMA EPISTEMOLOGICO DELLE COSTANTI A PARTIRE DAL CONCETTO PLATONICO DI “χώρα”
1. La problematica di questa parte del nostro lavoro è una di quelle che abbiamo già affrontato nella parte precedente, forse quella più importante: quella dell’omogeneità logica delle nostre equazioni fisiche. Essa percorre tutta la fisica moderna, dato che l’abbiamo riscontrata già a partire dalla teoria della gravitazione di Newton. L’abbiamo riconosciuta chiaramente quando ci siamo resi conto che quella che compare sulla sinistra dell’equazione F = G m1 m2/d2 come incognita, la forza di attrazione gravitazionale “F”, viene calcolata a partire da delle entità che – almeno al tempo di Newton – non erano affatto considerate come delle forze. Inoltre, ci siamo resi conto come questa stessa forza agisce secondo delle modalità che, almeno al tempo di Newton, erano da considerarsi inusitate e che nel nostro, più che superate, appaiono rimosse, o trascurate.
Abbiamo osservato come questo problema fosse stato risolto solo in parte dalle idee di Einstein, e, in considerazione di ciò, abbiamo proposto come soluzione l’idea che spazio, tempo e velocità della luce, in quanto parte di un’equazione – cioè di un’uguaglianza – debbano essi stessi essere considerati alla stregua forze. In questo modo ci era sembrato che quelli che sono stati considerati come i paradossi della meccanica quantistica, potessero ricevere una soluzione che, almeno prima facie, appare soddisfacente.
2. Ma, giunti a questo punto della nostra analisi, dobbiamo riconoscere che il problema dell’omogeneità logica delle nostre equazioni rimane ancora aperto su un punto assolutamente cruciale. Infatti, non ostante i nostri sforzi ermeneutici, non siamo ancora in grado di capire in che senso quei valori che fino ad oggi abbiamo definito “costanti” – come per esempio quello di G nell’equazione di Newton – possono essere considerati delle “forze”.
Infatti, è del tutto chiaro che anche le costanti debbano essere in qualche modo delle forze, dato che compaiono in delle equazioni che – se vogliono conservare la necessaria omogeneità logica – debbono descrivere l’interagire di forze, e niente altro. Ma però, a quanto pare, questi numeri non corrispondono a niente di misurabile: sembrano stare lì, come sospesi nel vuoto. La loro azione, di nuovo, sembra del tutto simile a quella della magia. Lo spazio è una forza: questo forse possiamo arrivare a concepirlo, sia pure con un grande sforzo. Perché lo spazio è comunque sia un’entità percepibile e misurabile, come lo sono anche la massa e l’energia elettromagnetica, che, quando non è direttamente visibile – come accade per quanto riguarda la luce – ha pur tuttavia degli effetti visibili. O almeno: direttamente misurabili.
Fra l’altro, che lo spazio sia qualcosa di diverso dal vuoto, è una nozione che si è carsicamente infiltrata nella nostra tradizione filosofica per mezzo di un detto di San Bernardo: “Dio è ampiezza, altezza e profondità” (quasi che ogni dimensione dello spazio sia da considerarsi come una delle Tre Persone della Trinità). Considerando che molto probabilmente S. Bernardo era giunto in contatto con le tradizioni ermetiche Antico Egizie – quelle che hanno reso possibili le proporzioni delle cattedrali gotiche – non è escluso che fosse al corrente di questo modo di considerare il mondo fisico, derivante appunto dal monofisismo Antico Egizio.
Invece, le costanti delle nostre leggi fisiche hanno questo di strano: che, anche se i loro effetti sono visibili e misurabili, non paiono corrispondere a nessuna entità di nessun genere. Esse regolano il rapporto delle forze fra di loro – ne esprimono, per così dire, una percentuale di azione – ma non paiono esse stesse delle forze. Ma è davvero corretta questa idea che ci siamo fatti delle costanti?
Questa appare una questione decisiva, perché se non ci siamo fatti un’idea corretta di quel che siano le costanti, questo forse vuol dire che non ci siamo fatti un’idea soddisfacente nemmeno di quel che siano le variabili. Cioè, di quel che di solito chiamiamo, appunto, “forze”.
3. Forse possiamo trovare la soluzione a questo problema se mettiamo almeno inizialmente da parte il mondo macroscopico e andiamo ad analizzare quello microscopico che, non essendo percepibile coi sensi, può aiutarci a raggiungere quel grado di astrazione estremo, di cui abbiamo bisogno per arrivare a quella che pare come l’unica possibile soluzione di questo problema.
La prima osservazione che dobbiamo fare è che in quest’ambito notiamo che non vi è entità che non sia quantizzata. Come tutti sappiamo, che una forza sia quantizzata significa che una certa porzione – supponiamo – di energia magnetica – non si può dividere infinitamente, come un ipotetico fluido ideale. Al contrario, essa appare come un’entità pulviscolare, risultante dalla somma di piccole quantità discrete, non ulteriormente scomponibili. Queste quantità paiono effettivamente delle entità “atomiche”, se non altro perché appaiono, almeno così come le possiamo vedere nelle usuali tabelle, uniche e indivisibili.
In particolare, il valore della quantità minima di energia che si può trasmettere venne fissato inizialmente da Planck all’inizio del secolo scorso come 6,55 x 10-34 joule al secondo, un valore che è cambiato col passare degli anni e che oggi viene fissato uguale a 6,626 x 10-34 joule al secondo. In The Snefru Code parte 9 e anche in questo lavoro abbiamo avanzato l’ipotesi che in realtà questa costante non abbia un valore “giusto”, e che quelli che abbiamo visto non siano altro che i possibili estremi di una banda di oscillazione di questa costante (che sarebbe dunque in realtà una variabile).
Ma in questo momento vogliamo concentrarci su un’altra questione: questo valore particolare viene definito infatti per solito come un quanto di energia. Dunque, se noi abbiamo una quantità qualsiasi di energia, il suo totale risulta dal valore minimo e non divisibile – h – moltiplicato per un certo numero, che è sempre e comunque un numero intero e finito, perché questo genere di suddivisione – diciamo così – non ammette decimali.
Anche un corpo macroscopico enorme, come il sole, o una galassia, o addirittura l’intero universo, non sfuggono a questa legge: la quantità di energia “E” che contengono risulta sempre e comunque dal valore di h moltiplicato per un numero intero “n”. Un numero che, per quanto enorme e umanamente del tutto inconcepibile, altro non può essere che un numero finito e intero, che appartiene alla serie dei numeri naturali. Così, se vogliamo chiamare Eu l’energia contenuta nell’universo e nu il numero dei quanti di energia contenuti nell’universo, abbiamo che Eu = h nu.
A quale conclusione ci porta questo ragionamento? Questo ragionamento ci porta a concludere che quelli che su un piano macroscopico possono sembrare valori continui, lo sono solo in parte, dato che anche questi valori variabili non sono altro che dei valori costanti moltiplicati per un numero intero. Essi dunque non possono essere scomposti indefinitamente, anche se la ridottissima dimensione del “quanto” – davvero inconcepibile a partire dalle esperienze e dunque dalle quantità che sperimentiamo nella vita quotidiana – ci può dare l’illusione di avere a che fare con entità fluide, infinitamente divisibili.
3. A questo punto dobbiamo ricordare che nella prima parte di questo lavoro abbiamo mostrato che possiamo arrivare a intendere i valori costanti della nostra scienza empirica come funzioni di π e ɸ, 10 e numero di Eulero. Quindi, adesso noi abbiamo la possibilità di concepire tutte queste entità – che fino ad ora abbiamo concepito come forze eterogenee e prive di qualsiasi relazione l’una con l’altra – invece come il prodotto di un’entità indeterminata, che è però capace di determinarsi attraverso funzioni di π e di ɸ, 10 e numero di Eulero.
È a questo punto che ci torna utile il concetto platonico di “χώρα”– a cui nel Timeo Platone attribuisce proprio quelle caratteristiche di cui stiamo parlando. La “χώρα” viene chiamata la matrice dell’universo, perché è invisibile e indifferenziata, e capace di assumere e perdere qualsiasi determinazione, rimanendo pur tuttavia identica attraverso qualsiasi mutamento.
Se seguiamo questa idea di Platone, noi possiamo andare avanti nella nostra ipotesi. Ovvero, che la sostanza del mondo – ciò che di solito si intende con la parola “materia” – sia un’entità ontologicamente priva di forma, che però si può modellare attraverso funzioni di π e di ɸ, 10 e numero di Eulero.
Se, per esempio, questa determinazione assume la forma dello spazio – supponiamo, del diametro classico del protone – il valore che assume possiamo calcolarlo in questo modo (qui trascuriamo per brevità tutti gli altri e diamo per scontata la lettura delle parti precedenti questo lavoro):
2ɸCheope : 4√[1 + (ɸCheope – 1)]3 = 3,23718 : 4√[1 + (0,618593)] = 3,23718 : 4√1,2367.. =
= 3,23718 : 1,054548.. = 3,06973
Che cosa significa, nell’ambito di questa particolare visione del mondo, questa formula? Che ciò che chiamiamo “diametro classico del protone” lo possiamo definire adesso come una particolare funzione di ɸ. D’altra parte, siccome possiamo concepire tanto ɸ che π come funzioni del numero di Cheope, ecco che – in simboli – potremmo sintetizzare questo genere di funzioni come FC (da leggersi “effe di c”), aggiungendo una sigla per specificare quale è il dato fisico a cui si riferiscono. Visto che in questo caso stiamo parlando del diametro classico del protone, in simboli potremmo scrivere FCdp . Abbiamo così che
FCdp = 2ɸCheope : 4√[1 + (ɸCheope – 1)
Addirittura, potremmo arrivare a considerare proprio questa funzione matematica come il “vero nome” del diametro classico del protone. Invece, il vero nome della “velocità della luce” (che in lettere potremmo definire FCc) dovrebbe essere
FCc = π : 32√(2 x √5)
oppure una funzione equivalente (ricordiamo che √5 = (ɸ + 1/ɸ2)2. Dunque anche questa funzione è a pieno titolo una funzione di π e ɸ, che, in questo contesto, non sarebbero altro che abbreviazioni di funzioni del numero di Cheope.
Se accettiamo questo, allora possiamo arrivare a concepire in modo chiaro e razionale una via scientifica attraverso la quale si può arrivare a concepire il “nome” di un’entità fisica come la sua definizione matematica. Inoltre, possiamo renderci conto che una credenza come quella Antico Egizia e Israelita, che possedere il nome di una divinità significasse impossessarsi dei suoi poteri, possa anche avere delle basi del tutto razionali e perfettamente comprensibili anche da parte dello scienziato moderno.
Se si crede che le forze fisiche siano divinità, impadronirsi del loro “nome” inteso come la funzione matematica che le descrive, è anche impadronirsi del potere che è connesso con questa conoscenza. Se conoscere il nome della “luce”, o di un dio che si identifica con essa (YHWH, per esempio) significa impadronirsi della sua definizione quantitativo-matematica, ecco che a nessuno risulterà più strano che conoscere il “vero nome” della divinità significhi poterla piegare ai propri poteri. Non è proprio questo che hanno fatto i nostri scienziati con l’energia elettrica prima, e quella atomica poi?
Ma, se nel definire le costanti fisiche seguiamo il metodo che abbiamo appena visto, non vi è entità il cui “nome” sia o possa essere identico all’altro (ovviamente, le “lettere” di questo “nome” sono simboli matematici: e sappiamo che nell’antichità alle lettere erano connessi molti significati, fra cui anche un significato matematico (e dunque, potremmo dire, anche un significato musicale, se è vero che la musica, almeno in parte, non è altro che matematica da ascoltare).
È vero: le funzioni possono essere scritte in modo diverso. Però il loro risultato (cioè, in questo contesto: il loro significato) rappresenta un unicum. Quando vedo scritta una funzione il cui risultato è “2,9979246” io so che si sta parlando della velocità della luce, perché questo numero (e tutte le funzioni che lo esprimono) sono il vero nome (o i veri nomi) della luce. Quando vedo scritto “1,535” (sia pure in modi diversi) io so che si sta parlando del raggio classico del protone. Quando trovo “1,6725” io so che si sta parlando della sua massa, etc (ovviamente: si possono sapere cose di questo genere solo in un ambito scientifico-culturale in cui si sia stabilito convenzionalmente un linguaggio di questo genere).
E qui, quando si parla di “nomi” di entità microscopiche, è bene porre attenzione sul fatto che il “nome vero” viene rappresentato solo dalle prime quattro o cinque cifre del risultato della funzione. Questo perché il principio di indeterminazione rende impossibile fissare dei valori esatti (anzi: se quel che abbiamo supposto quanto alla costante di Planck è vero, allora la parte costante del suo valore è solo il 6 prima della virgola, mentre i decimali dopo la virgola sono destinati a cambiare in base ai contesti).
Ma, al di là del suo possibile valore nel campo dell’ermeneutica storico-archeologica, la possibilità di derivare da funzioni di ɸ e di π (e dunque da funzioni del numero di Cheope), e inoltre da 10 e numero di Eulero i valori costanti della nostra scienza empirica ci da la possibilità attuale di concepirla in modo totalmente diverso da come l’abbiamo finora concepita. Quindi – ovviamente in via euristico-ipotetica, o come esperimento mentale (o almeno come mero gioco intellettuale) ci è lecito concepire ogni entità microscopica come il determinarsi di una sostanza indifferenziata che, a seconda della forma matematica, diventa ora la carica elettrica, ora il raggio classico dell’elettrone, ora la massa del protone, etc. Ma siccome la determinazione di tali entità avviene sulla base della tecnica che utilizziamo per determinarle, ecco che la tecnica diventa una parte essenziale di questo processo che, in questo senso, lungi dal poter essere definito come una “misurazione” risulterebbe una sorta di atto creativo-demiurgico.
Il lato serio di questo gioco intellettuale, dal punto di vista storico, risulta dal fatto che un genio come Platone, che per millenni ha influenzato le menti più insigni in ogni campo dello scibile umano, non avrebbe affatto considerato questo gioco intellettuale come un gioco, ma come un tentativo di comprendere il divenire delle cose. Invece, su un piano più attuale, è bene renderci conto che – coscienti che o meno che ne siamo – quel che sia la realtà dipende anche dagli strumenti che usiamo per comprenderla (cioè: per determinarla) e dal modo in cui li utilizziamo. E questo, come tutti sappiamo, vale in particolar modo per le entità microscopiche.
4. Noi possiamo vedere attualmente in che cosa possa consistere questa “determinazione di una sostanza indeterminata” analizzando la struttura di uno di quegli esperimenti tipici della meccanica quantistica. Uno di quelli in cui, per determinare quel che di solito viene chiamato un “parametro dinamico”, escludiamo per principio la determinazione di un altro parametro dinamico, ad esso complementare. Questo significa che, per esempio, l’elettrone non ha certe proprietà, ma è quelle proprietà che in quel momento misuriamo. O, come sarebbe meglio dire: che determiniamo. Infatti, a ben vedere, quella che noi chiamiamo “misurazione” potrebbe non essere altro che la creazione di un fenomeno, che prima della sua misurazione/creazione non esisteva affatto, se non come mera potenza d’essere generato (nulla di nuovo in quel che diciamo: questo è proprio quel che senza incertezza alcuna sosteneva Heisenberg).
In effetti, allo stato attuale delle nostre conoscenze fisiche, noi potremmo dire che quando “illuminiamo” una particella con un fascio di luce ad alta frequenza determiniamo – cioè generiamo – dei fenomeni. Prima della sua determinazione, l’elettrone non ha né spin, né raggio classico (che si escludono a vicenda) né una velocità precisa né una posizione precisa (che si escludono a vicenda). In questa visione – che, per quanto possiamo stupircene, è quella dell’Occidente moderno – l’elettrone è pura potenzialità. Dunque, molto simile alla χώρα di Platone. Una pura potenzialità di determinarsi o di essere determinato che l’esperimento determina in questo o in quel modo, ad esclusiva scelta dello sperimentatore.
Quindi, ci è del tutto lecito radicalizzare le idee di Heisenberg, almeno a livello di un puro esperimento di pensiero. Il che significa che dobbiamo spingerci a pensare che – prima e dopo di questo procedimento di determinazione-generazione – non solo non vi è uno spin, o una velocità o una posizione, o un raggio classico dell’elettrone. Dobbiamo estremizzare questa tesi, e arrivare a dire che non vi è nemmeno qualcosa che possiamo definire “un elettrone”. Vi sarebbe invece solo quel che potremmo definire una sorta di “indeterminazione pura”. Un’indeterminazione pura che forse possiamo definire “sostanza” o “substrato materiale” del mondo. Un’entità comunque, ch’è pura potenzialità, pronta ad accogliere e a perdere qualsiasi determinazione, rimanendo identica in questo mutamento.
Ma sopra abbiamo ipotizzato che ciò che da forma a questo “invisibile indeterminato” – a questa pura potenzialità di forma – sono – a un livello pratico – le tecniche che usiamo per quella che noi chiamiamo “misurazione”. Invece, a un livello matematico-teorico sono le funzioni di π e ɸ, che, nel Timeo, sono forse da identificarsi con i componenti fondamentali (o: le forme matematiche) della mente del Demiurgo.
Ma questo che abbiamo or ora detto quanto all’elettrone vale anche per il protone, il neutrone, per le particelle elementari che costituiscono il protone e il neutrone: vale dunque anche per l’atomo in quanto struttura globale. E se arriviamo a renderci conto di questo, possiamo vedere in trasparenza le connessioni fra il nostro modo di vedere il cosmo e quello di una civiltà che noi abbiamo finora reputato lontanissima dalla nostra.
Nell’Antico Egitto vi era una divinità, da cui tutte le altre divinità e il mondo tutto nascono. Questa divinità che veniva chiamata “Atum”, che vuol dire “il Completo”, altro non sembra che una sostanza divina unica e indifferenziata prima del suo intimo scindersi in sé stessa. Questa sostanza si scinde in molti déi (i primi 4 erano direttamente connessi con entità naturali: il Secco e l’Umido, il Cielo e la Terra; gli altri cinque con entità celesti, quali Sirio, Orione, etc). Ma noi possiamo immaginare che questa scissione originaria del divino dia anche luogo alla molteplicità del numero, se è lecito supporre che in quelle culture i numeri stessi potessero essere concepiti come divinità. Ce ne dà un indizio Platone stesso, quando concepisce l’Uno (che non sembra altro che un epigono Greco Classico di Atum) come l’origine e il culmine della Piramide dell’Essere. Ma troviamo i numeri divinizzati anche nella cultura Maya, dove addirittura sono rappresentati come esseri umani nell’atto di portare il peso del tempo.
Tutto questo ci invita a supporre che l’intimo scindersi in sé stesso di Atum possa essere considerato anche l’origine della serie dei numeri naturali e – soprattutto – anche di π e ɸ (che forse, prima della scissione del “Completo” erano misteriosamente fusi in un’unica entità indifferenziata e identica a sé stessa, magari da identificarsi con quello che noi abbiamo chiamato il numero di Cheope).
Una volta che Atum – cioè l’Uno – si scinde nei molti, ecco che diventano possibili le diverse funzioni di π e ɸ che diventano poi la forma matematica del mondo, tanto microscopico che macroscopico.
Ma la parola “matematica” deriva da un termine greco che significa “ciò che è conoscibile”. E che il numero sia “ciò che è conoscibile” è proprio la visione pitagorica del mondo, una visione che con ogni probabilità era filtrata in Grecia dall’Antico Egitto (e forse anche dalla cultura ermetica Babilonese).
A prima vista, questa idea pitagorica sembra quasi una versione arcaica del positivismo logico. Solo che, a differenza dei positivisti logici, per i pitagorici quest’affermazione – che il numero è ciò che è conoscibile – non vuol dire che il mondo e Dio si risolvano in una forma matematica. Al contrario, tutto quel che sappiamo della cultura Antico Egizia e di Pitagora ci spinge a pensare che per loro il mondo e Dio sono essenzialmente ciò che la forma matematica supera e trascende.
La matematica è ciò che del divino è conoscibile, afferrabile dall’uomo. Ma oltre la matematica vi è un’essenza trascendente che non possiamo conoscere o che, comunque sia, non possiamo conoscere attraverso la matematica. Il numero non è Dio, ma ciò che della mente divina noi possiamo conoscere. Se davvero Pitagora e gli Antichi Egizi avessero risolto il mondo nel numero e nella potenza tecnica che dal numero si può ricavare, diventiamo del tutto incapaci di spiegare il fatto che questa potenza – capace di costruire opere smisurate e quasi incredibili come le Piramidi – sia stata rivolta all’adorazione del divino e non alla conquista e allo sfruttamento del mondo, come di fatto accade oggi.
A ben vedere, se in qualcosa l’uomo moderno differisce profondamente dall’uomo Antico Egizio è precisamente in questo: che per l’uomo moderno è del tutto o quasi del tutto impossibile rivolgersi alla trascendenza – ovverosia “guardare in alto” – con un minimo di spontaneità e di sincerità. La nostra incredulità e il nostro intimo vuoto spirituale arrivano al punto che persino una buona parte delle gerarchie ecclesiastiche come di coloro che si proclamano credenti paiono incapaci di altro atteggiamento che quello rivolto alla conquista e alla conservazione di qualsiasi genere di potenza e visibilità mondana si possa immaginare. Un’ardente vita spirituale viene molto spesso vista dalle gerarchie ecclesiastiche addirittura come una minaccia al buon ordine della Chiesa (un atteggiamento questo di cui Padre Pio ha dovuto sperimentare personalmente le conseguenze). Tutto quel per secoli si è richiesto ai credenti è di obbedire al papa e ripetere nel modo più pedissequo possibile una certa prassi (cioè un certo atteggiamento esteriore, tanto amato da quei farisei che, a quel che si può capire dal Vangelo, non erano molto amati da Gesù).
Quest’atrofia dell’anima cristiano-occidentale sembra proprio quello che papa Francesco ha costantemente denunciato fin dall’inizio del suo pontificato, richiamando la Chiesa Cattolica – molto prima che la società secolarizzata – a ritrovare i suoi fondamenti spirituali. Con la sua elezione nella Chiesa si è cominciato a prendere coscienza e a cercare un rimedio a quell’ateismo clericale che da molti secoli oramai si è impadronito di gran parte della gerarchie vaticane. Questo ateismo ha acquistato tanta più forza nella prassi quanto più è stato negato a un livello teorico. Con tutte le forze si è lottato per conservare intatte delle forme ormai morte, che oramai erano diventate soltanto un pretesto per giochi di potere. Per il resto, si rimaneva più o meno indifferenti alla sostanza di un credo che in teoria avrebbe dovuto ispirarsi alla carità evangelica (Cfr. la prefazione di Pier Paolo Pasolini alle sentenze della Sacra Rota, che è stata pubblicata nei suoi celebri “Scritti Corsari”).
La perdita delle fede da parte delle gerarchie delle chiese occidentali è arrivata a un punto tanto estremo che in quella particolare versione del cristianesimo che ha preso il nome di “protestantesimo” si è arrivati al paradosso di vedere una conferma della predestinazione alla salvezza nel successo delle proprie attività economiche e dunque nel proprio costante arricchimento. In pratica, si è considerato un simbolo della grazia divina un qualcosa che nel Vangelo è considerato un (quasi) certo strumento di perdizione (“È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli” sta scritto nel Vangelo: ma la fede borghese-protestante si potrebbe tradurre meglio e più facilmente in quest’altro detto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco non sia assolutamente sicuro di entrare nel Regno dei Cieli).
5. Ma, a quel che pare, nell’Antico Egitto le cose andavano in modo addirittura opposto. Se nella nostra epoca siamo tranquillamente disposti a utilizzare le cose dello spirito per un tornaconto materiale, che molto spesso non sembra nulla di più di un tornaconto nevrotico (quando non addirittura autodistruttivo), in quella cultura si aveva invece la tendenza a vedere come parte del mondo spirituale proprio quelle forze della natura che, nell’epoca del positivismo logico, stanno a fondamento della visione materialistica dell’uomo e del mondo.
Questo significa, fra l’altro, che quella caratteristica del mondo microscopico che è stata definita come “complementarità” veniva probabilmente creduta una caratteristica della mente divina (e dunque della conoscenza che un essere umano può avere del divino).
Che cosa significa questo? Per spiegarlo possiamo partire dall’esempio più ovvio e noto, dato che di solito il principio di complementarità viene spiegato dicendo che la conoscenza esatta della velocità di una particella esclude per principio che si possa conoscerne esattamente la posizione. Questo ha per conseguenza il fatto che velocità e posizione di una particella siano conoscenze reciprocamente esclusive: il sapere l’una cosa esclude che nello stesso momento e dallo stesso punto di vista – ovvero nel contesto dello stesso esperimento – si possa avere una conoscenza paritetica dell’altra caratteristica dinamica (che dunque in questo contesto è da considerarsi come opposta).
Ma nel contesto dell’ipotesi di lavoro che stiamo portando avanti, non possiamo più parlare di “conoscenza” di parametri dinamici oggettivamente esistenti, ma piuttosto della loro “creazione”. E qui la parola “creazione” non vuol dire “creazione dal nulla”, ma “creazione” nel senso in cui il vasaio “crea” cioè “dà forma” a un vaso a partire dall’argilla. Questo significa che quando voglio “conoscere” (cioè “determinare” e dunque, in questo modo, “creare”), per esempio, il raggio classico di un elettrone devo escludere che l’elettrone sia dotato di spin, dato che se fosse dotato contemporaneamente di spin e di raggio classico sarebbe un buco nero (una cosa impossibile perché una caratteristica fondamentale dell’elettrone è che emette fotoni).
Dunque, che l’elettrone abbia – per esempio – un raggio classico, dipende dalla struttura dell’esperimento, cioè da quella sorta di azione magica in cui per gli Antichi Egizi costituiva il fondamento di ogni conoscenza e realizzazione tanto umana che divina.
Questo vuol dire: è la struttura dell’esperimento (cioè di quella che noi chiamiamo “misurazione-determinazione” dei parametri dinamici della particella ma che per gli Antichi Egizi era un’azione creatrice magica) a creare una certa struttura della materia (dunque a “creare” o “formare” – in quel ben determinato contesto – lo spazio logico che viene misurato).
Ugualmente, quando diciamo che non possiamo determinare al tempo stesso la posizione e la velocità della particella questo significa: non possiamo creare al tempo stesso il fenomeno della velocità esatta e quello della posizione esatta.
Da ciò possiamo dedurre che, in quei contesti che noi definiamo “microscopici” (e che chissà come chiamavano gli Antichi Egizi), dire che una certa entità ha una certa e ben determinata posizione e una certa e ben determinata velocità è una contraddizione. Proprio come nei “normali” contesti macroscopici è una contraddizione dire che un portacenere è al contempo qui e al contempo da un’altra parte (e chissà come chiamavano – cioè: come definivano e sentivano – gli Antichi Egizi quel che noi chiamiamo “il mondo macroscopico”).
6. A ben vedere, se prendiamo sul serio il modello dell’atomo così come viene immaginato dalla meccanica quantistica, subito ci rendiamo conto che in quest’ambito – già allo stato attuale delle nostre teorie – lo spazio non può essere pensato come un recipiente. Oppure: come un puro vuoto parzialmente riempito da entità quali l’elettrone e le sue orbite, il protone e il neutrone, la loro carica, il loro raggio classico, etc. Al contrario, noi vediamo che in questo caso ognuna di queste caratteristiche spaziali è in relazione con lo spazio come la carica magnetica complessiva di un atomo è in relazione con il magnetismo. Il raggio della prima orbita dell’elettrone è dunque una componente dell’atomo (e dell’elettrone, del protone, etc.), al pari e sullo stesso piano della massa, della carica elettrica, etc.
Se un elettrone è un elettrone, lo è perché la carica elettrica è distribuita su un raggio classico di 2,81794.., e perché questa entità spaziale riguarda proprio una certa carica elettrica (quella negativa).
Se un elettrone è un elettrone lo è perché la sua lunghezza d’onda λe = 2,4263102389 è connessa con una certa massa, a sua volta intimamente connessa con il raggio dell’orbitale, che contribuisce a determinare la lunghezza d’onda, che a sua volta contribuisce a determinare la frequenza.
Dunque, a livello microscopico, abbiamo che lo spazio è una componente dell’atomo come le altre e traducibile in tutte le altre, dato che le varie misure che otteniamo si trovano all’interno di equazioni che formano un sistema deduttivo chiuso. In questo sistema ogni caratteristica dell’atomo si può dedurre dall’altra come in un cerchio (o come nella sfera perfetta di cui parla Platone nel Timeo, in cui ogni punto, cioè, in questo contesto, ogni valore caratteristico, si trova alla stessa distanza dal centro: ovvero, contribuisce nella medesima misura a creare il sistema).
Spin e raggio classico sono caratteristiche mutuamente esclusive come posizione esatta e velocità esatta. Quindi, se determiniamo (cioè: se per mezzo di un contesto sperimentale creiamo) un elettrone quanto alla velocità, lo lasciamo indeterminato (cioè: increato) rispetto alla posizione. Se determiniamo un elettrone quanto allo spin, escludiamo che possieda un raggio classico. Però, se determiniamo un raggio classico, questo non può essere che entro un determinato ordine di grandezza, come la lunghezza d’onda, la frequenza, etc.
7. E qui arriviamo alla soluzione del problema che abbiamo posto all’inizio di questa seconda parte del nostro lavoro. Infatti a questo punto – seguendo la logica del nostro esperimento di pensiero – possiamo senz’altro affermare che il campo gravitazionale non si estende nello spazio. Al contrario, il campo gravitazionale si costituisce in quanto rapporto conflittuale fra massa e spazio. Ugualmente, il campo magnetico si costituisce in quanto conflitto fra spazio e attrazione coulombiana. Lo spazio sarebbe dunque una sorta di segno meno dell’attrazione gravitazionale e dell’attrazione coulombiana.
Non si da massa senza spazio, né spazio senza massa. Neppure si da spazio senza attrazione coulombiana né attrazione coulombiana senza spazio. Il campo gravitazionale è dunque un’entità che si costituisce di spazio e massa, come il campo elettrico è un’entità che si costituisce di spazio e carica elettrica positiva/negativa. Ma, a sua volta, lo spazio non ha un’importanza maggiore che le altre componenti dell’universo, e non può sussistere senza di esse. Se guardiamo all’atomo, tutto questo ci appare in trasparenza: noi non abbiamo un concetto di “raggio dell’orbitale” se non in ragione di una certa carica elettrica, di una certa massa, di una certa lunghezza d’onda, etc. E lo stesso vale per il concetto di “raggio classico”.
Dunque: a un livello profondo tutte queste entità (massa, carica, raggio classico, raggio delle orbite, lunghezza d’onda, frequenza, tempo, velocità, spin) possono essere considerati degli aspetti di un’unica sostanza che, a seconda del contesto sperimentale, possiamo generare-determinare in questa o in quella maniera (sarebbe dunque questa la matrice scientifica del monofisismo religioso Antico Egizio: e ciò che loro chiamavano “magia” corrisponderebbe a ciò che nel presente chiamiamo “scienza empirica”).
Nozioni di questo genere sembrano contrastare con quel che una certa fretta siamo inclini a definire il nostro “senso comune”: dimentichi del fatto che il nostro “senso comune” – ovvero un insieme di nozioni che siamo inclini a dare del tutto scontate, deriva in buona parte dall’istruzione scolastica che bene o male abbiamo ricevuto. Un’istruzione che a sua volta deriva dalle inclinazioni spirituali profonde della nostra cultura, che non necessariamente riguardano il resto del genere umano.
Ma se facciamo astrazione da tutto quello che siamo inclini a dare per scontato e ci poniamo seriamente la questione, vediamo che le rappresentazioni del nostro cosiddetto “senso comune” non sono così scontate come siamo portati a credere, almeno se rimaniamo a livello microscopico. In effetti: perché non dovremmo dire che in una certa quantità di massa è contenuta una certa quantità spazio? Perché non dovremmo dire che nella massa a riposo dell’elettrone (9,109 382.. × 10-31 kg ) è contenuto uno spazio di 2,8179403267… x 10-15 m, e che nella massa a riposo del protone (1,6726231.. x 10-27 kg) è contenuto uno spazio di 1,535 × 10-18 m? Perché non dovremmo pensare che la massa è primitiva e lo spazio è derivato?
La risposta a tali questioni è relativamente semplice. Quel che ci impedisce di esprimerci (e soprattutto: di sentire) in modo diverso da quello usuale sono delle convenzioni grammaticali intorno alla parola spazio (stiamo parlando di “grammatica” e “convenzioni grammaticali” nel senso in cui Wittgenstein usava questi termini nelle “Ricerche Filosofiche”). Ma queste convenzioni a loro volta derivano dalle inclinazioni spirituali profonde della cultura Occidentale, che, come è stato molte volte notato, è nata dalla passione prospettica per lo spazio infinito.
Un lettore italiano da per scontato che l’esperienza descritta da Leopardi nella sua poesia più celebre – L’Infinito – sia un’esperienza piacevole. Anzi a suo dire si tratta del paradigma stesso del piacere. Un paradigma cui, dal suo punto di vista, tutto il genere umano – in ogni tempo, in ogni luogo e in ogni cultura – fa riferimento. Non meno scontato ci appare il Leopardi dello Zibaldone che ci spiega che il piacere deve aver a che fare con esperienze confuse che, generando un vago sentire confuso e indefinito, danno l’illusione dell’infinito piacere, che sarebbe ciò cui ogni uomo aspira.
Ora, non c’è storico minimamente serio che non si renda conto della quasi commovente ingenuità di questi atteggiamenti, ove vengano proiettati su culture diverse dalla nostro. Essi infatti sono da riferirsi in modo praticamente esclusivo all’uomo occidentale. Esperienze e valutazioni come quelle che Leopardi teneva per ovvie erano del tutto sconosciute ai Greci Classici, a cui le grande estensioni spaziali – come il mare – facevano orrore, al punto che in epoca periclea gli osservatori astronomici vennero chiusi. Ciò non accadde perché gli astronomi fossero persone ostili al potere costituito o perché stavano sempre lì a chiedere soldi in prestito, ma per il semplice motivo che la mera nozione di uno spazio cosmico smisurato negava il qui e l’ora, l’eterno presente in cui l’anima pagana vedeva la propria essenza. E questo dava fastidio all’anima greca indipendentemente da qualsiasi considerazione pratica. L’orrore o l’indifferenza per l’idea stessa di spazio fu tale che Euclide riuscì a scrivere un intero libro di geometria senza mai usare la parola “distanza”.
In Occidente invece lo spazio e la lontananza – e dunque, in ultima analisi, l’infinito – sono fin dall’epoca delle spedizioni dei Vichinghi l’oggetto di percezione e di passione primario e insostituibile. Privato dell’idea dell’infinito, lo spirito occidentale si sente soffocare, o addirittura morire. Ed è proprio per questo che lo spazio noi siamo abituati a definirlo come a qualcosa di per sé esistente, e l’oggetto come al qualcosa che in esso è contenuto e senza di esso non può sussistere. Ma oggi la nostra scienza è arrivata al punto che non può andare avanti a meno che tutti i suoi concetti quantitativamente descrivibili non diventino reciprocamente e radicalmente complementari.
E, chissà, forse l’affacciarsi di questa nuova idea della scienza – che è avvenuta negli anni Venti e Trenta del secolo scorso – è stato l’inizio della fine dell’idea occidentale della vita. Un’idea che, se non ha toccato proprio ogni angolo del mondo (un paio di miliardi almeno di Cinesi e di Indiani, non ne sanno nulla, come non ne sanno nulla centinaia di milioni di Africani) di certo è l’unica fra quelle dotate di un livello molto alto di complessità che in questo momento vede estendere ogni giorno di più il suo potere e la sua influenza in tutto il mondo. Dobbiamo però riconoscere che il suo interno sviluppo sembra giunto a dei limiti estremi. Tanto estremi che lo scopo della vita dell’uomo medio occidentale sembra essere diventato quello di tenere in piedi una sorta di autoinganno collettivo.
A ben vedere, lo sfrenato e incessante attivismo che regna nelle nostre società assomiglia sempre di più a quello di un formicaio, e la fretta quasi paranoica che domina ogni angolo del nostro tempo quotidiano assomiglia ogni giorno di più a quella del disgraziato operaio alla catena di montaggio genialmente rappresentato da Charlie Chaplin nel celebre film “Tempi moderni”.
Per quanto a malincuore, occorre forse riconoscere che il nostro interminabile affaccendarci non sembra altro che un modo di rimuovere il profondo sentimento della sua totale insignificanza e inutilità. Alzi la mano chi crede veramente che il nuovo modello di telefonino – il cui schermo necessita di materie prime per cui si combattono in Africa guerre pluridecennali con milioni e milioni di morti – possa riempire quel vuoto spirituale di cui ogni nuova generazione pare sempre più ammalata.
8. Comunque sia, per quanto ciò possa scandalizzare il nostro spirito – ovvero la nostra nostalgia dell’infinito – a livello di descrizioni come quelle della meccanica quantistica – che ne siamo coscienti o no – non troviamo più uno spazio in cui sono contenuti degli oggetti. Al contrario, il concetto di “oggetto” viene definito da quello di “spazio” e viceversa: la massa dell’elettrone non è altro che l’altra faccia dell’orbitale, il raggio dell’orbitale l’altra faccia della carica elettrica, la carica elettrica l’altra faccia della lunghezza d’onda, la lunghezza d’onda l’altra faccia della massa, la massa l’altra faccia della velocità, etc.
La spazialità – che ne siamo coscienti o no – già a questo livello di sviluppo della nostra scienza è diventata una delle manifestazioni sensibili di una sostanza che, prima di qualsiasi determinazione, ha una massa a riposo e non ce l’ha, ha un raggio classico e non ce l’ha, ha una carica elettrica e non ce l’ha, si trova in un certo luogo, oppure no. Ma abbiamo visto che questa determinazione è una funzione matematica basata su π e ɸ, 10 e numero di Eulero: ciò che fino ad adesso si è chiamato “spazio”, “tempo”, “velocità”, “carica”, “massa”, “spin”, etc, possiamo arrivare a pensarli come manifestazioni di π e ɸ attraverso una particolare funzione. Ed è questa particolare funzione a stabilire se stiamo parlando di spazio, oppure di tempo, oppure di massa, o di raggio classico, etc.
Il principio di complementarità non si riferisce dunque – in questo contesto – a qualità oggettive di una certa entità – come l’elettrone – di cui di volta in volta possiamo conoscere ora quest’aspetto, ora quest’altro. Il principio di complementarità diventerebbe una sorta di “principio di esclusione”. Esso stabilirebbe l’impossibilità di poter determinare una certa parte della sostanza del mondo (che qui dobbiamo pensare in analogia alla χώρα di Platone) contemporaneamente per mezzo di certe funzioni π e di ɸ, 10 e numero di Eulero, che invece si escludono a vicenda.
E qui sorge questa fondamentalissima questione: se le cose a livello microscopico stanno così, come è possibile che a livello macroscopico quel che di fatto possiamo percepire sono solo categorie come lo spazio, il tempo e la massa (intesa come oggetto del tatto)? L’esclusività di queste categorie percettive è tale che quel che sia la lunghezza d’onda, il magnetismo, l’interazione debole e forte, il campo gravitazionale, dobbiamo impararlo a scuola. Mentre che i solidi sono impenetrabili, pesanti ed estesi nello spazio e nel tempo tutti lo vediamo immediatamente (anche se è vero che potremmo sostenere – alla maniera del Platone del Timeo – che non vediamo mai qualcosa come “lo spazio” ma, appunto, solo entità che si costituiscono anche di spazio).
E qui dobbiamo riprendere quella spiegazione preliminare di questo fatto che abbiamo dato nella parte seconda di questo scritto. Forse, questa caratteristica del mondo macroscopico – che è in chiara contraddizione con la situazione che troviamo nel mondo microscopico – è connessa con il fatto che le forze magnetiche – al contrario di quelle spaziali, gravitazionali e temporali – si trovano quasi sempre in perfetto equilibrio, ovvero si annullano a vicenda.
Dunque lo spazio e la massa potrebbero essere concepiti come ciò che della χώρα si rende manifesto (cioè: percepibile con i sensi) all’uomo (e al vivente, all’essere senziente in generale) in quanto si trovano in perenne e reciproco squilibrio. E questo squilibrio prende la forma di campi gravitazionali ed entità spaziotemporali (che, in questa concezione, sono il frutto di un’interazione di massa e spazio, inteso come spazio-tempo) che variano di continuo.
Questa è una cosa che sembra venir fuori quando analizziamo in profondità il senso di proposizioni quali “i corpi sono dotati di estensione spaziale” o “i corpi sono impenetrabili”. In effetti, possiamo domandarci: che cosa supponiamo a livello fisico quando diciamo, per esempio, che “i corpi sono impenetrabili” ? Forse, noi supponiamo che le forze magnetiche sono in equilibrio fra di loro (a parte casi eccezionali: altrimenti il mondo sarebbe, per così dire, intasato di campi magnetici) e che invece quelle gravitazionali (cioè lo spazio inteso come forza e la massa intesa come forza ad esso opposta) stanno invece in quello che possiamo definire forse un costante squilibrio armonico, che da luogo a volte a mutamenti ciclici – come quelli del sistema solare – che sono soggetti a variazioni lentissime. Altre volte invece danno luogo a mutamenti relativamente unici, come per esempio, il rotolare del sasso lungo un pendio.
9. Con il nostro esperimento mentale, in cui tutti i membri di qualsiasi equazione fisica o chimica che sia sono intesi come forze (spazio e tempo compresi) e come funzioni di π e di ɸ, 10 e numero di Eulero (funzioni che non ci dicono altro che una sostanza indeterminata, pensata sul modello della χώρα platonica, si è determinata in un certo modo), siamo arrivati al punto in cui non sembra esistere più alcuna contraddizione fra la meccanica relativistica e quella quantistica. Al limite, potremmo tranquillamente “riabilitare” anche la formula di Newton, pensandola, sul modello del Wittgenstein del “Tractatus Logico-Philosophicus” – come un modo di stenografico di rappresentare della relazioni fisiche che, a un livello profondo, sono molto più complicate. Ma anche questa stenografia dell’universo – intesa in un certo modo – non sarebbe da considerarsi meno veritiera di quella che potremmo chiamare una “trascrizione per esteso”.
Per spiegarci bene possiamo ancora una volta prendere in considerazione la formula di Newton F = (G m1 x m2) : d2. Come tutti sappiamo, quando diciamo che quel certo corpo ha una massa di 1 kg, noi sappiamo che questo significa che quel corpo è costituito da un certo numero di elettroni, di protoni e di neutroni. È solo sommando la massa di queste minuscole entità che arriviamo a un totale – supponiamo – di 1 kg.
Ma adesso, nel contesto di questo esperimento mentale, noi supponiamo che questa entità – che chiamiamo “massa” – altro non sia che una particolare funzione di π e di ɸ, 10 e numero di Eulero. Lo stesso vale per G: adesso anche questa costante noi la vediamo come un’altra funzione di π e di ɸ, 10 e numero di Eulero. E, in questo senso, essa ci appare ed è diversa da ciò che chiamiamo “massa” solo nella forma matematica, non nella sostanza. Infatti, in questo nostro esperimento di pensiero, siccome adesso noi immaginiamo il mondo come composto da una sostanza indeterminata, che prende forma di “forze” di vario genere – la cui unicità non è altro che un riflesso dell’unicità di certe funzioni di π e di ɸ, 10 e numero di Eulero – noi non vediamo più l’azione di G su m1 x m2 e su d2 come un influsso misterioso di un qualcosa di totalmente irreale – un puro numero – su qualcosa di reale – la massa e la distanza. Al contrario, noi lo vediamo come l’interagire di un’unica sostanza con sé stessa per mezzo di funzioni che producono dei numeri che – in questo senso – sono essi stessi delle forze, dato che, in questa concezione, non si può affatto distinguere fra i numeri e le forze. In un ambito di questo genere, dire “numero” (nel senso di funzione di π e ɸ, 10 e numero di Eulero) è lo stesso che dire “forza”.
Ciò che chiamiamo “massa” è un insieme di funzioni di π, di ɸ, del 10 e del numero di Eulero. Ad una di queste funzioni corrisponde il valore della massa del protone, a un’altra quella del neutrone, ad un’altra quella dell’elettrone, ad un’altra quella associata all’energia cinetica,etc. Anche lo spazio, in analogia con quel che avviene correntemente per l’energia, potremmo considerarlo come un sommarsi di quanti minimi. Resta però il problema di determinare (o almeno: di ipotizzare) come possa essere determinato un quanto minimo di spazio che, in questo contesto, non sarebbe altro che un particolare tipo di costituente dell’universo, e dunque un tipo particolare di energia.
Naturalmente, qui non siamo in un laboratorio di fisica. Qui siamo nell’ambito di un esperimento di pensiero (se non proprio di un mero gioco intellettuale), e il valore di questa particolare funzione lo potremmo immaginare in vari modi. Però, come abbiamo già avuto modo di vedere, già la scienza attuale ha determinato una sorta di “unità minima naturale”. Essa viene ricavata a partire da tre costanti fisiche: la velocità della luce, la costante di Planck e la costante di gravitazione universale, secondo la formula
ℓp = √(ħG/c3) = 1,616 252 × 10-35 m, con una incertezza standard di 8,1 × 10-40 m.
L’estrema vicinanza di questo valore (esclusa la potenza del 10) a quello di ɸ sembra una conferma implicita della nostra teoria, ovvero che tutti i valori costanti che utilizziamo nelle nostre formule sono funzioni di ɸ e di π, 10 e numero di Eulero. Sopra abbiamo visto che possiamo ricavare un’ottima approssimazione di questo valore dal numero d’argento, ovvero da χ = √10 – 3, nel modo che possiamo vedere sotto
1/10χ + 1 = (1 : 1,6227766..) + 1 = 0,616227766.. + 1 = 1,616227766.. ≈ ℓp = 1,616252..
Però, dato il contesto in cui abbiamo proposto il nostro esperimento mentale, sembra anche interessante notare, che questo valore può essere derivato da un’antica unità di misura del tempo, il Mese Precessionale, che corrisponde a 26000 : 12 = 2166,666… anni solari. Da questo valore possiamo ricavare ℓp facendo
16√2166,666… = 1,616169 ≈ ℓp = 1,616 252.. (-0,000083)
Sempre per via cosmologica, noi lo potremmo ricavare anche dal numero di giorni “puri” del calendario solare Antico Egizio (360) facendo l’inverso della sua radice quinta divisa per 2, che costituisce un’ottima approssimazione di 1/10χ + 1 (ricordiamo che 5 = (ɸ + 1/ɸ2)2).
1/(5√360/2)= 1 : (3,245342.. : 2) = 1 : 1,62267111.. = 0,616267.. ≈ ℓp – 1 = 0,616252 (+0,000015)
10. Il fascino numerologico di questo calcoli è indubitabile. Da un lato, abbiamo che il 2166,666.. contiene un’allusione al valore costante (100/60 = 1,666…) che ci serve per calcolare i centesimi di grado a partire dai sessantesimi di grado. Dunque, troviamo anche un’allusione al Numero della Bestia (666) che, come abbiamo visto sopra, contiene a sua volta un’allusione al 54, uno di quegli angoli – multipli di quello di 18 – che si possono generare a partire da ɸ. Dall’altro lato, esso ci rimanda al ciclo astronomico più importante per il mondo antico, il ciclo precessionale, e al numero ad esso connesso, il 26. Un numero che fu importante non solo per i Maya, ma anche per un libro come l’Antico Testamento, assolutamente fondamentale per la costruzione e la comprensione della nostra cultura.
Invece, l’altro calcolo ci rimanda alla relazione fra l’anno solare e il numero di parti in cui è diviso l’angolo giro, con tutte quelle innumerevoli implicazioni scientifiche che abbiamo visto a partire da The Snefru Code parte 3 e parte 7.
Adesso, dopo aver determinato il quanto di spazio, abbiamo il compito di determinare l’unità minima di tempo, ovvero il “quanto di tempo”. Forse potremmo definirlo in modo abbastanza soddisfacente ponendolo in connessione al “quanto di spazio” e definirlo come la quantità di tempo che la luce impiega a traversare il quanto minimo di spazio. Siccome abbiamo visto che c = 2,9979246 si può senz’altro trasformare in una funzione di π e di ɸ, in maniera ancor meglio approssimata di come abbiamo fatto con ℓp, diamo per scontato che la cifra che viene fuori da questo rapporto sia anch’essa una funzione di π e di ɸ. In onore a Planck, potremmo battezzare questa unità di misura “istante di Planck” (ιp) e il suo valore risulterebbe dal’equazione
ιp = ℓp/c
Se accettiamo di usare questo metodo per la ri-costruzione delle nostre equazioni, scopriamo che in questo modo tutti valori presenti – per esempio – nella formula di Newton – come per altro in qualsiasi altra formula – ci apparirebbero di colpo logicamente omogenei.
Dentro una fisica così ricostruita, tutti i valori in essa presenti sarebbero comprensibili e definibili in quanto “forze”, perché in questa concezione ciò che noi chiamiamo “forza” non si distingue più dal numero” (o da ciò che forse potremmo definire “numero pitagorico”: un numero capace di rendere ragione del detto “le cose sono numeri”). E, a questo punto, saremmo chiamati a rendere onore all’intuito di uno dei più grandi fisici del secolo scorso, quel Niels Bohr che ebbe il piuttosto incredibile coraggio di spiegare un fenomeno per il tempo completamente inspiegabile, quale la trasmissione istantanea di informazioni a distanze potenzialmente infinita con legami di tipo olistico-simbolico (dunque, in ultima analisi, di tipo magico) che la teoria istituisce per via matematica fra particelle generate in uno stato di “entanglement” (questo problema si pose nel momento in cui ci si rese conto che il collasso della funzione d’onda d’una particella A era in grado di darci informazioni su una particella B senza bisogno di effettuare nessuna misurazione: questo fatto divenne un grave problema per la meccanica quantistica, perché sembrava in grado falsificare il principio di indeterminazione)
In un contesto teorico come quello del nostro esperimento mentale, in cui qualsiasi entità del mondo viene vista come il magico determinarsi di una sostanza indeterminata per mezzo di funzioni di π e di ɸ, di 10 e del numero di Eulero, nella misura in cui – per esempio – G risulta da una funzione di questo genere, esso non differisce più in nessun modo da m1 e m2. E lo stesso vale per lo spazio e per il tempo (o, come potremmo dire, per lo spazio-tempo) che in questo senso non sono in nulla diversi dalla massa o dalle forze elettromagnetiche.
Inoltre – oltre ad aver trovato il modo di rendere le nostre equazioni fisiche logicamente omogenee – scopriamo che nel contesto di questo esperimento di pensiero non ha più nessun senso dire che il mondo è fatto di oggetti che si trovano in un certo punto dello spazio. Al contrario, dovremmo dire che lo spazio è una forza come le altre, e dare ragione a Platone quando diceva che attribuire alla posizione di un corpo un’esistenza sostanziale ( da cui deriva il pensiero che “ciò che non trova il suo posto o in cielo o in terra non esiste”) è una visione di sogno, frutto di un ragionamento bastardo, in cui la percezione non ha parte. Infatti, se seguiamo questa nuova concezione, quando noi vediamo un oggetto, non possiamo più dire che lo vediamo nello spazio, ma che lo vediamo costituirsi anche di spazio. E questo elemento dell’oggetto, sommandosi a quello di altri oggetti, ci da l’illusione di un qualcosa come lo spazio infinito. Dunque, se questa ipotesi si rivelasse giusta, lo spazio sarebbe una forza (o un elemento) che può esistere solo in un’inestricabile relazione logica e fisica – e dunque al tempo stesso apriori ed empirica – con le altre forze (o “elementi”) che costituiscono il mondo.
E abbiamo visto sopra che in questo modo il paradosso – diciamo così – più paradossale della meccanica quantistica, ovvero il fatto che ciò che chiamiamo “vuoto” è soggetto ad essere attraversato da flussi di energia che si generano come dal nulla (cioè, appunto dal “vuoto”), diventa facilmente comprensibile. Se interpretiamo la parola “vuoto” come “spazio vuoto”, o meglio ancora, semplicemente come “spazio”, e lo “spazio” lo interpretiamo come una forza al pari delle altre e trasformabile in tutte le altre (cioè come una forma di energia) a questo punto il fenomeno non ci appare più strano di nessun altro. Infatti, con il nostro procedimento, tutti i fenomeni ci appaiono oramai su uno stesso piano. Dunque: o tutti sono strani e incomprensibili, oppure tutti sono razionali e comprensibili.
Come ogni tanto, in base a una legge meramente statistica (cioè in base a una pura forma matematica) vediamo che di due particelle identiche una decade e l’altra no; oppure, quando nell’esperimento di interferenza a due fessure, vediamo che la particella – a parità di condizioni all’intorno – muta il punto in cui va a impressionare la lastra fotografica – di nuovo in base a una legge meramente statistica (cioè di nuovo in base a una pura forma matematica) – così anche lo spazio – inteso come forza – in base a una legge meramente statistica “decade” (cioè si trasforma) in qualcosa di diverso, ovvero, come diciamo, in dei “flussi statistici di energia”.
E a questo punto avremmo capito che cosa intendeva Platone quando faceva dire a Timeo che “le conoscenze fisiche sono solo probabili”. Oppure, quando diceva che nessuno può dire “senza vergognarsi” che una certa cosa sia un elemento o un altro, perché ognuna continuamente si trasforma nell’altra. Infine, non è proprio questo quello che avviene nell’ambito della meccanica quantistica?
Per fare un esempio, noi sappiamo che possiamo attribuire una massa all’elettrone. Una massa che però possiamo trasformare (matematicamente, e dunque, si vorrebbe dire: magicamente) in una lunghezza d’onda. Oppure: con il nostro “esperimento” noi possiamo creare un’entità che ha una posizione ben definita ma non una velocità definita; oppure, al contrario, un’entità con una velocità ben definita ma priva di posizione. Dunque noi possiamo trasformare un ente dotato di velocità in uno dotato di posizione.
Ma non potrebbe essere proprio questo il significato della concezione platonica, che ogni cosa si trasforma continuamente in un’altra e non c’è modo di definirle in modo stabile? A seconda del contesto sperimentale noi vediamo che un’entità che ora dotata di raggio classico poco dopo si muta in un’altra caratterizzata dallo spin, poi in una caratterizzata dalla lunghezza d’onda, poi in una dotata di massa, etc. Dunque, che l’elettrone abbia un raggio (ovvero: che si costituisca di quell’elemento che chiamiamo “spazio”), dipende dalla struttura dell’esperimento: se la struttura dell’esperimento cambia, noi vediamo che il raggio classico (cioè lo spazio) si muta in spin (cioè in un movimento rotatorio). E questo vuol dire: è la struttura dell’esperimento (cioè ciò che noi chiamiamo “misurazione” e che per gli Antichi Egizi era un “agire magico”) a creare una certa struttura della χώρα (dunque: a creare lo spazio logico che viene misurato).
11. Questa che abbiamo proposto come una traduzione moderna della fisica nascosta nella Grande Piramide e (molto) oscuramente esposta nel Timeo, sarebbe dunque una visione del cosmo fisico che costituisce una radicalizzazione tanto dell’interpretazione detta “di Copenaghen” della meccanica quantistica che della meccanica relativista: una radicalizzazione che rende infine queste due teorie, fino ad ora considerate opposte e inconciliabili, del tutto sovrapponibili. Il determinismo della visione einsteiniana vi apparirebbe come il precipitato della possibilità di spazio e massa di sommarsi in modo praticamente indefinito, raggiungendo ben presto il punto critico in cui i loro rapporti logico-empirici con le forze magnetiche scompaiono dalla vista.
Infatti, durante il nostro esperimento di pensiero siamo giunti a ipotizzare in tutta serietà che ciò che chiamiamo “esperimento” – ovvero la “determinazione dei parametri dinamici di una particella” – sia in realtà la generazione di un qualcosa che prima di tale “esperimento” non esisteva. L’esperimento dunque non sarebbe altro che un atto creativo umano – che in questo senso non è diverso da quello dell’Artefice divino, il Demiurgo del Timeo – con cui da una sostanza indeterminata si trae una forma, che è e altro non può essere che una pura forma matematica.
Questo sarebbe anche il senso di quelle antiche credenze Antico Egizie, per cui chi si impossessava dei nomi delle divinità si impossessava del loro potere: se i “nomi” di queste divinità sono funzioni matematiche basate su π e ɸ, ecco che il fondamento scientifico di questa che credevamo una superstizione ci appare del tutto chiaro. Per esempio, se “[π : 32√(2 x √5)] ” è il “nome” della velocità della luce, esso può anche essere verosimilmente inteso come il nome segreto del Sole inteso come una divinità. Il possesso di questo “nome” conferisce il potere sulla divinità, nel senso che chi conosce il segreto matematico di questa forma di energia può piegarla ai propri scopi.
Il principio di indeterminazione di Heisemberg è stato spesso interpretato in questo modo: che quando misuriamo in modo molto preciso la velocità di un elettrone l’errore quanto alla posizione tende all’infinito, e viceversa. Partendo da questa visione cosmologica, noi non dovremmo più esprimerci in questo modo, dato che non si dovrebbe assolutamente più parlare di un “errore”. Al contrario, dovremmo dire che ciò che chiamiamo “elettrone” è qualcosa che può arrivare all’esistenza solo attraverso ciò che noi chiamiamo la sua “determinazione”. Prima di questa, l’elettrone non è altro che χώρα, cioè una sostanza invisibile e indeterminata che esiste solo come mera potenzialità – ovvero come materia per una possibile forma matematica.
Ma, nel contesto teorico che abbiamo ipotizzato, questo discorso non dovrebbe valere solo per le particelle, ma anche per la struttura dell’atomo nel suo insieme. Se accettiamo il discorso platonico nella sua radicalità, allora possiamo e forse dobbiamo ammettere che anche altri modelli atomici, oltre a quello comunemente accettato e tenuto per vero, potrebbero essere accettabili e verosimili.
Per esempio, in certi contesti, il modello di Rutherford potrebbe andare bene, come potrebbe andare bene anche il modello detto “a panettone”, in cui gli elettroni vengono immaginati come delle uvette sparse per una pasta, che non sarebbe altro che l’energia positiva che noi, attraverso il modello a “sistema solare” immaginiamo confinata in un nucleo molto piccolo. Il nostro senso comune scientifico ci spinge a priori a rifiutare ipotesi di lavoro di questo genere: eppure, sembra che il neutrone non sia altro che una sorta di “panettone” in cui sono in qualche modo fusi, o mischiati, un protone e un elettrone. Dunque, non è escluso che in certi contesti sperimentali – che in questo momento non siamo in grado di costruire – l’intera struttura atomica dell’atomo possa apparirci come ci appare il neutrone, vale a dire come un miscuglio di entità che per solito consideriamo separate. Noi siamo convinti che questo non possa accadere perché siamo certi che i legami chimici consistano di elettroni che si scambiano gli orbitali esterni dei rispettivi atomi. Ma non è escluso che possano crearsi anche in dei modi che in questo momento non siamo capaci di immaginare.
Ci stiamo qui riferendo in particolare a quell’ipotesi che abbiamo avanzato per la prima volta in The Snefru Code parte 3 e parte 7. Ovvero che nell’antichità si riuscissero a formare e a spostare giganti di granito come quelli con cui sono state costruite le mura di Sacsaywaman, dilatando il nucleo degli atomi, in modo da renderli pesanti tanto quanto gli elettroni: in questa particolare situazione, può darsi che l’atomo (quello del granito, ma anche quello di altri materiali) possa assumere una struttura che in questo momento la nostra teoria esclude, ma che in altri contesti potrebbe essere l’unica corretta.
12. Inoltre, tutto quel che abbiamo visto nel corso di questo lavoro può dare un contributo di qualche importanza alla soluzione di uno dei problemi più spinosi che sono stati lasciati aperti dalla teoria della relatività. Si tratta del problema delle stelle esterne delle galassie a spirale, che in base ai calcoli che possiamo fare a partire dalle nostre equazioni dovrebbero essere scagliate nel vuoto intergalattico dalla forza centrifuga. Invece, per nostra fortuna, continuano a orbitare intorno al centro della Via Lattea, del tutto indifferenti ai nostri calcoli, a quanto pare, da un bel po’ di miliardi di anni.
Però in The Snefru Code parte 9 abbiamo ben visto che ci sono delle buone ragioni per credere che una costante fondamentale come h (e dunque, di riflesso, anche ħ) sia in realtà un variabile. Ma se questo è vero per ħ, questo potrebbe valere anche per la costante gravitazionale G.
In effetti, se ipotizziamo che G non sia un numero costante valido in tutto l’universo, ma il risultato di una funzione che cresce in proporzione al valore della distanza fra le masse in gioco e al numero d’oro, potremmo in questo modo gettare le basi della comprensione matematica di quella tipica figura – la spirale di Fibonacci – che caratterizza tutte le galassie di questo tipo
Che cosa significa questo ragionamento? Che la figura che vediamo disegnata nello spazio da galassie a spirale come quelle che possiamo vedere nelle immagini sopra potrebbe corrispondere al diagramma di accrescimento della costante G. Un accrescimento che si verifica con l’aumentare della distanza dei corpi celesti dal buco nero che si suppone sia al centro di ogni galassia di questo tipo: e questo diagramma di accrescimento dovrebbe corrispondere in qualche modo alla formula della spirale aurea. L’aumento proporzionale di G in base a una funzione fondata su ɸ e sulla distanza farebbe in modo che il fattore di diminuzione del campo gravitazionale rappresentato da “d²” – verrebbe parzialmente controbilanciato.
In questo modo potremmo spiegarci il motivo per cui le stelle esterne delle galassie risultano sottoposte a una forza di gravità di intensità maggiore di quella che possiamo calcolare in base alle nostre formule attuali. E potremo fare questo senza bisogno di un concetto tanto problematico come quello di “materia oscura”, che sembra creare più problemi di quanti non ne risolva. E che agli estremi della galassia il campo gravitazionale debba essere più intenso di come siamo portati a credere in base alle formule in nostro possesso risulta evidente non solo dal fatto che le stelle esterne non vengono scagliate nel vuoto intergalattico, ma anche dal fatto che le parti estreme della spirale galattica sembrano come ritornare verso il centro. Quasi che, al momento in cui sono state catturate dal buco nero abbiano dapprima, per così dire, tentato di continuare la loro corsa verso l’esterno, ma che poi, perdendo massa e dunque anche energia cinetica lungo il percorso, siano infine come “rimbalzate” nel campo gravitazionale, tornando parzialmente indietro.
Questa ipotesi può sul momento risultarci strana, o addirittura incredibile. Ma, in realtà, essa non sarebbe altro che il corrispettivo macroscopico di un fenomeno che a livello microscopico viene tranquillamente accettato. Stiamo parlando del modo in cui l’interazione forte agisce sulle particelle che costituiscono i protoni e i neutroni. Ogni protone e ogni neutrone è composto invariabilmente di tre quark. I quark sono tenuti uniti dallo scambio delle particelle mediatrici della forza forte i gluoni, così battezzati perché “incollano” i quark l’uno all’altro (e in inglese “glue” significa appunto “colla”) .
Il modo con cui i gluoni tengono uniti i quark viene spesso paragonato a quello di un robusto elastico. Quando i quark sono vicini, l’elastico è allentato, e dunque godono di una certa libertà di movimento l’uno relativamente all’altro. Invece, quando i quark cercano di allontanarsi fra loro l’elastico si tende e li attrae l’uno verso l’altro. Quanto più essi si allontanano, tanto più l’elastico si tende e tanto più fortemente essi sono attratti.
In buona sostanza, questo significa che l’intensità dell’interazione forte aumenta all’aumentare della distanza delle particelle interagenti. Ma il raggio d’azione dell’interazione forte è estremamente piccolo, sufficiente per garantire l’integrità dei nuclei atomici.
In analogia con l’azione dei gluoni sul nucleo, noi potremmo paragonare l’azione della costante gravitazionale a quella di un elastico. Via via che ci si allontana dal buco nero che si trova al centro di ogni galassia a spirale, essa aumenta, in modo tale che per le stelle che si trovano ai margini delle spirali è impossibile sottrarsi al campo gravitazionale del buco nero. Questo ci spiegherebbe anche in modo molto soddisfacente quel “rimbalzo” che sembrano aver subito le stelle che si trovano nelle zone più estreme.
Questo “elastico” costituito dalla costante G potrebbe essere esteso all’intero universo. In questo modo, quel punto di estrema contrazione che avrebbe causato il Big Bang potrebbe essere considerato davvero come un’allucinazione indotta da una falsa interpretazione dei dati di fatto, causata da una teoria gravitazionale incompleta. Se la nostra ipotesi si rivelasse infine giusta, avrebbe ragione il Platone del Timeo, che parla dell’universo come un essere vivente e che dunque respira: cioè si contrae e si dilata, si contrae e si dilata, proprio come un essere vivente mentre respira.
Questo, a sua volta, renderebbe ragione di quelle antichissime religioni con cui, attraverso il controllo del respiro come atto religioso, il fedele si unisce all’universo inteso come un corpo divino o addirittura come la divinità stessa. Dunque – questa che per noi è solo una tecnica salutistica fra le altre, nata chissà come da civiltà che giudichiamo immerse nella superstizione – sarebbe stata resa possibile dal possesso di verità fisiche fondamentali, che a noi sono rimaste finora del tutto sconosciute.
Queste verità fisiche avrebbero fatto un tempo un corpo unico con delle verità teologiche ancor più fondamentali, che assieme avrebbero generato una disciplina come lo yoga – attraverso cui il fedele entra in comunione e diventa tutt’uno l’universo – con la sua vita che, nata con il tempo, è destinata a durare, secondo il Platone del Timeo, quanto duri il tempo.